LETTERATURA: Il malocchio
22 Novembre 2007
racconto di Gian Gabriele Benedetti
[di Gian Gabriele Benedetti: “Paese”, Lalli Editore, 1986]
“La superstizione è la poesia della vita”
Goethe, Massime e riflessioni
Già si scorgevano da lontano le due casupole in cima alla costa. Bianca l’una, d’un bianco quasi abbagliante nel sole a picco di giorni sereni; grigia, smorta l’altra, a rammentare antichi richiami di pietre sudate. Graziosa, vanitosa la prima per un trucco recente; intristita, rugosa, stanca di tempo la seconda. Un centinaio di metri di prato in ripido precipitare le divideva.
Entrambe fumavano dai comignoli sui tetti spioventi, a testimoniare la vita, ma storie diverse discretamente conservavano.
Nella casa grigia una vecchia, sola e taciturna, consumava i suoi ultimi anni, appesa, forse, soltanto a ricordi lontani; nella bianca due giovani sposi con un pargoletto roseo, da sembrare un angioletto caduto dal cielo, cucivano geometrie di giorni felici.
Lassù, dove ogni cosa era prevista, dove nulla mutava se non il volto delle stagioni, dove il mistero del silenzio, fatto di armonie naturali come voci di vento e canti di uccelli, si cullava eternamente, lassù tutto trascorreva tranquillo, come sempre.
Ma quel giorno un uomo, uno sconosciuto, fu visto salire lentamente lungo il viottolo che annaspava con le sue spire tra siepi intricate di more e bosso lucente. E venne a turbare la quiete e la monotonia di quei luoghi.
Lo scorse la giovane sposa, intenta ai panni stesi, ridenti al solletico della brezza, e si affannò a chiamare il marito, che raspava sui poggi vellutati e nei campicelli, fatti di terra maligna. I due corsero verso casa dal loro bambino, addormentato profondamente nella soffice cunella.
Guardarono, curiosi ed apprensivi, dai vetri la figura massiccia che a momenti spariva e poi di nuovo appariva, sempre più distinta, a seconda del serpere del viottolo.
Chi mai era costui? Che cosa veniva a fare in quel mondo lontano e sperduto, dove raramente qualcuno capitava?
L’uomo fu all’uscio della casa bianca. Attese un attimo e quindi bussò deciso.
Indecisi furono gli sposi se aprire oppure no.
“Ohé, di casa! C’è nessuno?” una voce un po’ cavernosa e ripugnante gridò.
Fu allora che il giovane sposo, pur con dubbi fitti nella mente, si risolse e tirò il chiavaccio. Dinanzi si trovò un omaccione di mezza età , vestito alla montanara, con i panni pesanti, nonostante il caldo di quel pomeriggio di fine estate. In testa aveva un cappello grinzoso a tese, nero come la notte. Un enorme fazzoletto scuro gli cingeva il collo e si alzava sul davanti fino a nascondergli il mento e parte della bocca. Il viso era cupo e pesantemente segnato dal tempo. Gli occhi erano accesi, simili a quelli delle fiere, tanto che la loro luce si sarebbe potuta vedere nel buio. Lo sguardo trasudava perfidia e acume mischiati tra loro e penetrava con la sua forza sino nell’intimo di chi lo seguiva, e sconvolgeva e pareva stregare.
Il giovane rimase immobile ed interdetto a guardarlo.
“Mi fareste la carità di un bicchier d’acqua, ché sono stanco e assetato?” chiese l’uomo con la solita voce rauca e disgustosa.
Fu fatto accomodare, anche se a malincuore, e la sposa corse alla secchia. Col ramaiolo empì il bicchiere, porgendolo svelta svelta allo sconosciuto, che bevve avidamente.
“Ora sto meglio” disse questi. “Mi sono tolto l’inferno dalla gola”.
Ma l’inferno sembrava uscirgli da quegli occhi di fuoco. Ciò appariva agli sposi, e li sconcertava, li intimoriva, li allarmava. Non vedevano l’ora che se ne andasse. L’uomo, invece, asciugandosi la fronte rugosa col dorso della mano, temporeggiava. E prese a guardare minuziosamente la stanza che serviva da cucina. Si accorse della culla, posata là nell’angolo più lontano dalla luce. Un sorriso maligno gli dipinse il volto avvizzito, e subito si diresse verso quella parte.
“No…!” quasi gridò la donna, come presa da un improvviso angoscioso timore.
“Non me lo volete far vedere? Ma i bambini mi piacciono. Non ve lo mangio mica!” si risentì lo sconosciuto.
“E’… solo che il bimbo dorme e… non vorrei si svegliasse. Tutto qui” tentò di giustificarsi la giovane.
L’omaccione si avvicinò alla cunella e tra le molli ed abbondanti coperte del sonno vide spuntare il visino tondo, tenero, dolce del piccino, contornato da una delicata cuffietta di lana bianca, che le mani preziose ed amorose della mamma avevano abilmente modellato.
“Ma che bel pargoletto!” gracchiò, prendendo a vezzeggiarlo, chinato sulla creatura con lo sguardo acceso che pareva incendiarsi di più. “E’ proprio un amore… Più piacevole di così non vi poteva capitare. Siete stati davvero fortunati”.
Si piegò maggiormente sulla cunella, come a veder meglio, e dalla sua bocca uscirono, in un mormorio confuso, parole incomprensibili.
A quel punto, apparentemente soddisfatto, salutò e se ne andò.
Gli sposi rimasero a guardarsi tuttora frastornati, ma con un certo sollievo che prendeva consistenza nel loro animo, come a sentirsi finalmente liberati da un incubo.
Lo sconosciuto si avviò ad ampie falcate verso la casa grigia. Qui lo vide la vecchia, fattasi sull’uscio. I due si scrutarono a lungo, senza profferir parola: uno in atto di sfida, l’altra come saputa. Poi l’uomo proseguì il cammino e, nell’allontanarsi, di tanto in tanto, si voltava a guardare la vecchia col viso cupo e l’occhio maligno, fino a quando non sparì, simile a fantasma, nel bosco soprastante.
In cielo, intanto, una nuvola scura, enorme, ribollente, aveva cancellato il sole. Subito ne apparve un’altra, che si aggiunse alla prima. Di seguito un’altra, un’altra ancora, finché l’aria non si fece pressoché buia e la terra si dipinse d’angoscia. Bagliori accecanti, rabbiosi, rapidi, in frenetiche sequenze, squarciarono la nera coltre e la incendiarono ripetutamente. Apparivano improvvisi, strisciavano, zigzagavano imprevisti, si sfrangiavano e presto venivano inghiottiti da un’oscurità fattasi sempre più intensa. Il tuono, come urlo di cannone, scuoteva ogni volta la natura smarrita e trovava indifeso anche l’animo. Un vento repentino, sbucato chissà da dove, pazzo nella sua veemenza incontrollata, prese a sconquassare le povere chiome, che nel piegarsi disperato lasciavano parti della loro veste disperdersi nell’aria infuriata, tanto da sembrare, queste, piccoli uccelli folli, senza meta. Acqua, simile a funi oblique tese tra cielo e terra, con fragore d’onda impetuosa, cominciò impietosamente a violentare ogni cosa intorno. Ed ai poggi ed alle chine ripide parvero dilatarsi le ferite turgide nello strepito della montagna.
Nella casetta bianca il bimbo si era svegliato, come preso da un’istantanea, imprevista bizza. Strillava senza requie e s’agitava disperatamente al pari del tempo fuori.
La mamma lo accolse premurosa tra le braccia, tentando di calmarlo con una graziosa ninna-nanna:
“Fai la ninna,
fai la nanna,
tesoruccio della mamma”.
In questo modo gli cantava, dondolandolo delicatamente, ma non v’era possibilità di rabbonire quel pargoletto irriconoscibile, mai visto fino ad allora in quello stato.
“Passa via, canaccio nero,
ché il mio bimbo
non te lo do!
Lo darò a Dio del cielo
che lo tenga un anno intero”.
Continuava la giovane che iniziava a dar segni di viva preoccupazione.
“Avrà fame” disse il babbo. “Prova a dargli la poppa”.
Così fece la donna, ma il bimbo la rifiutò decisamente, dimenandosi in modo scomposto in tutto il corpo e continuando a strillare ed a smaniare da far venire i brividi. Era come invasato.
“Si sarà sporcato sotto” azzardò a quel punto il padre. Però sporco non era.
I due sposi non sapevano più a che Santo votarsi e pensarono al peggio. La mamma, avvilita, già piangeva nel vedersi impotente.
Proprio allora si rammentarono della vecchia, loro vicina, che aveva sicuramente più esperienza. Ed il giovane si precipitò sotto il diluvio alla casa grigia. Vi giunse in men che non si dica ammollato da capo a piedi, confuso dal vento e dai tuoni, “allumato” dai lampi. Batté secchi, convulsi colpi all’uscio, che s’aprì in un amen, come se la vecchia fosse stata lì dietro ad aspettarlo.
“Venite a casa nostra…, fate presto, vi prego, voi che siete esperta! Il bimbo non trova pace… Non si sa che abbia… Siamo disperati… Si teme qualcosa di grave…”
“So ben io quello che ha quel pargoletto! Vengo subito, non vi preoccupate. Ci penso io”.
La vecchia sparì in fretta nell’ombra della piccola stanza, appena attutita dalla fiamma del ciocco che sfrigolava nel camino, e riapparve con uno scialle nero sulla testa a ricoprirle anche le spalle, per ripararsi un poco dalla bufera che veniva giù.
Si incamminarono solerti e silenziosi, uno avanti l’altra dietro, nel pantano del viottolo, in direzione della casetta bianca, che appariva ogni tanto, accendendosi di luce irreale al susseguirsi del fulmine.
Già fuori si avvertivano, pur nel frastuono del temporale, le grida incontenibili del piccolo. Entrarono alla svelta, e la vecchia posò lo scialle gocciolante su una sedia.
“Prendete il Crocifisso di camera e mettetelo sul tavolo. Preparatemi un piatto colmo d’acqua e portatemi la bottiglia dell’olio” ordinò decisa e sicura che non pareva più lei.
Così fu fatto, senza fiatare.
“Quel povero piccino ve l’hanno maldocchiato, parola mia! Non lo vedete?” aggiunse.
Poi, sempre più compresa nella parte, iniziò il suo rito di purificazione che ben conosceva, tramandato per generazioni.
Biascicava le più disparate preghiere dinanzi al Crocifisso, si segnava in continuazione e gettava ad intervalli regolari gocce d’olio nell’acqua del piatto, gocce che sparivano d’incanto, in un attimo, come uscissero dai bordi, allargandosi in cerchi subitanei.
“Gesù, Giuseppe e Maria, fate che il maldocchio vada via!” era l’invocazione che ripeteva più spesso e si poteva capire.
Non appena le gocce di olio smisero di “fuggire” impazzite all’esterno del piatto e si fermarono intatte nell’acqua, la vecchia, con una punta di orgoglio e di soddisfazione, sentenziò: “E’ fatta! Ora, vedrete, è tutto a posto”.
E come per miracolo il bimbo, piano piano, cessò di smaniare e smorzò il pianto sfrenato, fino ad acquietarsi completamente ed a riprendere la consueta tranquillità .
I genitori guardarono stupiti e ancora sconcertati la creatura e non credevano ai loro occhi: il bimbo era ritornato l’angioletto di prima, e tutto per merito della vecchia. Non sapevano che fare: se, felici, coccolare a non finire il figlioletto o abbracciare per riconoscenza la vicina benefattrice. E si persero in mille moine al piccolo e si dimenticarono, al momento, della vecchia, che, preso il suo scialle nero appesantito dall’acqua, se ne stava impalata accanto all’uscio ad osservarli con i lucciconi agli occhi, finché non se ne andò, lasciando quel nido d’amore, che le riportava dinanzi tempi lontani, lontani…
Come per magia, anche la furia degli elementi s’era placata, all’improvviso, così come era cominciata. Le ultime gocce di livore si erano perdute in tenui guanciali di nebbia accovacciati nelle pieghe della costa, e su in cielo non erano rimasti che pallidi batuffoli di bambagia.
Intanto già s’abbruniva la sera e la luna si affacciava sollecita a numerare le prime stelle.
La vecchia prese la via della casa grigia, portando con sé il suo fardello d’anni e di memorie.
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