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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Giallo: Michele #2/10

22 Dicembre 2008

di Bartolomeo Di Monaco
[Per le altre sue letture scorrere qui. Il suo blog qui.]
 

Michele  #2

Vent’anni prima non avrebbe avuto tanti scrupoli, e una ragazza come Martina, a quest’ora era stata già a letto con lui, non una ma mille volte. E se la sarebbe portata anche a spasso per la sua città. Era abituato a cambiare le donne, e a mostrarle in pubblico. Gli si appiccicavano addosso e lui non doveva far altro che scegliere. A quel tempo, non ci sofisticava sulla sua condotta libertina, e non si vergognava a sostenere anche nelle conversazioni da salotto che per lui le donne erano fatte soprattutto per l’amore. C’erano di quelle alle quali questa sua considerazione metteva il pepe addosso, e se lo mangiavano con gli occhi, e aspettavano il loro turno per portarselo a letto. Ne parlavano senza vergogna, quelle che se lo contendevano.
  Ora faceva la posta a Martina come ad una preda con la quale non si poteva sbagliare la mossa. Sentiva che lei desiderava farsi prendere, ma prima voleva giocarci con il suo predatore. Scappava, ma non si allontanava, fingeva di non vedere, però aveva sempre l’occhio attento nella sua direzione.
  Una mattina, andando al cantiere, trovò gente radunata davanti all’ingresso. Protestavano. Avevano degli striscioni e su c’era scritto che non volevano la strada. Non ci credeva. Succedeva tutto così all’improvviso. Nessuno aveva mai avuto da ridire. Anzi, parevano contenti. Gli andarono incontro, appena lo videro.
  «Noi questa strada non la vogliamo. »
  «Ma che discorsi sono? » Gli sembrava di sognare.
  «È tutto molto semplice. I lavori sono sospesi. »
  «Ma i lavori non dipendono da voi. »
  «Il paese è nostro, e noi diciamo di no alla strada. »
  «Perché solo ora? » Pensava a una congiura contro la sua Società. In quel breve lasso di tempo – mentre aveva davanti il capo di quei dimostranti, un giovane aitante di nome Tullio, ben istruito, uno che non era operaio, ma aveva loschi traffici in paese – la sua mente fece il giro di tutte le probabilità possibili.
  «Ditemi chi vi manda. » Era arrabbiato, e alzò i pugni verso il giovanotto.
  «Si calmi, ingegnere. »
  «La strada significa lavoro per tutti. Che farete se la strada sarà interrotta? »
  «La strada guasta il paese. È questa la verità. Non stia a fare congetture, ingegnere. » Il giovane aveva letto nei suoi pensieri e giocava a scacchi con lui.
  Gli operai stavano in attesa.
  «Resterete senza lavoro. È questo che volete? »
  «Ci dica, ingegnere, che cosa si deve fare. »
  «Tutti a casa » intervenne Tullio.
  «Li prendono da me gli ordini, se permette. »
  «E allora glielo dica lei che devono andare a casa. »
  «Sentirò la Società. »
  Entrò nella baracca e prese il telefono. Dall’altra parte, a Milano, erano sorpresi più dell’ingegnere.
  «Che devo fare? »
  «Prenda tempo. »
  «E come? »
  «Sospenda i lavori. Aspetti nuovi ordini. Non assuma iniziative di testa sua, mi raccomando. Non perda la calma. »
   Uscì, e a testa bassa si rivolse agli operai.
  «Per il momento sospendiamo. Tornate a casa. »
  Quando si voltò verso il giovanotto, vide che accanto a lui c’era Martina.  

  Badile era arrabbiato quanto l’ingegnere.
  «Lei la deve finire la strada. Siamo tutti rovinati se no. Ma lo capisce che se non la fanno qui, la faranno da qualche altra parte? » L’ingegnere intuiva che non era in gioco la strada, che si sarebbe fatta ugualmente, ma un’altra società senza scrupoli si era fatta avanti e cercava di subentrare alla sua. Lo tenne per sé, però. In quel momento pensava a Martina. Ora la desiderava più che mai.
  Si era in estate. I giovani parevano irrequieti. Le lunghe giornate calde li esaltavano.
  «Si va al fiume, ingegnere. Venga con noi. » Era la voce di Martina, che passava di lì seduta sul sedile posteriore di una grossa motocicletta guidata da Tullio. Insieme a loro, altre moto. Tutti si erano fermati davanti al cantiere.
  «Non si faccia pregare, ingegnere. Tanto che ci sta a fare qui tutto solo. » Era ancora Martina. Tullio invece non parlava. Indossava una canottiera con scritte americane. Portava occhiali da sole. Martina gli stava aggrappata alla vita, teneva la faccia appoggiata alla sua schiena e rivolta verso l’ingegnere.
  «Chissà, potrei anche venire. »
  «L’aspettiamo. Lo faccia per me. » Glielo disse sorridendo, e con la mano gli fece un saluto. Puttanella, pensò lui, invece di rispondere.
  Mentre andava alla macchina, incontrò gente.
  «Si sa più niente della strada? » Si radunarono intorno a lui.
  «Ma cosa vi siete messi in testa? Sono giorni perduti, questi. La strada prima si finisce, meglio è per tutti. »
  «Ma che, ce l’ha con noi, ingegnere? Noi la vogliamo la strada. »
  «Volete la strada!? »
  «Certo che la vogliamo. Non deve incolpare noi, ingegnere. » Stavano in mezzo alla piazza.
  «E invece sì. Voi la volete la strada, e la strada si è bloccata. Come lo spiegate? Son storie vecchie queste, di far finta di non vedere. »
  «Quelli di noi che hanno la vista lunga, hanno breve la vita. Capisce, ingegnere? »
  «No, che non capisco. Non si doveva finire con queste prepotenze? »
  Dava la colpa alla loro ignoranza, che non era la stessa ignoranza d’una volta; ora l’istruzione ce l’avevano tutti, ma non è coi libri soltanto che si possono cambiare le cose. L’istruzione sta più nelle coscienze che sui libri.
  «Ci provi lei, ingegnere, che sembra che del coraggio ne abbia da vendere. Non se la prenda con noi, che non abbiamo nemmeno il tempo di riflettere, e dobbiamo sgobbare tutto il giorno per un tozzo di pane. »
  Ma un altro:
  «Lei è il primo a non crederci che le cose possano cambiare. Non me la dà a bere, a me, ingegnere. Lei ha tutto l’interesse che le cose restino come sono. Perché, se cambiassero, gente come lei potrebbe anche rimetterci. »
  «Spiegati meglio. »
  «Si potrebbe rovesciare il mondo. Dico tanto per dire, non si offenda, perché queste cose sono fantasie, non succederanno mai. Ma supponga che davvero scoppi una di quelle rivoluzioni che dico io, da far gelare il sangue nelle vene. Lei crede che i poveracci come noi non spazzerebbero via dalla Terra gente come lei, che è stata sempre al servizio di chi ci ha sfruttato? Mi creda, è per questo che non si fa mai niente sul serio a questo mondo. Perché la gente come lei non sta mai dalla nostra parte. »
  «Io sono dalla vostra parte. »
  «Per essere dalla nostra parte, bisogna che le sue parole diventino pietre per quelli che ci sfruttano. E a lei, e a quelli come lei, non conviene. Lei parla della strada. Ci tiene che vada avanti. Ma lo fa davvero perché la strada serve a noi, o non è la strada un affare anche per lei? Un successo, se la finisce, un suo investimento; e a lei non importa un fico secco se ci reca del benessere o ci guasta l’ambiente. Quando qui ci pioveranno le frane e le alluvioni, lei chissà dove si troverà. Magari non lo saprà nemmeno delle disgrazie che ci capiteranno per colpa della strada, e qui resteremo soltanto noi a piangere i nostri morti. »
  «Lo sapete bene che non ci potranno essere pericoli per voi, ma solo benefici. »
  «Non se la prenda, ingegnere, per le nostre parole. Noi siamo povera gente e quando vogliamo essere sinceri, facciamo sempre del male, perché non conosciamo che quello e ce lo siamo sempre trovato addosso. Non abbiamo respirato che il male da quando siamo nati. » L’avevano messo in mezzo, e ora si sentiva colpevole.
  «La strada la finiremo. Se la volete davvero la strada, la finiremo. E non ci saranno pericoli per nessuno. Ve lo garantisco io. » Era stizzito, però. Non è fare una bella strada, il buono di cui ha bisogno la Terra, ma sono singoli gesti, anche solo poche parole, capaci però di ficcarsi nell’anima e di restarci aggrappati per sempre.
  Si ricordò di quella puttanella di Martina, e da quel momento non ebbe in testa altro che lei. Salì in macchina. Passò dalla pensione a prendere l’asciugamano e il costume. Gliel’avrebbe fatto vedere a quei giovani chi era lui. Partì a tutta birra e raggiunse il fiume. I giovani erano già spogliati. Anche Martina era nell’acqua, nuotava vicino alla riva. Lo vide.
  «Si butti, ingegnere. Venga qui. »
  Fece il tuffo. Si aprirono le gambe, goffamente. Mancò poco che battesse la testa sul fondo. Lì, l’acqua era bassa. Appena sopra l’ombelico di Martina. Che stava in piedi a guardarlo. Aveva una vita sottile, un ventre piatto, sodo, che Michele avrebbe voluto toccare con le sue grosse mani, passarci lentamente il palmo e gustare quella pelle bianca, liscia come il velluto. Tronfio, si mise a nuotare verso il centro del fiume, dove sguazzavano gli altri. Nel mezzo c’era una bella corrente. I giovani gareggiavano, si sfidavano, la contrastavano con il loro vigore. Lui si sentì travolto invece. Non si avvicinava a loro, ma si allontanava, nonostante volesse andare nella direzione contraria. La corrente lo stava trascinando. Sbuffò. Brontolò. Bestemmiò. Radunò le forze, fece un profondo respiro, pose la testa a fior d’acqua e si mise a nuotare con tutto il vigore di cui si sentiva capace. Batteva i piedi con violenza. Gliel’avrebbe fatta vedere lui alla corrente. I ragazzi si accorsero delle sue difficoltà. Annaspava. Apriva la bocca. Non faceva un passo avanti. Anzi, indietreggiava sempre di più. Fra poco sarebbe stato travolto.
  «Ingegnere, che fa? » Come poteva rispondere. Non lo vedete che affogo, imbecilli?
  Fu Martina ad accorgersene.
  «Affoga, non lo vedete. Presto, presto. » Due o tre si buttarono incontro all’ingegnere. Forti bracciate, quelle sì, capaci di scavare nell’acqua, aprirsi la strada. Michele andava sotto, poi ricompariva, aveva perso ogni velleità. Non coordinava più niente, né le braccia, né le gambe, né i pensieri. Sentì solo che alla fine qualcuno lo afferrò per i capelli e gli disse di stare tranquillo, di lasciarsi andare. Ci avrebbe pensato lui a ricondurlo a riva. Si abbandonò, non fece più nulla.
  «C’è mancato poco che ci lasciasse la pelle. Che si è messo in testa, alla sua età.   Abbiamo preso una bella paura. »
  «Lasciatelo respirare. Fate largo. Dategli aria. » Era la voce di Martina. Lui sputava acqua dalla bocca. Si sentiva più pesce che uomo. Martina, davanti a tutti, gli diede un bacio.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart