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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

I calcoli di Ingroia e quelli di Monti

23 Gennaio 2013

di Arturo Diaconale
(da “L’Opinione”, 23 gennaio 2013)

«Ci vediamo in Parlamento! ». La dichiarazione con cui Antonio Ingroia ha chiuso la porta a qualsiasi ipotesi di desistenza con il Pd al Senato non rappresenta una minaccia, ma un preciso disegno politico. Il magistrato in aspettativa della Procura di Palermo ha fatto bene i suoi conti. In alcune regioni conta di superare lo sbarramento dell’otto per cento fissato per la rappresentanza a Palazzo Madama. E, sulla base di questa previsione, punta apertamente a porre dopo il voto il Pd di fronte all’alternativa concreta se allearsi con il centro di Monti o con la sinistra giustizialista della sua Rivoluzione Civile. Progetto ambizioso? Niente affatto. Perché tutti i sondaggi indicano che Bersani dovrebbe conquistare la maggioranza alla Camera, ma non raggiungere lo stesso risultato al Senato. E stabiliscono che se il leader del Pd vorrà effettivamente entrare a Palazzo Chigi da Presidente del Consiglio dovrà necessariamente o allearsi con Monti, Fini e Casini, dando vita a un centrosinistra a guida non centrista, o con Ingroia, mettendo in piedi il primo governo formato esclusivamente da forze di sinistra della storia del nostro paese.

Ingroia conta di portare avanti il suo disegno puntando su due fattori precisi. Il primo è la suggestione che l’ipotesi di un governo formato solo dalla sinistra può sollevare all’interno di un Pd dove l’ala liberal è stata emarginata a tutto vantaggio dei “giovani turchi†che salutano con il pugno chiuso e che hanno un rapporto sempre più stretto con Sel di Nichi Vendola. Il secondo è la circostanza che il suo rivale per l’alleanza di governo con il Pd sia un Mario Monti talmente convinto di essere un novello “uomo della Provvidenza†per congenita superiorità nei confronti del resto della classe dirigente da non capire quale potrà essere il suo vero ruolo politico nella prossima legislatura. Con un atto di incredibile presunzione, infatti, l’attuale Presidente del Consiglio si è convinto che la sua “salita in campo†abbia come unico risultato di trasformarlo nel Ghino di Tacco della Terza Repubblica.

Cioè nel personaggio che, posto al centro della scena politica nazionale, decide le sorti del paese ponendo condizioni a chiunque sia costretto a chiedergli di partecipare alla formazione della futura coalizione di governo. Ma questa convinzione, forse sorretta dai consigli di Fini e Casini, interessati solo alla personale sopravvivenza e abbacinati dal mito della politica dei “due forni†della Prima Repubblica, non tiene conto delle condizioni politiche reali. Che, grazie proprio alla salita in campo di Monti utile solo a frazionare il campo dello schieramento antagonista della sinistra e all’aggregazione attorno ad Ingroia di un movimento giustizialista più consistente del vecchio Idv, ha spostato il baricentro della politica nazionale. E ha assegnato a Bersani e al Pd la possibilità di realizzare a proprio piacimento (sempre che il centrodestra non realizzi un recupero miracoloso) la vecchia politica dei due forni di andreottiana memoria. Non è Monti, infatti, che dopo il voto può scegliere con chi allearsi visto che non è l’ago della bilancia tra Pdl e Pd. Ma è Bersani che, posto nell’alternativa tra Monti e Ingroia, è messo nella condizione di poter scegliere con chi realizzare l’alleanza di governo.

Al momento si dà per scontata solo l’ipotesi dell’alleanza tra Pd e l’area dei centristi montiani. Ma la partita elettorale è ancora tutta da giocare. Soprattutto da parte di Ingroia , che conta di caratterizzarsi sempre di più come l’antagonista di Monti e l’alfiere dell’alternativa di sinistra. E da parte di un centrodestra che ha ancora molto da recuperare svolgendo il ruolo di unica alternativa alle alternative rosse Bersani-Ingroia o a quelle rosa Bersani-Monti.


Ora è Draghi a smentire Monti
di Federico Punzi
(da “L’Opinione”, 23 gennaio 2013)

«Ridurre le esigenze di finanziamento dell’Italia era un imperativo, ma poteva esser fatto solo alzando le tasse ».
È sull’idea che non avesse altra scelta che aumentare le tasse per affrontare l’emergenza finanziaria del novembre scorso che il premier Mario Monti fonda la sua difesa dalle critiche dell’editorialista del Financial Times, Wolfgang Münchau. Una linea difensiva però molto debole, perché già smentita non oggi, non ieri, ma quasi un anno fa, il 23 febbraio scorso, e non da un oppositore politico, né dai colleghi professori-editorialisti che tanto lo irritano, ma da un altro Mario, il presidente della Bce Draghi. Il quale, in una lunga intervista al Wall Street Journal ammetteva che «non c’è alternativa al consolidamento fiscale », cioè alle politiche di austerità, aggiungendo però che c’è modo e modo di consolidare i bilanci pubblici, c’è un’austerità «buona » e una «cattiva ». E quale delle due ha perseguito Monti? Indovinato. «Un buon consolidamento è quello in cui le tasse sono più basse », spiegava Draghi, mentre «il cattivo consolidamento è in effetti più facile da attuare, perché si possono ottenere buoni numeri alzando le tasse e tagliando la spesa per investimenti, che è più facile da fare che tagliare la spesa corrente. In un certo senso è la via più facile, ma non è una buona via, perché deprime il potenziale di crescita ». In numerose altre occasioni Draghi ha ripetuto che «il consolidamento fiscale nel medio termine non può, e non deve, essere basato su aumenti delle tasse », ma su tagli alla spesa corrente.

Ecco confutata, dunque, in questo dialogo indiretto ma per nulla immaginario, la tesi del premier secondo cui non avrebbe avuto scelta, solo aumentando le tasse poteva salvare l’Italia. Un enorme equivoco falsa il dibattito pubblico sull’austerità. Senza rigore nei conti pubblici non solo non può esserci crescita, ma si rischia il default, e una crisi europea (e mondiale) catastrofica. Non emerge, però, che la disputa non è solo tra pro e contro l’austerità, ma anche tra due diverse politiche di austerità: aumentare le tasse o tagliare le spese. E «l’evidenza empirica – sostengono Alesina e Giavazzi – dimostra che tagli di spesa, accompagnati da liberalizzazioni e riforme nel mercato dei beni e del lavoro, comportano costi di gran lunga inferiori rispetto ad aumenti di imposte. Se il governo Monti avesse perseguito l’austerità in questo modo, cioè tagliando la spesa, la recessione sarebbe stata molto meno grave ». Dunque, il premier aveva due strade tra cui optare, nell’ambito dell’austerità, ma ha scelto quella sbagliata. «L’aggiustamento è stato progressivamente ribilanciato » sui tagli alla spesa, obietta ancora Monti. Ma anche questo non corrisponde al vero, perché nemmeno un centesimo dei timidi tagli previsti (non ancora prodotti) dalla spending review è stato destinato ad alleggerire la pressione fiscale.

Nella sua intervista Draghi non negava che nel breve termine l’austerità comportasse effetti recessivi, ma avvertiva che se accompagnata da riforme strutturali, nel mercato dei servizi e del lavoro, avrebbe portato ad una crescita sostenibile nel medio-lungo termine. Ebbene, le riforme partorite dal governo Monti si sono rivelate un bluff: timide, ai limiti del patetico. Monti si giustifica chiamando in causa la «mancanza di una vera maggioranza in Parlamento ». Un argomento che sfiora il ridicolo, avendo goduto di una maggioranza senza precedenti nella storia repubblicana: oltre l’80% delle forze parlamentari. E se è vero che partiti e lobby hanno opposto resistenza alle riforme, è anche vero che per almeno i primi sei mesi non avrebbero potuto mai e poi mai assumersi la responsabilità di mandare a casa Monti. Ciò significa che il premier aveva la forza politica per imporre praticamente qualsiasi scelta di politica economica. Nell’editoriale “riparatore†il Financial Times mostra di puntare, nonostante tutto, sulla coppia Bersani-Monti, ai quali però non risparmia una pesante critica: «Nessuno dei due ha ancora esposto una convincente visione economica del paese ». A Berlusconi riconosce «elementi ragionevoli » nel programma elettorale, ma nessuna credibilità, mentre Bersani e Monti hanno entrambi «credibilità personale », ma il primo «deve dimostrare che non sarà ostaggio dalla sinistra », mentre al secondo fa notare che la nostra produttività è «stagnante » e che tra i paesi eurodeboli l’Italia è l’unico in cui il costo del lavoro non è diminuito.


Compagno Monti
di Alessandro Sallusti
(da “il Giornale”, 23 gennaio 2013)

La deriva a sinistra di Mario Monti pare inarrestabile. Ieri il premier e candidato premier di se stesso, di Fini (più noto co – me il cognato di Tulliani) e di Casini (quello dei parenti in lista) ha esaltato la «gloriosa storia comunista » del Pd. Che cosa ci sia stato di glorioso nel comuni ­smo ci sfugge. È stata, quella comunista, la più feroce e criminale ideologia del se ­colo scorso. E in Italia il Pei l’ha sostenu ­ta con forza, prendendo parte attiva nei misfatti dell’Unione Sovietica, dalla quale fu finanziato in nero per tramare e complottare contro di noi e le libertà dell’Oc ­cidente tutto. E ancorarono schegge im ­pazzite di quell’area, i famosi «compa ­gni che sbagliano » che hanno insangui ­nato l’Italia nella stagione degli anni di piombo.

Poco importa, come ha detto sempre ieri Monti, che il Pd si sia gradualmente allontanato da quella storia. Perché la strada da compiere è ancora lunga. Il suo gruppo dirigente non ha mai fatto una au ­tocritica piena e sincera, ha ancora in ta ­sca la tessera del Pei, rivendica con orgoglio il passato e ancora oggi cerca soci da quella parte: da Vendola ai nuovi comu ­nisti fino al nuovo entrato Ingroia.

Perché Monti abiuri il liberismo e coccoli il comunismo non è un mistero. Son ­daggi alla mano, se vuole mantenere una poltrona deve attaccarsi come una cozza a Bersani e soci e sperare in una al ­leanza post elettorale. Anche perché, col passare del tempo, la verità sulle sue presunte doti di salvatore della Patria sta ve ­nendo a galla con cinica precisione. È di ieri la notizia che durante il suo anno di governo, in Italia ha chiuso un’azienda al minuto, massacrata da tasse e man ­canza di consumi. Un record non male per l’ex presidente della Bocconi, scuola di economia e liberismo. Che ora ci vor ­rebbe trasportare nelle mani di ex, post e neo gloriosi comunisti. Già celo vedo sul palco di qualche piazza a intonare «Bella Ciao » insieme con Vendola, Ingroia e Bersani. Ovviamente in loden e con tra ­duzione simultanea per mantenere il prestigio internazionale. Perché lui è Monti e noi no. Per fortuna.


Mps il giorno dopo, fra reazioni e accuse. Bersani: “Nessuna responsabilità per il Pd”
di Redazione
(da “la Repubblica”, 23 gennaio 2013)

ROMA –  Clima rovente a Siena e a Palazzo Rocca Salimbeni che si trova in mezzo a due fuochi: il day after le rivelazioni sull’operazione Alexandria e l’immediata vigilia dell’assemblea straordinaria degli azionisti di venerdì. A tenere banco le reazioni di enti, sindacati e politici attorno alla bufera che si è abbattuta sul Monte dei Paschi. Intanto  lo scandalo derivati pesa in Borsa, dove le azioni dell’istituto senese, all’indomani del passo indietro dell’ex presidente Giuseppe Mussari dal vertice dell’Abi, perdono il 5% a 0,26 euro. E la Fondazione Montepaschi di Siena presieduta da Gabriello Mancini  valuterà un’eventuale azione di responsabilità  ai danni della precedente gestione. Fioccano intanto le reazioni sia dal mondo politico che da quello sindacale e delle associazioni di consumatori.

Bersani, nessuna responsabilità per il Pd.
 “Nessuna responsabilità del Pd, per l’amor di Dio… il Pd fa il Pd e le banche fanno le banche”. Così Pierluigi Bersani, arrivando ad Albano Laziale per il tour elettorale, risponde su eventuali responsabilità del partito nel caso Mps e le conseguenti dimissioni del presidente di Abi.

Ingroia, Monti regala soldi alle banche.
 “Erano bugie quelle che ci hanno raccontato –  dice invece Antonio Ingroia,  candidato leader di Rivoluzione civile – mentre il debito della Grecia diminuiva e quello europeo rimaneva stabile, quello italiano è aumentato di ben 7,4 punti in un anno di governo Monti. A questo si aggiunga il vero scandalo, il regalo di 3,9 miliardi di euro che il governo del Professore ha fatto alla Monte dei Paschi di Siena prelevandoli direttamente dalle tasche degli italiani. Una cifra che quasi corrisponde ai ricavi recuperati con l’Imu, tassa ingiusta che ha letteralmente svenato le fasce più deboli”.

Centrodestra all’attacco.  Sul versante opposto, durissime le dichiarazioni degli esponenti del centro-destra, senese e nazionale. Il coordinamento comunale e provinciale del Pdl di Siena si dissocia dal “teatrino di quanti cercheranno, fra i molti che ne hanno fatto parte, di prendere le distanze dal ‘sistema Siena’”, dicendo “io l’avevo detto, io ero contro”. Da Roma tuona anche il presidente del Pdl al Senato  Maurizio Gasparri: “Se la magistratura metterà lo stesso zelo che ha messo in altre vicende su quella del Montepaschi, ci troveremo davanti ad una vicenda di enorme portata – ha detto Gasparri -. A cominciare dall’acquisto di banche a prezzi assurdi da parte del Monte”.  Fabrizio Cicchitto, capogruppo Pdl alla Camera, esprime un concetto paradossalmente simile a quello di Ingoria: “In tutta la vicenda riguardante il Monte dei Paschi, che ha avuto un prestito di circa 4 miliardi di lire, è indispensabile fare pienamente luce anche perchè il governo si è svenato con una cifra vicina a quella che viene ricavata dall’Imu”.

Sulla stessa linea anche il j’accuse su Twitter di  Giorgia Meloni, fondatrice di Fratelli d’Italia: “A Mps 3,9 miliardi di aiuti di Stato sotto forma di MontiBond, più dell’intero valore dell’Imu sulla prima casa. E’ follia spremere le famiglie per aiutare le banche”. Aspro il giudizio di  Antonio Leone, vicepresidente della Camera del Pdl: “La vicenda del Mps è la conferma che le banche in odore di sinistra possono concedersi in Italia tutte le ‘distrazioni’ possibili, naturalmente a spese dei risparmiatori”. E  Giulio Tremonti, leader della Lista Lavoro e Libertà, affida a un tweet le sue perplessità circa “la mancata lettera di vigilanza di Draghi a Siena”.

Monaci, appello a chiarezza e responsabilità. Sul Monte “a partire da Antonveneta deve essere fatta chiarezza a 360 gradi. Ognuno si deve assumere le sue responsabilità politiche”. Così Alfredo Monaci, candidato in Toscana della Lista Monti, membro del cd di Mps dal 2009 al 2012 e presidente di Biverbanca. “Quello che oggi emerge dai giornali è riferito a fatti antecedenti alla mia presenza nel cda del Monte dei Paschi. Sfido chiunque a trovare una mia dichiarazione favorevole o contraria all’acquisto di Antonveneta – ha aggiunto Monaci -. Adesso, per il Monte, si prospetta un futuro abbastanza difficile ma presumo che con lo spread in calo possa velocemente risalire la china. Comunque – conclude -, chi dice che la politica è fuori dal Monte dei Paschi si sbaglia perché Profumo è espressione della politica”.

L’ex sindaco di Siena, cambiare i vertici.
 “La nostra comunità ha bisogno di chiarezza perchè quello che sta emergendo sta facendo male alla banca e a tutta la città. Da sindaco, non appena ho potuto capire la gravità della situazione, sono stato il primo a chiedere un cambiamento al vertice della Banca”. Lo scrive sul suo profilo Facebook l’ex sindaco di Siena e candidato alle prossime elezioni amministrative Franco Ceccuzzi (Pd) che ieri sera, sempre su Fb, aveva già commentato sia le notizie sul Monte dei Paschi sia le dimissioni di Giuseppe Mussari dalla presidenza dell’Abi.

Axa vicina a Rocca Salimbeni.  Al di là delle Alpi ci pensa Axa a gettare un po’ di acqua sul fuoco. “Mps è il nostro partner in Italia, la collaborazione va molto bene e intendiamo continuare a svilupparla”, ha spiegato all’Ansa un portavoce del gruppo assicurativo francese, azionista di Montepaschi e titolare di una joint venture con la banca toscana. La società transalpina non ha voluto fare commenti specifici sulle vicende di questi giorni, perché “non sta a noi farlo”.

I sindacati.  “Mps ha il dovere di spiegare ai lavoratori la reale situazione della banca e le reali responsabilità delle precedenti gestioni e di quella attuale”. Lo afferma in una nota la Fisac-Cgil, commentando le dimissioni di Mussari “del quale avevamo chiesto più di un anno fa unitariamente, nel silenzio di tanti che oggi sembrano aver ritrovato la parola, le dimissioni da presidente della banca. L’azienda – chiede la Fisac-Cgil – convochi le organizzazioni sindacali, affronti il tema del risanamento accantonando inutili progetti quali le esternalizzazioni e la neutralizzazione del contratto integrativo”.

Bonanni solidale con Mussari.  Mentre molti esponenti politici si scagliano contro il “presidente-avvocato”, il segretario della Cisl Raffaele Bonanni conferma il suo apprezzamento per Giuseppe Mussari. “Ho molta stima dell’avvocato Mussari – ha detto Bonanni a margine di un convegno all’Istituto Sturzo – mi dispiace davvero di questa situazione, perchè la sua presenza all’interno delle parti sociali è stata molto positiva. Spero che riesca ad uscire da questa vicenda e continuare la sua opera preziosa”, ha aggiunto.

I consumatori.  Il Codacons, invece, si costituisce parte civile: “Ci costituiremo a Siena dove è già aperto un procedimento da parte della Procura in relazione ad operazioni sospette che vedono coinvolta Mps”, ha detto il presidente Carlo Rienzi. “Riteniamo – aggiunge Rienzi – che gli utenti, sia clienti della banca che azionisti del Monte dei Paschi, abbiano subito un danno dalle operazioni sui derivati, certificato dalle pesanti perdite in Borsa registrate in queste ore dai titoli dell’istituto senese”.

Abi. Intanto a Roma, all’Abi non sono ancora chiare le dinamiche del dopo-Mussari e si prevedono tempi lunghi per la sostituzione dell’ex presidente Mps a Palazzo Altieri. Al momento non è stato infatti convocato nessun comitato esecutivo straordinario, e il prossimo appuntamento in calendario è fissato al 20 febbraio. Tutte le soluzioni sono quindi possibili, tranne un ripensamento dello stesso Mussari che ha presentato dimissioni “irrevocabil” nella lettera al vicepresidente vicario dell’Abi Camillo Venesio, che ha assunto – pro tempore – la guida dell’Abi.


Mps, Bersani: “Il Pd non c’entra nulla”
di Redazione
(da “Libero”, 23 gennaio 2013)

Lo scandalo dei derivati travolge il Monte dei Paschi di Siena. E il Partito Democratico. Dopo le dimissioni dai vertici dell’Abi di  Giuseppe Mussari, in Borsa crollano i titoli dell’istituto senese mentre in Italia monta il disgusto. Si scopre che i “Monti-bond” da 3,9 miliardi equivalgono a quanto pagato dagli italiani per l’Imu: il Professore, con quei soldi, ha salvato la banca senese? “Quasi 4 miliardi di aiuti di Stato sotto forma di MontiBond – ha tuonato  Giorgia Meloni  -, più dell’intero valore dell’Imu”. E in tutto ciò,  Pier Luigi Bersani, che fa? Si sfila. Fa finta di nulla. Cerca di non essere travolto. Ma l’impresa è impossibile: “Non c’è nessuna responsabilità del Partito Democratico, per amor di Dio. Il Pd fa il Pd, le banche fanno le banche”, ha dichierato il segretario.

La banca rossa –  Peccato però che il Mps sia la banca rossa per eccellenza, da anni il regno dei Ds e della Margherita prima, e del Partito Democratico poi. Che Bersani si sfili e rifiuti ogni responsabilità del suo partito politico è francamente improbabile e maldestro. La sinistra ha sempre influito direttamente sulle strategie, sugli affari e sulle alleanze del Monte dei Paschi. Comprese alcune acquisizioni, portate a termine oppure sfumate. Parliamo della  Banca 121, istituto pugliese, nella cui operazione pesò la partecipazione di  Massimo D’Alema. Si arriva poi al fallimento dell’acquisizione di  Antonveneta. Impossibile dimenticare, inoltre, che sulle nomine dei vertici della Fondazione hanno sempre inciso i “desiderata” dei vari  Walter Veltroni,  Giovanni Berlinguer,  Rosy Bindi,  Giuliano Amato  eFranco Bassanini.

Gli assegni di Mussari –  Che la banca sia “rossa”, più rossa che mai, lo dimostrano anche i finanziamenti dell’ex patron,  Giuseppe Mussari, il presidente Abi dimissionario, che quando era ai vertici del banco senese fu sostenitore del partito di Bersani. Anzi, fu un finanziatore. Lo scorso anno, per esempio, ha staccato un  assegno da 100mila europer il Pd di Siena: il finanziamento è stato registrato il 21 gennaio del 2011. E quest’anno, giusto pochi giorni fa, ha concesso il bis: arrivano altri  99mila euro  sempre nelle casse senesi del partito di Bersani (versamento registrato alla tesoreria della Camera il 6 febbraio scorso). Nulla di illecito, per carità – gli stanziamenti sono avvenuti a norma di legge -, ma questi assegni dimostrano come la presunta lontananza del Pd dall’istituto rivendicata da Bersani sia una panzana.

La vertenza di Lecce –  Se ancora non bastasse, per chi ancora non fosse convinto del “segreto di Pulcinella” – ossia che il “cervello” e il braccio dell’istituto siano il Partito Democratico – è bene citare un ultimo emblematico episodio, avvenuto la scorsa estate. Il Monte dei Paschi di Siena aveva aperto una vertenza che prevedeva, soltanto a Lecce,  400 esuberi. E la Cgil della città cosa fece? Prese carta e penna, e scrisse a  Pier Luigi Bersani, il segretario nazionale del Partito Democratico, per chiedergli esplicitamente – carta canta – “di intervenire sui vertici della banca”. Sicuro, signor Bersani, che il Pd sia una cosa e il Mps un’altra?

Le polemiche –  Il caso, come ovvio, ha suscitato un vespaio di polemiche. Il Pd cerca di ripararsi dalla tempesta e promette di portare al governo “una vera e propria stretta sull’utilizzo dei derivati, in particolar modo su quelli usati come mezzi surrettizi di finanziamento”. Coda di paglia? Il “Fratello d’Italia”  Ignazio La Russa  punta il dito: “La vicenda Montepaschi è di una gravità inaudita per il  buco di 760 milioni  di cui parlano i giornali e per il fatto che il governo Monti accordi 3,9 miliardi, più dell’Imu pagata dagli italiani sulla prima casa”. Sibillino e minaccioso il capogruppo del Pdl al Senato,  Maurizio Gasparri: “Se la magistratura metterà lo stesso zelo che ha messo in altre vicende su quella del Montepaschi, ci troveremo davanti ad una vicenda di enorme portata. A cominciare dall’acquisto di banche a prezzi assurdi da parte del Monte”.


Monte dei Paschi, la politica che non parla
di Stefano Feltri
(da “il Fatto Quotidiano”, 23 gennaio 2013)

La crisi della terza banca italiana, il  Monte dei Paschi di Siena, diventa un caso nazionale, nonostante il silenzio della politica.  Marco Lillo, sul Fatto di ieri, ha rivelato che un  oscuro contratto derivato di nome Alexandria ha causato perdite a Mps comprese tra 220 e 740 milioni di euro. Perdite che non figurano (ancora) nei bilanci. Il titolo è crollato in Borsa e l’ex presidente del Monte, che aveva firmato quello e altri contratti simili,  Giuseppe Mussari, si è dimesso dall’Abi, la potente associazione delle banche italiane.

Mps ha ottenuto dai governi Berlusconi e Monti  3,9 miliardi di euro, tra Tremonti bond e Monti bond. Un prestito oneroso. Ma che non si sa se e quando potrà restituire. Sembra unanazionalizzazione strisciante. Anche perché il Monte deve ridare alla Banca centrale europea altri  29 miliardi di euro  di finanziamenti agevolati. Mps è quindi anche un po’ nostra. Il nuovo presidente Alessandro Profumo sta affrontando l’eredità lasciata da Mussari e dal crollo di un sistema di potere (tutto di sinistra) che si è retto sui fondi elargiti al territorio dalla Fondazione Monte Paschi, azionista e dominus della banca.
A noi restano il conto da pagare e alcune domande.

Primo: l’Italia è in una grave recessione pur non avendo dovuto salvare le sue banche.  Cosa succede se alla crisi economica si aggiunge una crisi bancaria?
Secondo: nell’ultima settimana sono emerse le perdite di due contratti derivati al Monte, “Santorini†e “Alexandriaâ€. Quanti altri ce ne sono? E gli investitori si fideranno ancora dei bilanci delle banche italiane?
Terzo:  cosa vuol fare la politica?  Affrontare il caso Mps significa mettere in discussione  il sistema che sostiene il potere italiano da 20 anni: banche spremute per fornire dividendi a Fondazioni gestite da ex politici che usano i soldi per garantire consenso ai loro sodali di partito. Qualcuno avrà il coraggio di occuparsi del problema? Lo avrà il Pd che dal sistema Mps ha beneficiato più di ogni altro? E Mario Monti e i suoi ministri riusciranno a trovare il tempo, tra un comizio e l’altro, per dire qualcosa? O il governo non esiste più?


Come può Bankitalia Draghi aver ignorato nel 2009 il derivato “Alexandria”?
(“dagospia”, 23 gennaio 2013)

1. DAGOREPORT/1 – DIECI DOMANDE SU MPS
Con queste domande chi sa trema e sta zitto, chi non sa si incuriosisce.

1) Come può la Banca d’Italia aver ignorato nel 2009 la ristrutturazione di un derivato (Alexandria) che era già nei libri di MPS e che aveva già prodotto perdite rispetto al valore di mercato originale. Non ha destato sospetto l’azzeramento di 220mln di perdite?

2) L’immagine del governatore della Banca d’Italia e presidente del Financial Stability Board sarebbe stata irrimediabilmente pregiudicata dalla realtà dei conti della terza banca italiana?

3) Come hanno fatto il Monte dei Paschi di Siena ed Unicredit ad effettuare aumenti di capitale durante la bufera finanziaria? Chi sono stati i veri investitori? Che ruolo hanno svolto le banche del “consorzio di collocamento”?

4) Che ruolo hanno avuto le banche d’investimento nel finanziare la Fondazione Monte dei Paschi per sottoscrivere i vari aumenti di capitale? Qual è il vero prezzo che la Fondazione paga su quel prestito?

5) La Fondazione, formalmente proprietaria del Monte potrebbe perdere la proprietà dello stesso?

6) Perché il Governo Monti offre garanzie ad MPS per 28 mld di euro ed approva un provvedimento ad bancam dando ad MPS 3,9mld di euro senza una due diligence sui conti?

7) E’ vero che esiste un altro derivato monstre sottoscritto da MPS che ha come sottostante BTP e che potrebbe produrre perdite mostruose?

8 ) Com’è possibile che Viola e Profumo non si siano accorti del buco nei conti appena arrivati pur avendo sostituito il responsabile dell’area finanza con un uomo di loro fiducia? E se se ne sono accorti lo hanno comunicato a Banca d’Italia?

9) E’ legalmente possibile che il Governo Monti finanzi una banca privata con i soldi pubblici senza pretendere in cambio un controllo sulla stessa?

10) Siamo sicuri che non esistano casi simili nelle altre banche italiane?

DAGOPORT/2
Rumors da Roma e Milano assicurano che il Monte dei Pacchi di Siena sarà commissariato in settimana. Altre voci danno per certo un sordo tintinnar di manette in direzione di Siena. Altro giro assicura che la magistratura abbia individuato uno incongruo trasferimento di 200 milioni di euro legato all’acquisizione di Antonveneta. E tutti concordano sul fattaccio che Antonveneta sia stata pagata al presidente del Santander Emilio Botin in contanti: 9 miliardi!


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Bart