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ARTE: I MAESTRI: La guerra futurista

15 Aprile 2008

di Edoardo Sanguineti
[da: “Quindici”, n. 14, dicembre 1968]

« Teoria e invenzione futurista », a cura di Luciano De Maria. Mondadori, 1968, pp. CXXV + 1132, L. 5.000.


Sarà un po’ per ossessione sociologica, ma que ­stione fondamentale, a voler intendere Marinetti e il futurismo, pare oggi essere questa: chi fu ­rono, proprio da un punto di vista sociologico, i futuristi? e quali forze, propriamente, incarnaro ­no?
Questione che non è per nulla stravagante, se si pensa che Gramsci la poneva già nella fa ­mosa lettera a Trotsky (1922), osservando, tra le altre cose, che Lacerba « era diffusa per i quat ­tro quinti tra i lavoratori » e che, nelle serate futuriste, accadde sovente « che i lavoratori di ­fendessero i futuristi contro i giovani mezzo ari ­stocratici o borghesi, che si picchiavano con i futu ­risti ». Ma gli accenni gramsciani, orientati sul problema del pubblico, attendono ancora di essere verificati e sviluppati. A guardare le cose, per intanto, sul versante dei produttori del futurismo, e in particolare presso il Marinetti medesimo, con il sussidio di questo volume curato da Luciano De Maria si raccolgono non pochi indizi rilevanti.
I più notevoli, probabilmente, emergono in Al di là del comunismo (1920), non soltanto perché l’etimologia anarchica del movimento (e la sua immediata epoche, per necessità di storia, dinanzi all’urto delle forze di massa ormai scatenate) vi risulta confessata e professata in tutte lettere, ma perché ad essa si associano indicazioni sociologiche, appunto, di estrema chiarezza. Così abbiamo, da un lato, proposizioni come: «L’umanità cam ­mina verso l’individualismo anarchico, mèta e so ­gno d’ogni spirito forte » (in funzione anticomuni ­sta, perché « il comunismo invece è una vecchia formula mediocrista », mentre « il genio anarchi ­co deride e spacca il carcere comunista »); e d’al ­tro lato, non meno nitidamente: « E’ assurdo chia ­mare borghesia fradicia e moribonda quella massa formidabile di giovani intelligenti e laboriosi pic ­coli borghesi: studenti impiegati agricoltori, commercianti industriali, ingegneri, notai, avvocati ecc., tutti figli del popolo… Fecero tutti la guerra da tenenti e capitani e oggi, affatto stanchi, sono pronti a riprendere il nuovo sforzo della vita con eroismo… La guerra è stata fatta da questi gio ­vani energici sempre in testa alle masse dei fanti contadini e operai. I contadini e gli operai che fecero la guerra, non avendo ancora una co ­scienza nazionale, non avrebbero potuto vincere senza l’esempio e l’intelligenza di quei piccoli bor ­ghesi tenenti eroici. E’ inoltre indiscutibile che i tentativi di comunismo sono e saranno sempre gui ­dati da giovani piccoli borghesi volitivi e ambiziosi ».
Che è poi l’ideologia che sorregge, da ultimo, L’alcòva d’acciaio (sventuratamente assente dalla silloge del De Maria): la guerra mondiale celebrata secondo la prospettiva dei tenenti e dei ca ­pitani di estrazione piccolo borghese, con modi che non mancano di esaltare, se occorre (cap. IX), « l’immancabile massacro di gran parte di que ­sti giovani muscolosi e sani cha sanno ormai anch’essi verniciare i propri istinti sanguinarii con nuovi ideali »

La guerra, la « sola igiene del mondo », diede in effetti al futurismo una puntuale cristallizzazione sociologica, e un preciso quadro dottrinale: il gruppo raccolto intorno al manifesto del 1909 è ancora un gruppo che pessimamente risponde ai dettami del manifesto stesso: i poeti della prima antologia sono ancora, genericamente, artisti anarchicheggianti e modernolatri in varia misura, che procedono per strade postsimboliste e paracrepuscolari: ma l’interventismo, e quindi il conflitto, getteranno il ponte, finalmente, verso quel libertarismo patriottico che sarà già implicato nel manifesto tecnico del 1912 e che, sintomaticamente, si illustra con Battaglia Peso + Odore, cioè in quella polemologia di cui il De Maria ha visto bene l’importanza, ma che troppo ha tentato di esorcizzare o proiettare in angoscia metafisica.
Ma non si può barare: il contatto di ideologia e linguaggio, per Marinetti, e per il futurismo or ­todosso, si ottiene precisamente e soltanto su que ­sto piano: deposta ogni fallace sublimazione era ­clitea, restano i testi del Gumplowicz, ahimè, e tutta l’area del darvinismo sociale, in concreto.
La modernolatria marinettiana ha il suo centro psicotematico e la sua ossessiva area tecnica (via Tripoli-Adrianopoli, con approdi carsici e conse ­guenze prolungate sino alla X Mas) nelle meraviglie della guerra industriale: le parole in libertà, l’esplosione analogica, il simultaneismo oratorio nascono e si sviluppano in congiunzione insolu ­bile con lo spettacolo estetico della battaglia nella età dello sviluppo capitalistico-industriale, violento e imperialistico, in modi di cui è lecito ammirare la tempestività, la coerenza e, sovente, l’audacia anticipatrice. Si incomincia con l’automobile da corsa superiore alla Vittoria di Samotracia (che è poco più che un plagio dalle pagine del Morasso) per arrivare in fretta alla 74, cioè all’alcova di acciaio, la « donna autoblindata » con buone mitra ­gliatrici, suscettibile di ogni proiezione erotica («la mia nuova amante »), non escluso (cap. XXVIII, La più bella notte d’amore) il delirante coito su ­premo, ivi celebrabile, con un’Italia « madre-sorella-amante-figlia », che deferiamo al più vicino freudiano.
L’errore è credere che da Morasso derivi una battuta sola, per quanto strepitosa: dal Morasso deriva, in verità, tutta l’atmosfera ideologica di cui la battuta vive, e in cui si spiega : il bellicismo imperialistico (nel senso di Lenin, rigidamente) ad uso dei giovani intellettuali modernolatri anarchicheggianti, educati su Nietzsche, confortati da Sorel, documentati su Gumplowicz, condannati na ­turalmente al nazionalismo più acre, infine tenenti e capitani per vocazione classista e per fatalità storica.
L’arco di Morasso prefigura e accompagna, ora operando direttamente come modello, ora in spontanea concomitanza di gesti, tutta l’evoluzione di Marinetti sino al primo conflitto mondiale: né basta verificarla sulla trama che conduce da La nuova arma a La nuova guerra (che sarebbe già un bel progresso, allo stato attuale della ricerca), ma su tutta la catena che guida dall’originaria « egoarchia » fin-de-siècle di Uomini e idee del domani all’antisocialismo sfrenato di Contro quelli che non hanno e che non sanno (ove è già l’appello ai giovani come classe, agli intellettuali piccolo borghesi come élite di avanguardia reazionaria, con contorno, persino, di « disprezzo della donna » e simili), via via, sino all‘Imperialismo nel secolo XX e a quell’Imperialismo artistico che denunziava, già nel 1903, la necessità di procedere oltre il simbolismo e oltre D’Annunzio sulla via della rappresentazione artistica della società industriale, e sua apologia conclamata.

Nel quadro dei « fascismi », Morasso e Marinetti occupano una posizione di grande rilievo, nel senso dell’elaborazione profeticamente lucida di una tematica culturale (Mussolini avrà non poco da apprendere, come è noto): ridurla al clima dell’epoca, e neutralizzarla in nome dello spirito del tempo, significa coprirne arbitrariamente la caratterizzazione di classe, e così, da un lato, po ­niamo, dimenticare il senso e il valore della scon ­fitta alternativa proposta, a non dire ora di altri, da Lucini (che muore, come in un tragico apologo, nell’anno medesimo della conflagrazione, correggendo le bozze dell’inedito Antimilitarismo), e dal ­l’altro trascurando come irrilevante quell’apolo ­getica del capitalismo, che, come in tutto il prefascismo (o meglio sempre, i « prefascismi »), non si stanca di emergere puntualmente anche nel Marinetti più « democratico », confermando essenzial ­mente, in sede letteraria e culturale, la diagnosi politica portata da un Salvatorelli, sul fascismo (o sui « fascismi »), come lotta di classe della pic ­cola borghesia, « terza fra i due litiganti » capita ­lismo e proletariato, con esiti di alleanza invali ­cabili, per rigido condizionamento classista: come nel Marinetti, poniamo, di Democrazia futurista (1919): «II patriottismo è per noi semplicemente la sublimazione di quell’attaccamento rispettoso che le buone e forti aziende ispirano ai loro partecipanti ».
Ma il patriottismo d’azienda marinettiano ha vigore soprattutto, si torna a dire, in ambito bel ­lico. Si può comprendere che il De Maria escluda dal suo volume un’operetta marginale quale è il Come si seducono le donne (1918). Si comprende meno che non tenga alto conto, interpretativamente (ma in questo oblio, ahimè, non è certo il solo,..) di quel capitolo dedicato a La donna e la guerra, che è certamente la chiave più sicura per com ­prendere tutto il mondo letterario e ideologico di Marinetti.
Perché la Weltanschauung marinettiana ha il suo asse nella visione di una natura imperfetta, che attende dall’uomo un complemento indispen ­sabile, per i suoi significati e per la sua bellezza, e lo attende nella forma, precisamente, della guer ­ra, e della guerra industriale. I nodi memoriali-stici, con sfondo di referti autobiografici, comple ­tano il quadro, anche in direzione clinica, e giustificano una citazione non avara: «La terra, il mare, il cielo e la donna esigevano la guerra come complemento naturale. Parlo della conflagrazione, poiché le guerre precedenti non furono che abbozzi di guerra.   Tutti i tramonti   insanguinati simbo ­leggiavano, invocavano, profetizzavano le attuali battaglie. Cosa mai cercava sull’arco dell’orizzonte marino     il     mio     sguardo   di     collegiale     dodicenne quando accompagnavo mia madre nelle passeggia ­te crepuscolari sulla spiaggia di Alessandria di Egitto?     Cosa     mai     spiava     se     non     una   squadra bombardante? Molti anni dopo il Molo Giano vi ­brava sotto i miei piedi di studente per i continui scoppi di   porpora che i nuvoloni esplosi,   come polveriere lanciavano allo zenit ogni sera. I flauti e i violini del vento non consolavano certo i bo ­schi che aspettavano ansiosamente la ruvida stri ­gliata delle artiglierie. La concava placidità delle notti   stellate   mi diede   raramente delle torture mistiche, ma   quasi sempre l’orrore e lo schifo per il vuoto e per il silenzio che bisognava un giorno   o l’altro   ad   ogni   costo   riempire   ed   uc ­cidere     con       fragori     massicci     e     quadrati.       Gli uragani,     le     tempeste,     le     valanghe,       i     cicloni erano lo sforzo della conflagrazione che voleva nascere scoppiando nel mondo. Il tuono era la pro ­va generale, il desiderio rombante e il collaudo dei grossi   calibri   futuri.   Le   costellazioni   erano dei piani-abbozzi di bombardamenti notturni. Le forme aggressive delle alte montagne hanno final ­mente oggi ragione d’essere tutte rivestite dalle fitte traiettorie, dai sibili e dai rombi curvi delle cannonate ». E si dovrebbe continuare. Ma sarà ormai chiaro come, per Marinetti, la guerra industriale non è soltanto l’igiene, ma è la verità del mondo: la verità ultima della natura e della storia. Si conferma così la superba diagnosi di Benjamin, che vedeva nell’apologia estetica della guerra (e nella « estetizzazione della politica »)   il nodo centrale di Marinetti e di tutta la politica culturale del fascismo   (o dei «fascismi »),   e,   per questa via, il compimento dell’arte per l’arte. Per noi, non vi sono alternative critiche (e tanto meno pos ­sibilità giustificazionistiche,   come quelle tentate dal De Maria,     puntando,     sventuratamente,     su quelle che Debenedetti indicava, a suo tempo, sen ­za errore, come le infelici «contromarce » di Ma ­rinetti). E in ogni caso vale anche la sentenza estrema di Benjamin, quando afferma, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, impassibile e fermo: «II comunismo risponde con la politicizzazione dell’arte ».


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1 commento

  1. Commento by Yeah — 21 Dicembre 2011 @ 13:29

    Ottimo!

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