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LETTERATURA: I MAESTRI: Fogli di diario

15 Giugno 2008

di Mario Tobino
[dal Corriere della Sera di giovedì  23 novembre 1967]

(1960) – Adesso che ho quasi 50 anni e tanta vita dietro di me, intrecciati gli episodi e di tanti uomini conosciuti so la storia dall’A alla Z, come nac ­quero, come vissero, in che modo morirono, molto spesso mi sogno i fatti più antichi come fossero di nuovo presen ­ti.

Amici che poi non lo fu ­rono più, nemici che invece il tempo ha schiarito il segreto del cuore, nient’affatto di co ­lore nero. Mi sveglio con una acuta nostalgia del passato, in ­credulo che quel che fu vivo sia solo nella mia mente, ombra non solido oggetto.
La morte che mi verrà ad ­dosso porterà via anche quelle ombre, l’evanescenza del so ­gno; e di qui il tentativo con lo scritto di far fronte al tem ­po, la disperata battaglia, la gloria di un soldato, che non lascia il campo mentre le lance da ogni raggio si avvicina ­no indifferenti e implacabili.
Un vecchio rimasto lucido – uno più vecchio di me, di settanta o ottanta anni – de ­ve certo avere un sereno do ­lore, un continuo implacabile paragonare, senza alcuna cer ­ta conclusione, solo la speran ­za benefica dea, speranza che nonostante tutto, dataci da Dio, dalla natura, da Chissà chi, fino all’ultimo non ci la ­scia il cuore e lo riscalda, lo tiene vivo.
Abbiamo un mistero dentro di noi, che la morte miste ­riosa ci riprende.

*

E’ nel misticismo che intin ­ge   la   penna   lo   scrittore. Se   no,   non   è   tale.

*

Sono le nove di sera, sono al manicomio; mi sono mes ­so a scrivere nella sala dove c’è un focherello nella stufa che frigge e spesso scoppia.
Quasi-quasi, fatte le rapide somme, mi sento felice. Prima di morire potessi almeno dire – il clandestino -, dire tut ­to, spiegare col verso giusto, con le parole cosi comuni e adatte alle cose che più non sono parole.

*

Scrivere mi piace. Mi si ver ­sa la penna come il latte da una madre per il primo nato.

*

(1962) – A Viareggio anche oggi, alla trattoria « Costa dei barbari » a mangiare e bere dall’una alle quattro del po ­meriggio. In realtà ancora una volta a vedere, contemplare, amare, il porto-canale, la co ­sta, la spiaggia, i monti, il placido mare del mio paese. Non mi sazio, non mi stanco, sempre perdòno a Viareggio, dove sono nato.
Oggi era grigio, nel porto non affari, non lamiere bat ­tute, non fiamme ossidriche. Una sensualità di vecchio sag ­gio ancora giovane, una plaga felice, un punto dell’universo che ha invitato la ferocia a andarsene lontano.
Alle bocche del molo, due branche di muratura sul ma ­re plumbeo, il cielo dello stes ­so specchio cha sapeva di eter ­no, che mi diceva si ripeterà all’infinito dopo che io sono morto, un cielo come il mare indifferente al nostro destino umano, cosi illusorio. Sulla bocca del molo arrivano i pe ­scherecci facendo baffi bianchi sulla prua, spinti dal motore; dalla bocca uscì un guscio per ­fetto di yacht, che per diversi attimi delirai fosse mio, mia proprietà, mia casa, gentile abito della mia vita, di me che tanto ho amato il mare.
Era un guscio, sull’acqua di ­stesa di tavola, leggero, una metà elegante di nocellina, proprio colore del legno, con la prua testa di pesce, un al ­bero di trinchetto così alto che faceva immaginare una de ­riva, sotto le acque, della sua lunga sveltezza.

*

Che vita disperata è la mia che sempre ho dovuto rubare le immagini che più il mio cuore domandava, sempre ser ­vo nella mia società, nel tem ­po dove sono vissuto, presso che mai nella verità trionfa ­tore.
Qualcuno potrebbe dire l’incontrario, che fui prepotente, esperimentai, fui felice, attentissimo a tutto, questa essendo per un uomo la più grande letizia, storico essendo colui che è grande scrittore, insostituibile questo connubio. In verità non ho mai inciso nel mio tempo, nella giornata in cui vivevo, mai fulmi ­nato mentre il sole faceva il suo giro, mai spaccata in due la testa a un prepotente in modo che stramazzasse a terra come nei macelli le bestie per la elettrica pistola. Mi è venuto un poco di successo dopo tanti anni, e così una eco lenta che quando arrivava pensavo già ad altre opere, quella vittoria non aveva in me più alcun fascino.
Felice però sono stato nella mia solitudine, quando scrive ­vo, quando sentivo di creare con le parole scritte ciò che mi era più caro, ciò che ave ­va percorso il mio petto, ciò che aveva attraversato i miei occhi, e la mia anima aveva accolto.

*

Sono contento che mi sono un poco rimesso al mio dia ­rio. Il che vuol dire che an ­cora sinceramente e modesta ­mente parlo a me stesso.

*

Tutto questo sarà un gior ­no pubblicato? Incoraggerà un altro scrittore? Consolerà un altro disgraziato come me?

*

Questo diario è lo specchio della mia anima, è il suo sof ­fio. Non c’è cosa per me più cara.


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