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LETTERATURA: I MAESTRI: Poe in America e fuori

31 Marzo 2008

 di Edmund Wilson

[da: “Saggi letterari – 1920-1950”, Garzanti 1967]

I.

II recente risveglio dell’interesse per Poe, che pure ha giovato a portare alla luce molte notizie sullo scrittore e a darci per la prima volta una seria interpretazione della sua biografia, ha trascurato di dirci perché mai dovremmo se ­guitare a leggerlo.

Nei confronti di certi scrittori come Poe, noi americani siamo forse ancora altrettanto provin ­ciali di quei loro contemporanei che oggi giudichiamo scioc ­chi perché non ne hanno saputo riconoscere l’ingegno. Og ­gi, pur riconoscendone la grandezza, non possiamo fare a meno di giudicarli, anziché sotto l’aspetto del contributo da essi dato alla cultura occidentale, come nostri concittadini, di cui sentiamo il bisogno di spiegare; l’attività in quanto americani e dei quali, in qualità di vicini, siamo in grado di penetrare la vita privata. Così, quando ormai, da tre quarti di secolo Edgar Poe è considerato in Europa uno scrittore di prima grandezza, noi americani ci preoccupia ­mo ancora, pur deposta l’indignazione morale, della sua cattiva reputazione di cittadino. Così J.W. Robertson, che forse ha dato il via agli studi più recenti, ha pub ­blicato cinque anni or sono un libro per dimostrare che Poe era il tipico alcolizzato. Così l’anno scorso abbia ­mo assistito alla pubblicazione della corrispondenza di Poe col suo padre adottivo. Così ci assicurano la prossima rivelazione dei plagi di Poe da una fonte tedesca fin qui sconosciuta (come James Huneker ha rivelato che le ulti ­me e più famose poesie di Poe devono sicuramente molto a un oscuro poeta americano di nome Thomas Holley Chivers). Così una certa signorina Mary E. Phillips ha appena pubblicato un’enorme biografia di 1685 pagine – Edgar Allan Poe, the Man -, autentico monumento di in ­discriminata devozione la cui compilazione deve aver occu ­pato una vita, zeppo di illustrazioni comprendenti non solo vedute della cittadina scozzese dove nacque il padre adottivo di Poe, e fotografie del bibliotecario dell’Università del ­la Virginia al tempo in cui Poe era studente e dell’orologio a pendolo della villetta di Poe a Fordham, ma anche carte topografiche di New York, Richmond e Baltimora al tempo in cui Poe vi abitava; e contenente nella sua prosa soporifera più dati sullo scrittore di quanti non ne siano mai stati raccolti. Il migliore e il più importante fra i recenti saggi america ­ni su Poe è tuttavia, senza alcun dubbio, quello di Joseph Wood Krutch: Edgar Allan Poe: A Study in Genius. Krutch cerca di andare più in là di Robertson nella dia ­gnosi della malattia nervosa di Poe e le conclusioni cui per ­viene sono ormai note. Secondo Krutch, Poe era anzitutto indotto a perseguire una posizione eminente in letteratura per compensare la mancanza di una condizione sociale ele ­vata, condizione che il padre adotti voi gli aveva negato; inol ­tre, forse in conseguenza di una « fissazione » nei confronti della madre, egli diventò impotente e, non riuscendo ad ade ­guarsi al mondo reale, fu costretto a inventare un mondo irreale, di orrore, lamenti e dannazione (componenti, secon ­do il Krutch, universalmente riconosciute come proprie di una repressione sessuale di quel tipo). Sempre secondo il Krutch, la sua stessa attività intellettuale, la sua passione per il crittogramma e il delitto, nascevano soprattutto dal desiderio di dimostrare la sua razionalità nel momento in cui si sentiva precipitare verso la follia; infine, le sue teorie critiche costituivano semplicemente una giustificazione della sua particolare prassi artistica, che veniva così ad essere un altro sintomo della malattia. Va detto per lealtà verso il Krutch che, alla fine del libro, egli non manca di trarre dal ­le sue conclusioni particolari, conclusioni che valgono per tutti gli scrittori. Il Krutch ammette pienamente che, se quanto egli dice di Poe è vero, deve essere vero anche per « tutte le opere di fantasia » che, in tal caso, dovrebbero considerarsi come prodotti di « desideri inappagati » conse ­guenza a loro volta di certe « inattitudini alla vita proprie di un individuo o dell’intera specie umana ». Questo tutta ­via non impedisce al Krutch di travisare gli scritti di Poe né di sottovalutarli e nemmeno di divertirsi a farne la ca ­ricatura secondo l’inevitabile tendenza del moderno biogra ­fismo socio-psicologico, di cui il Krutch è il tipico rappresentante. Oggi infatti siamo deliziati dallo spettacolo di al ­cuni dei più begli ornamenti del genere umano che ci ven ­gono presentati esclusivamente come le più ridicole manie, come le più inquietanti nevrosi, come i più umilianti falli ­menti. Il Krutch ha scelto per il frontespizio di quel che egli chiama uno « studio sul genio », un dagherrotipo di Poe che è del 1849, ossia di poco anteriore alla sua morte: esso ci mostra un personaggio scialbo e distrutto, dalla capiglia ­tura scomposta, con baffi a spazzola mal curati e con grosse borse sotto gli occhi : gli stessi occhi sono tristi e smarriti; una palpebra è semiabbassata; una mano infilata sotto la giacca in atteggiaménto di fiacca ostentazione. La pom ­posa solennità della figura ha il ridicolo del vecchio attore decaduto che cerca di recitare l’Amleto, e la sua eviden ­te decadenza fa sgradevolmente pensare a un alcolizzato che sia stato messo in cura da poco. Analoga è l’impressione che si ricava alla fine dalla lettura del libro; il Krutch di ­sapprova la dichiarazione di Hadley, rettore dell’Università di Yale, il quale vuoi giustificare il suo rifiuto di accogliere Poe fra gli immortali del Famedio : « Poe scriveva come un ubriacone e come un debitore insolvente »; eppure lo stesso Krutch, così interessante come psicologo, si mostra quasi al ­trettanto ottuso quando ci dice in pratica che Poe scriveva come un gentiluomo del Sud privato dei suoi beni e come un uomo irrimediabilmente ancorato alla madre.
Quanto agli altri, H.L. Mencken ha molto lodato le stron ­cature critiche che Poe faceva ai suoi tempi: egli ha insom ­ma reso omaggio ad uno che praticò prima di lui la stessa sua arte; Van Wyck Brooks ha studiato l’opera di Poe per ricavarne prove sulla durezza e sull’aridità di una società puritano-pionieristica e l’ha trovata insoddisfacente sul pia ­no letterario, e Lewis Mumford, in The Golden Day, sem ­bra prendere l’imbeccata dal Brooks allorché scopre nella durezza di effetti di Poe l’acciaio dell’età industriale. Credo possa ben dirsi che nessun recente critico americano, ad ec ­cezione di Waldo Frank nel suo articolo sul carteggio Poe-Allan, ha saputo minimamente capire l’assoluta importanza artistica di Poe.

II.

Uno dei più impressionanti aspetti di tutta la critica americana su Poe è la tendenza a considerarlo come una spe ­cie di fenomeno, dall’esistenza in certo qual modo avulsa non solo dalla vita ma anche dalla letteratura del suo tem ­po. « Che la sua vita si sia svolta, » scrive il Krutch, « negli anni fra il 1809 e il 1849 è un puro caso, ed egli non ha in comune con Whittier, Lowell, Longfellow o Emerson più di quanto non abbia in comune con l’Inghilterra del secolo decimottavo o decimonono… Non v’è nelle sue opere nes ­sun rapporto plausibile, sia esterno sia interno, con la vita di nessun popolo ed è impossibile spiegarle in base ad una qualsiasi tendenza sociale o intellettuale o come espressione dello spirito di una qualsiasi età. » Peggio ancora, ci viene continuamente ripetuto che Poe non ha connessione alcuna con la « realtà », che egli scrive esclusivamente di un « mondo di sogno » che non ha nessun punto di contatto col nostro.
L’errore di questa seconda affermazione appare tuttavia evidente quando consideriamo la falsità della prima. Ben lungi dal non avere alcunché in comune con lo spirito della prima metà dell’Ottocento, Poe ne costituisce certamente una delle figure più tipiche; egli è in altri termini un romantico in piena regola, strettamente affine ai suoi contemporanei eu ­ropei. Così la sua vena fantastico-ossessiva è estremamen ­te simile a quella di Coleridge; la sua prima fase poetica lo collega a Shelley e a Keats; le sue «fughe nel sogno » ri ­chiamano De Quincey e i suoi « poemi in prosa », e Maurice de Guérin. I suoi temi – che, come dice Baudelaire, riguar ­dano l’« eccezione all’ordine morale » – appartengono alla tradizione di Chateaubriand e di Byron, e del movimento ro ­mantico in genere. È dunque in termini di romanticismo che dobbiamo cercare la realtà in Poe: pretendere da “lui lo stesso modo di vedere la vita che si trova oggi in Dreiser o Sinclair Lewis e che tanto sembra disorientare i nostri cri ­tici, significa mancare di senso storico. Da questo punto di vista sociologico, gli scrittori europei che ho citato sopra non avevano con i loro rispettivi paesi più legami di quan ­ti non ne avesse Poe con gli Stati Uniti. I loro ambienti e i loro personaggi, le immagini in cui traducevano le loro idee, erano diverse rispetto alle immagini del naturalismo moderno quanto quelle di Poe : essi se ne avvalsero per una narrazione di tipo diverso che comportava anche una mo ­rale di tipo diverso.
Quale è dunque la morale di Poe, quali le realtà che egli tentò di esprimere? La risposta va ricercata nell’espres ­sione baudelairiana « l’eccezione all’ordine morale »: fu questa eccezione all’ordine morale il tema dominante del movimento romantico. È assurdo dolersi, come fanno i nostri critici, dell’indifferenza di Poe alle istanze della società, co ­me se tale indifferenza fosse alcunché di anormale: uno dei principali aspetti del romanticismo era non soltanto l’indiffe ­renza alle istanze della società, ma una esaltata rivolta contro di esse. La figura preferita degli scrittori romantici era l’indi ­viduo sensibile considerato dal punto di vista della sua irridu ­cibilità alla legge o alla norma. E in questo Poe è assoluta ­mente tipico: i suoi eroi sono fratelli di Rolla e Rene, di Childe Harold, di Manfredo e Caino. Come questi ultimi, essi sono individui superiori che perseguono bizzarre fantasie, scandagliano abissi di dissipazione o cedono a passioni proi ­bite (Poe affrontò forse un paio di volte il diffuso tema ro ­mantico dell’incesto; ma sue specialità erano un freddo sadismo e una singolare forma di adulterio che non aveva mai luogo finché la donna tradita dal protagonista non era morta). E, come nel caso degli altri eroi romantici, il dramma nasce dal conflitto dei loro impulsi con la legge umana o divina. Questo impulso individuale non assume tuttavia in Poe, con la stessa frequenza che negli altri romantici, la forma di una passione che travolge gli argini della realtà, ma assume piuttosto il sinistro carattere di quello che Poe chia ­mava il « demonietto della perversità ». Eppure questa stes ­sa perversità di Poe, il vertiginoso terrore che essa genera, nascano pure da squilibrio mentale o da sfortunate circo ­stanze, hanno una loro poesia, un loro profondo pathos: da quei versi di una delle sue più belle poesie in cui egli parla del destino della sua vita che già gli si manifestava nella fanciullezza mentre osservava la « nuvola che prende ­va forma / (quando il resto del ciclo era azzurro) / di un demonio ai miei occhi », al passo in cui ci offre la tremenda visione dell’uomo condannato (« malato – mortalmente ma ­lato con quella lunga agonia » quando « dapprima [le candele] avevano un aspetto di pietà e parevano bianchi esili angeli che mi salvavano; ma poi, tutto a un tratto, il mio spirito fu come travolto da una nausea mortale, e sentii ogni fibra di me stesso percorsa da un brivido come se avessi toc ­cato il filo di una pila galvanica, mentre le forme angeliche divenivano spettri insensati, dalle teste di fiamma, ed io mi accorgevo che nessun aiuto me ne poteva venire. E allora, come una ricca nota musicale mi si insinuò nella mente il pensiero di quale dolce riposo doveva esserci nella tomba »). Ed è la interminabile « agonia » della sua esperienza morale che conferisce al William Wilson di Poe quella superiore sincerità ed intensità che lo distingue dal Doctor Jekyll and Mr. Hyde di Stevenson. In Stevenson è la metà virtuosa del ­la doppia personalità a distruggere l’uomo diviso esorciz ­zando il male; ma in Poe è la metà malvagia che si libera della buona e che assume perfino l’ufficio di narrare l’intera storia dal proprio punto di vista. Eppure non è proprio il William Wilson a farci sentire l’orrore della mutazione mo ­rale in modo assai più convincente della melodrammatica favola del dottor Jekyll e di Mr. Hyde?
A questo riguardo c’è un particolare tema tragico di Poe che merita di essere sottolineato. Il Krutch dice che Poe era impotente e che, per tale ragione, benché forse inconsape ­volmente, prese in moglie una ragazzina di tredici anni con la quale gli sarebbe stato impossibile avere regolari rapporti coniugali. Di ciò il Krutch non adduce prova alcuna, ma noi non siamo obbligati a dare per accettata la cosa solo per poter convenire col signor Krutch che il matrimonio di Poe con Virginia Clemm non fu molto riuscito e che ebbe una strana influenza sulla sua opera. Virginia era prima cu ­gina di Poe e può darsi che, proprio per questo, egli avesse qualche scrupolo a consumare il matrimonio. Comunque la ragazza si ammalò di tubercolosi e, dodici anni dopo le noz ­ze, morì; mentre lo stesso Poe diventò nevrotico, irritabile e infine squilibrato. Egli era ossessionato da terribili fantasie e, a quanto sembra, la morte della moglie lo portò addirittura fuori di senno.
Si può forse concordare col Krutch, quando sostiene che l’atroce sadismo di molti successivi racconti di Poe nasceva da   una   forma   di   repressione.     Benché   senza   dubbio   egli adorasse Virginia, sembra che al tempo stesso ne abbia an ­che desiderato la morte. Nei suoi racconti egli immagina sempre,     assai   prima     che     effettivamente     muoia,     che     una donna come Virginia sia già morta e che il suo uomo* sia libero così di amare altre donne. Ma anche in questo caso la donna morta interviene: in Ligeia, la donna si reincarna nel cadavere di quella che ha poi preso il suo posto, morta anch’essa; in Morella, si reincarna nella sua stessa figlia. Ed è evidentemente questo conflitto dei sentimenti ad ispirare a Poe, non solo certe bizzarre fantasie, ma anche gli ine ­splicabili rimorsi che tanto spesso assillano i suoi personaggi. Con l’avvenuta morte di Virginia, la situazione prevista da Poe nei suoi racconti sembra essersi realizzata:   egli in ­trattiene fuggevoli rapporti con altre donne, ma tali rappor ­ti si accompagnano a « un confuso inesplicabile sentimento estremamente simile a un senso di colpa ». « Non sono stato mai veramente pazzo, » scrive alla signora Clemm poco pri ­ma di morire egli stesso miseramente, « salvo quando c’era di mezzo il cuore. Sono stato messo in prigione per ubria ­chezza una volta da quando- sono venuto qui; ma non ero ubriaco. Era per Virginia. » La storia di Poe e Virginia è dolorosa e alquanto spiacevole;   ma vale forse la pena di parlarne tanto, poiché vi ritroviamo l’effettivo rapporto che, considerato alla luce di un problema romantico e traspo ­sto in termini romantici, pervade gli scritti di Poe del si ­nistro presagio di un conflitto irresolubile tra lo spirito ri ­belle, la volontà individuale da un lato> e, dall’altro, i suoi stessi ideali romantici e i suoi legami umani. « L’intero mondo dell’etica, » afferma il Krutch, « è assente [nell’ope ­ra di Poe], e non soltanto come tale, ma anche come ma ­teria artistica per la creazione di contrasti e situazioni. » Ma allora su che cosa egli crede si fondino certi racconti come Eleanora e Ligeia? Il Krutch soggiunge poi che l’orrore è il solo sentimento che appartiene « genuinamente » a Poe e che pertanto « deliberatamente inventa i suoi propri motivi » ed « è sempre e soltanto un sentimento senza alcun fondamento razionale ». Come trovare, egli indubbiamente domanderebbe, qualcosa di simile ad un intento morale in racconti come Descent into the Maelström o The Case of M. Valdemar? Del problema parlerò tra poco.

III.

Poe fu, dunque, un tipico romantico. Ma egli fu anche qualcosa di più, in quanto erano in lui i germi di un ulte ­riore sviluppo. Nel 1847 già Baudelaire aveva cominciato a leggere Poe e ne aveva « provato una strana commozione »: conosciuti poi tutti gli altri scritti di Poe nelle collezioni delle riviste americane, egli vi trovò racconti e poesie che aveva « pensato vagamente e confusamente » di scrivere lui stesso; e Poe divenne per lui un’ossessione. Nel 1856 pubbli ­cò un volume di traduzioni di racconti di Poe; e da allora Poe ebbe notevolissimo influsso sulla letteratura francese. Di questo influsso ha scritto recentemente Louis Seylaz in un libro intitolato Edgar Poe et les premiers symbolistes franí§ais in cui illustra quanto debba a Poe il movimento simbolista francese, da Baudelaire, attraverso Verlaine, Rimbaud, Mallarmé (che tradusse le poesie di Poe), Villiers de l’Isle-Adam e Huysmans, fino al contemporaneo Paul Valéry (autore di recenti e interessanti pagine su Poe in una prefa ­zione ad una nuova edizione di Les fleurs du mal di Bau ­delaire).
Vediamo in che cosa consista esattamente questo influsso che la letteratura francese avvertì così profondamente per un intero mezzo secolo, e al quale invece rimase così com ­pletamente estranea la letteratura della patria stessa di Poe, al punto che gli americani ne parlano ancora oggi come se il suo merito maggiore fosse quello di essere il « padre del racconto ». Anzitutto, dice Valéry, Poe introdusse nel ro ­manticismo del secondo Ottocento una nuova disciplina estetica. Forse più di qualsiasi altro scrittore francese o inglese della prima metà del secolo, egli aveva seriamente me ­ditato e chiaramente scritto sui metodi e i fini della lettera ­tura. Perfino in poesia, all’epoca in cui l’influsso di Poe cominciava a manifestarsi in Francia, la generazione post-romantica aveva tentato di opporre alla stravaganza e sre ­golatezza del romanticismo ormai logoro gli ideali del na ­turalismo. Ma Edgar Poe avrebbe dato a quegli ideali un programma nuovo e preciso: sfrondare le sovrabbondanze romantiche, per realizzare tuttavia degli effetti che si pos ­sono soltanto definire romantici. Che cosa erano questi ef ­fetti ultraromantici di cui Poe aveva parlato per primo, e quali mezzi egli suggeriva per ottenerli?
« Io so, » scrive Poe, « che l’indefinitezza è propria della musica vera [della poesia]: voglio dire della vera espressione musicale… una suggestiva indefinitezza di signifi ­cato intesa a determinare in modo definito un effetto vago e pertanto spirituale. » Siamo già alla teoria simbolista : Poe l’aveva attuata nelle sue stesse poesie, che ben di rado possono dirsi completamente riuscite, ma che sono, ciò nonostante, di primaria importanza. Nella prefazione alle sue poesie, scusandosi per le loro imperfezioni, egli ci dice in modo alquanto patetico che « circostanze insuperabili » gli hanno impedito « di compiere, in qualsiasi momento, un serio tentativo in quello che, in circostanze più favore ­voli, sarebbe stato il campo [da lui] prescelto ». L’immaturi ­tà dei suoi primi versi, in cui egli imita Shelley e Coleridge, non è certamente riscattata dai voluti artifici dei versi succes ­sivi, che sembra aver preso a prestito da Chivers e che sono sempre un po’ troppo modesti. Eppure tutta la poesia di Poe è interessante, perché più di quella di ogni altro roman ­tico (salvo forse il Coleridge di Kubla Khan) essa si avvicina alla indefinitezza della musica, ossia al supremo obiettivo dei simbolisti. Ciò vale a dire, in termini banali, che la poe ­sia di Poe è più illogica di quella di qualsiasi altro roman ­tico e di un’illogicità che, sempre in termini banali, assomi ­glia a quella della nostra migliore poesia moderna, Per limitarci ad un solo esempio, uno dei tratti caratteristici del moderno simbolismo è una specie di confusione psicologica tra le impressioni dei diversi sensi. Questa confusione ap ­pare distintamente in Poe: così vediamo che, in una delle sue poesie, egli ode l’appressarsi delle tenebre; e, in uno dei suoi racconti in cui descrive meravigliosamente la ridda di sensazioni che seguono la morte, leggiamo questo passo: « giunse la notte e, con le sue ombre, un grave disagio. Mi opprimeva le membra con l’oppressione di un peso inerte, ed era palpabile. C’era anche un suono di lamento, non dissimile da un lontano riverbero di risacca, ma più continuo, che, cominciando col primo crepuscolo, era cresciuto nel buio d’intensità. Improvvisamente dei lumi furono por ­tati nella stanza… e quasi emanando’ dalla fiamma di cia ­scuno di essi ininterrottamente fluiva nelle mie orecchie una melodiosa corrente fatta di un’unica nota ».
Simile alla sua teoria del verso era in Poe anche la teoria del racconto. « Un artista esperto, » egli scrive, « ha costrui ­to un racconto. Se ben accorto, egli non adegua il suo pensiero alla trama; ma avendo concepito, con preciso inten ­to, un determinato Affetto, parziale o globale, sul quale la ­vorare, egli inventa una serie di fatti e li organizza in modo tale che possano aiutarlo il più possibile a concretare l’ef ­fetto prestabilito. » Pertanto, la cosa rilevante nei racconti di Poe non è ciò che si presenta come immediatamente nar ­rativo. Molti sono, per sua stessa ammissione, veri e propri sogni; ma, proprio come i sogni, per quanto ciò possa sem ­brare assurdo, incidono realmente sulle nostre emozioni. E anche quelli che ambiscono alla logicità e all’esattezza di resoconti realistici sono, ciò nonostante, dei sogni. Ciò che in essi accade non è riducibile ai puri e semplici colpi di scena macabri, alle stupefacenti avventure e ai favolosi viaggi di certi imitatori di Poe tipo Conan Doyle. La discesa nel maelström, nel vortice marino, sta a significare me ­taforicamente l’orrore del gorgo morale in cui, non senza motivo, Poe aveva una vertiginosa paura di precipitare, co ­me ben sappiamo da altri più espliciti racconti; la fine pre ­cariamente differita di M. Valdemar sta a significare quel ­l’orrore del morto-vivo che è anche in Premature Burial e che come una maledizione perseguitò Poe in tutti i suoi ul ­timi anni. Nessuno meglio di Poe comprese che, nel racconto come nella poesia, non conta quel che si dice, ma quel che si riesce a far sentire al lettore (egli mette sempre in cor ­sivo la parola effetto); nessuno meglio di Poe sa che la più profonda verità psicologica può essere resa attraverso la fantasmagoria. Persino i racconti realistici di Poe sono, in realtà, fantasmagorie di tipo più circostanziato. In ogni epo ­ca, ogni tipo di realismo che non comunichi un po’ di que ­sta verità è destinato, naturalmente, al fallimento. E oggi che è in atto una rivolta contro la letteralità e la superficialità del naturalismo inseritosi fra il tempo di Poe e il nostro tempo, uno scrittore come lui non può non presentare un particolare interesse.
« L’intelligenza di Poe costituì, » scrive Padraic Colum, « una rara sintesi. Egli possedeva elementi che rispondevano tanto all’indefinitezza della musica quanto all’esattezza della matematica. » Non è proprio ciò a cui tende la moderna let ­teratura? Fu Poe a gettare un ponte fra il romanticismo del primo Ottocento e il simbolismo della fine del secolo; e il simbolismo, come sottolinea il Seylaz, benché quasi più nessuno dei suoi primi esponenti sopravviva, continua a per ­meare di sé la letteratura. Non dobbiamo comunque pre ­tendere che Poe venga ammirato o compreso per questa sua capacità di far da ponte su questo vuoto da parte di critici che forse non sospettano nemmeno l’esistenza delle due spon ­de su cui poggia.

8 dicembre 1926


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1 commento

  1. Pingback by Articolo di Edmund Wilson su Poe — 2 Febbraio 2009 @ 08:05

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