LETTERATURA: Il vecchio
1 Aprile 2008
di Gian Gabriele Benedetti
[Oltre a numerosi libri di poesia, ha pubblicato la raccolta di racconti “Paese”, Lalli Editore, 1986]
La lussuosa B.M.W. nera saliva quasi con levità lungo il nastro d’asfalto, reso lucido da una pioggia che racchiudeva in sé tutto il tormento di una stagione alla fine. Sul colle, fasciato da sbuffi di brume, si intravedeva, nel pianto del cielo, il grigio sdipanarsi delle case del paese. I tetti divenuti scuri, privi di gridi di passeri in libertà , sonnecchiavano  nel loro muto abbandono. I campi ormai parevano rassegnati allo stillicidio incessante di nuvole informi, che non conoscevano squarci di chiarore, e si macchiavano di chiazze lutulente simili ad occhi smorzati.
          I solitari passeggeri, abbrigliati nella taciturnità delle loro riflessioni, non avevano sguardi da disperdere sulle cose intorno, e neppure l’animo li spingeva a guardare. Il movimento uguale, monotono del tergicristallo sembrava scandire gli attimi spenti.
          Gli alberi soggiogati spandevano smorti le ultime manciate di foglie, farfalle con ali bagnate, che avevano perduto i primitivi colori. Non un essere vivente ad offrire un palpito di vita ad una natura scialba e sfinita. Solo qualche lampione solerte lasciava man mano piovere la sua luce, appannata dall’umido lacrimare dell’aria, che si tramutava in guizzi appena accesi e presto ingoiati dalla terra straziata.
          Ben presto l’auto approdò all’ampio cancello in ferro battuto, che tacite piaghe di ruggine annosa avvolgevano pazienti, rammentando l’inesorabile sgocciolare del tempo. Un colpo secco di clacson ed i battenti pigramente si mossero liberando l’accesso ad un lungo viale ghiaioso. A fianco una targa invecchiata, su cui ancora si poteva leggere “Casa di riposo Sant’Anna”.
          In fondo spiccava la sagoma tetra di una villa settecentesca con un trucco moderno. Un esteso giardino di secolari sempreverdi, disposti con ordine sapiente, dava l’illusione di una quiete impenetrabile. Sotto la chioma degli alberi maestosi un buio precoce a stento faceva scorgere una serie di panchine in legno, che parevano invocare impossibili macchie di sole a dar tregua ad una solitudine quasi rassegnata.
          Le persiane socchiuse della villa, palpebre stanche in un dormiveglia pesante, davano l’impressione di voler proteggere una pace scolorita. L’enorme arcuato portone d’ingresso lanciava severo la sua occhiata d’angoscia.
          Un’infermiera, nella sua aggraziata divisa bianco-azzurra, attendeva, indifferente e con aria professionale, i nuovi arrivati sotto il capace ombrello. L’auto arrestò il motore e gli occupanti scesero.
          Ci volle un po’ prima che il vecchio potesse essere accompagnato nell’ampia hall. Le sue gambe, agili una volta, ormai l’avevano abbandonato. Era inutile dare la colpa alla stagione inclemente: il peso degli anni, anche se ancora fa rifiutare la morte, stende la sua inevitabile patina di stanchezza su tutte le membra e fa sentire inermi.
          Un saluto affrettato (il tempo per i giovani non ha pazienza di aspettare), un arrivederci (od un addio?) aspro come la brina d’inverno, lo sbattere sordo delle portiere, il crepitio stridulo della ghiaia sotto le ruote in movimento, l’allontanarsi lento, lacerante dell’auto…
          Il vecchio si adagiò, sorretto dall’infermiera, su una poltrona, accanto alle valigie con la sua roba, e per alcuni minuti, tardi ad andarsene, fu lasciato solo.
          L’anticamera, dalle pareti di un bianco metallico, pur sobriamente arredata, mostrava una razionale ma fredda disposizione dei mobili e dei quadri. Lo sguardo inquieto e sperduto si volse intorno alla ricerca segreta di un appiglio disposto a concedere un labile frammento di speranza. La mente, avvolta in confusi pensieri, non riusciva a dar ordine ad un ragionare pacato, ma offriva spazio soltanto ad un oscuro sgomento.
L’uomo viveva come in un incubo, fuori del tempo, in una stanza per lui senza porte e finestre, senza possibilità alcuna d’uscita. E tentava con tutte le energie che ancora sopravvivevano in lui di allontanare quel terribile sogno, per ritrovare finalmente perdute serenità . Ma la spietata verità spezzava anche il tenue filo a cui l’animo generoso caparbiamente si attaccava.
          Ora il vecchio era nella sua cameretta. Un letto d’ospedale, un armadio minuscolo di una semplicità disarmante, un comodino alto e stretto, un piccolo tavolo posato in un canto con una sedia impagliata, un cestino messo lì per terra distrattamente, il Crocifisso polveroso alla parete sopra la testata del letto costituivano tutto l’arredamento che quasi soffocava la piccola stanza. Una finestra ampia, serrata da sbarre di ferro, tentava di dar lume al grigiore fattosi dentro.
          Quella era la sua casa, la sua nuova casa, anzi la sua prigione, finché non fosse giunta la mano pietosa della morte a dar fine ai giorni divenuti di cenere. E si sentiva come un albero sradicato pronto a marcire nell’ombra. Né trovava la forza per arginare il dolore che stava per travolgerlo; catene resistenti stringevano il suo logoro cuore in una morsa di pianto, ma aveva chiuso nel silenzio anche le lacrime, incapaci, così, di dar sfogo a tutta l’amarezza crudele che pesava come fredda pietra.
          Scese la notte, senza stelle a dialogare nel cielo, ma gli occhi del vecchio non potevano piegarsi ai voleri del sonno. Allora, come su uno schermo che girava vertiginoso, gli echi insepolti del passato riaffiorarono prepotenti in sequenze confuse, simili a voci mai sopite e capaci di ridestargli sensazioni pronte a trascinare alle soglie del deserto che geme nell’intimo. Quei ricordi lontani, divenuti ora sterpi spinosi, premevano sui ciottoli arrugginiti dell’anima e la polvere della pena stagnava invadente a scavare ferite più profonde nel tronco avvizzito.
          Tutta la sua esistenza, tutto il suo mondo costruito attimo dopo attimo, tutti i suoi affetti, tutti i sogni disseminati via via lungo i sentieri percorsi, sogni ormai appassiti,… tutto era finito squallidamente fra quelle quattro pareti, dove si sarebbero spente ore sconsolate.
          Mai più avrebbe potuto specchiarsi nello sguardo limpido degli amati nipoti, sguardo innocente di cuccioli che si apriva felice ed ignaro alle porte della vita. Le loro grida di cristallo, le risate sbarazzine, il parlare nitido e puro come profumo d’acacia sarebbero stati, d’ora in poi, soltanto un pallido riverbero di un lungo addio sui viali di un tramonto inarrestabile. E quelle fiabe, che amava raccontare prima che il sonno blandisse le palpebre stanche, quelle fiabe che facevano luccicare d’incanto le pupille e che gli ridestavano angoli remoti di tempo, non sarebbero più fiorite sulle labbra bagnate di fiele.
          Gli pesava il rifiuto (oh, come gli pesava!), l’essere stato abbandonato simile ad un oggetto inutile da coloro nei confronti dei quali aveva riversato a piene mani il mare smisurato di un amore mai affievolito; e tentava vane giustificazioni per dare pace ad uno sconforto senza fine, costruendo effimere impalcature di difesa.
          Adesso non gli restava che raccogliere sugli usci sbarrati solamente un pugno di momenti senza senso in un mondo perduto.
          Per quale maligno sortilegio non gli era stato concesso di seguire per sempre la compagna della sua vita che Dio, nel suo disegno imperscrutabile, gli aveva rapito? Perché non era con lei a continuare quel cammino freddamente frantumato? E si considerava, per davvero, morto vivendo.
Affossò la testa smarrita nel guanciale, che s’era fatto di sabbia rovente, per cancellare il diluvio che lo assediava e cercò rifugio nel silenzio del buio. La porta socchiusa gli portò un lieve mormorio di preghiera: sottile voce incerta che si levava nella stanza accanto. Più in là un flebile canto singhiozzato di antica ninna-nanna si aggrappava tenero all’illusione di giovani stagioni troppo distanti, ma mai dimenticate.
          Un sonno ipocrita tese, a quel punto, il suo agguato e fece pesare la stanchezza degli occhi turbati, che cedettero arrendevoli verso le sponde del nulla.
          E quegli occhi serrati non si riaprirono più ai giorni nuovi ad implorare una pietà impossibile.     Â
Letto 1466 volte.