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Il contenitore indispensabile

7 Marzo 2012

di Ernesto Galli Della Loggia
(dal “Corriere della Sera”, 7 marzo 2012)

La crisi economica sta mandando all’aria molti luoghi comuni di cui negli ultimi due o tre decenni si è nutrito il discorso pubblico di tutto l’Occidente, e in particolare dell’Italia. Forse il più significativo è quello che decretava la presunta fine dello Stato nazionale. Fine non solo presunta ma auspicata, in quanto ritenuta un progresso certo verso un futuro migliore. Da ciò, per esempio, gli inni sempre e comunque all’«Europa », a ciò che in qualunque modo avesse a che fare con la sua «costruzione », l’approvazione a tutto quanto sapesse di limitazione della sovranità statal-nazionale.
Limitazione, peraltro, sempre presentata lessicalmente come un «superamento » (e quindi come qualcosa di positivo).
Ci si è aggiunto, per buona misura, l’orientamento culturale diffuso, volto a dipingere ogni identità collettiva (purché beninteso non fosse quella «politicamente corretta » rivendicata da neri, donne o omosessuali) come l’anticamera del pregiudizio, del razzismo, della guerra: insomma, della violenza. Anche per questa via, quindi, nuovo pollice verso a quei potenti blocchi d’identità storico-culturale rappresentati dagli Stati nazionali.

La realtà sta però dimostrando che – pure ammesso (e niente affatto concesso) che lo Stato nazionale costituisca qualcosa di ormai intrinsecamente negativo, e pure ammesso (e di nuovo non concesso) che perciò è una fortuna se la globalizzazione e l’«Europa » si apprestano a liberarcene – pure ammesso tutto, dicevo, rimane però un problema non da poco con cui fare i conti. E cioè che lo Stato nazionale è pur sempre l’unico contenitore possibile entro il quale possa esercitarsi l’autogoverno di una collettività. In una parola, la democrazia. È accaduto così storicamente. E oggi pure è così: democrazia e Stato nazionale stanno insieme; se viene meno l’uno, appare destinata a venire meno anche l’altra.

Lo insegna quanto accade oggi. Appena una qualunque decisione, specie economica, esce dal singolo ambito statale ed è avocata dalla sede sovranazionale europea, essa esce dal circuito della discussione e del confronto interno alla collettività degli elettori di quello Stato. I suoi contenuti non sono più definiti dall’opinione della maggioranza esistente in quel Paese o dall’orientamento del suo governo (tutte cose che sopravvivono ma non hanno valore dirimente). E prendono invece la forma ultimativa, calata dall’esterno, del «prendere o lasciare ».

Né è facile sostenere che tale cessione di sovranità è tuttavia accettabile perché – come prescritto anche dalla nostra Costituzione – essa avverrebbe su un piede di parità. Almeno per quanto riguarda l’Unione Europea tale parità appare ormai del tutto fittizia. Solo formalmente, infatti, la cessione di cui sopra avviene a favore di un’entità sovranazionale nella quale tutti i membri hanno eguale voce in capitolo. In realtà, essa avviene a favore di un organismo dove d’abitudine prevale costantemente la volontà di uno o più Stati nazionali (per esempio la Germania, o la Germania e la Francia). Cioè, guarda caso, del loro particolare interesse come Stati nazionali. E tale volontà prevale, com’è regola antichissima, perché è la volontà del più forte. La quale volontà si può sempre sperare, naturalmente, che finisca per accettare qualche sacrificio: ma se lo fa, lo farà certamente solo con la speranza di un vantaggio futuro in termini di potere.

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“Se il Pd dice addio al bipolarismo di coalizione” di Francesco Cundari. Qui.


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