Tre articoli2 Luglio 2012 Quando Scalfaro cercò una soluzione politica per chiudere Tangentopoli Le mani di Oscar Luigi Scalfaro su Mani Pulite, la discesa in campo del Quirinale per modificare il corso delle indagini su Tangentopoli e indirizzarle verso una “soluzione politica”. A più di vent’anni di distanza dall’indagine che ha spazzato via un’intera classa politica, un brandello di luce arriva – inatteso, e forse per caso – dai margini di un’altra inchiesta, quella in corso in Sicilia sulla presunta trattativa tra Stato e Mafia. Una testimonianza e un pezzo di carta dicono che dal Collle più alto della Repubblica partì tra il 1992 e il 1993 un tentativo di condizionare il corso dell’indagine milanese, e che per questo Scalfaro scelse un suo uomo che facesse da “ufficiale di collegamento” con la Procura milanese. Scelse un uomo di cui si fidava, e che anche i pubblici ministeri milanesi conoscevano bene, perché era stato a lungo uno di loro: Francesco Di Maggio (nella foto), per anni pm a Milano, poi inviato a Vienna come consulente giuridico presso l’Onu, e ufficialmente rientrato in Italia nel giugno 1993 per essere nominato numero 2 del Dap, la direzione delle carceri. Ma tra i due incarichi, si scopre ora, ci fu una “finestra” in cui nel più totale segreto Di Maggio avrebbe lavorato per conto del Quirinale come rappresentante del Palazzo presso la “giurisdizione Padana”, ovvero il pool Mani Pulite. Obiettivo, una “soluzione politica” per Tangentopoli, una via d’uscita che consentisse alla Prima Repubblica – o almeno a una parte di essa – di sopravvivere alle indagini della Procura milanese. La notizia – che scivola via nell’ultima colonna di un articolo di domenica sul “Corriere della sera” – costringerebbe a riaprire quel pezzo di storia patria, se non altro perché in nessun articolo della Costituzione, del codice o di altre leggi sta scritto che il capo dello Stato possa interloquire in questo modo con la magistratura; né, parallelamente, che la magistratura possa rispondere ad “avances” di questo tipo provenienti dal Colle. Eppure la fonte sembra solida, e per alcuni aspetti incontrovertibile: è lo stesso Di Maggio. Recentemente il nome di Di Maggio è stato tirato in ballo nell’inchiesta sulla trattativa con la mafia come responsabile dell’allentamento del carcere duro per i boss: ipotesi risultata immediatamente inverosimile e quasi risibile per chiunque l’abbia conosciuto. Di Maggio è morto nel 1996, e quindi non si può difendere. Nessuno dei suoi ex colleghi si è preso la briga di tutelarne la memoria. Così è toccato a suo fratello Tito uscire allo scoperto, documentando la contrarietà di Di Maggio alla linea morbida verso i detenuti di Cosa Nostra. Ed è Tito Di Maggio, quasi di sfuggita, a raccontare che in realtà il fratello non tornò da Vienna per andare al Dap, ma perché «Scalfaro gli chiese se poteva fare da “trait d’union” con i magistrati milanesi, lui accettò e lavorò a quella soluzione politica di Tangentopoli poi abortita ». Di un simile incarico a Di Maggio da parte del Quirinale non si era mai saputo niente. Ma traccia documentale ne emerge in uno scritto del magistrato scomparso: «Qualcuno aveva conservato memoria della mia assiduità al lavoro, e concepito di affidarmi le funzioni di ufficiale di collegamento tra la giurisdizione Padana e il Palazzo ». Singolare, nel racconto di Tito Di Maggio, l’origine dei rapporti privilegiati tra suo fratello e Scalfaro: “L’aveva conosciuto quando lui faceva il pm a Milano e aveva raccolto le confessioni di Angelo Epaninonda, il quale chiese protezione per i suoi familiari; Franco investì della vicenda il ministro Scalfaro che tramite il cardinal Martini trovò rifugio ai parenti del boss in un istituto religioso. Da allora nacque un rapporto di stima di cui il presidente si ricordò all’inizio del 1993 quando l’inchiesta Mani Pulite stava creando grossi problemi alla politica”. Tutto avviene dunque in un arco di tempo breve: nel maggio 1992 Scalfaro diventa presidente, ma – stando al racconto di Tito Di Maggio – è solo diversi mesi più tardi, “all’inizio del 1993” che il capo dello Stato sente il bisogno di trattare con la Procura di Milano; e il tentativo di Di Maggio si conclude sicuramente prima del giugno 1993, quando Di Maggio passa al Dap. Il problema è che di questo ruolo di «ufficiale di collegamento » tra Procura e Quirinale svolto dall’ex pm non c’è traccia non solo nei documenti ma neanche nei ricordi dei protagonisti, ovvero i componenti del pool milanese: «Ho letto anche io questa storia – dice Antonio Di Pietro – e sono caduto dalle nuvole. Premetto che conoscevo bene Di Maggio, ed è più probabile che il sole domani non sorga piuttosto che Di Maggio si sia prestato a azioni poco legali. Ma di un suo interessamento alle nostre indagini su Tangentopoli non ho mai avuto alcun segnale. Non mi ha mai chiesto niente ». Ancora più “tranchant” l’ex procuratore della Repubblica, Francesco Saverio Borrelli: «Sono stupito. Escludo assolutamente di essere stato al corrente di un incarico a Di Maggio o di una sua iniziativa. Per quel che ricordo io, da Vienna andò direttamente a Roma, al Dap. Certo, può darsi che sia passato da Milano, a salutare i colleghi. Ma escludo che abbia svolto un ruolo di collegamento tra noi e la presidenza della Repubblica, a meno che la cosa non sia avvenuta nell’ombra e a nostra insaputa: ma è una eventualità che tenderei a scartare ». L’unico “no comment” arriva da Piercamillo Davigo, che tra i membri del pool Mani Pulite era sicuramente quello più vicino a Di Maggio, avendo lavorato a lungo con lui proprio all’inchiesta sul clan Epaminonda, e quindi quello con cui è più verosimile che Di Maggio si potesse confidare: «È da escludere che io rilasci alcuna dichiarazione », dice Davigo, oggi giudice in Cassazione. E allora? Dovendo escludere che Di Maggio si sia inventato tutto, quale fu esattamente la missione che gli venne affidata dal Quirinale a Milano? Qual era la veste formale che gli venne assegnata? Quali i suoi interlocutori nel pool Mani Pulite? Qual era la «soluzione politica » che Scalfaro aveva in mente per l’inchiesta milanese e che poi sarebbe abortita? Sono domande già complicate di per sé, che rischiano di diventare un rompicapo inestricabile se si “contestualizza” la missione di Di Maggio a Milano in quei mesi. Perchè la verità è che in quei mesi le strade di Mani Pulite e le vicende della lotta alla mafia si incrociano a ripetizione, e non sempre è difficile distinguere le vicende di un fronte da quelle dell’altro. All’inizio del 1993, quando Di Maggio assume il suo misterioso incarico, Giovanni Falcone è morto da pochi mesi, e Ilda Boccassini ha denunciato pubblicamente la diffidenza che il pool Mani Pulite mostrava nei confronti del collega, al punto da inviargli una rogatoria senza gli allegati:. L’anno dopo, in coincidenza con la parte finale del tentativo di Di Maggio per conto di Scalfaro, arriveranno le bombe di Roma, Firenze e Milano, e soprattutto quest’ultima verrà vissuta da Borrelli anche come un attacco al pool. Ma il momento in cui l’intreccio si fa più vistoso arriva pochi mesi dopo, all’inizio dell’autunno, e coinvolge anche Di Maggio: un pentito antimafia si presenta a Milano e dice che la Procura di Firenze e il Gico della Guardia di finanza lo stanno spingendo a gettare accuse contro il pool Mani Pulite e contro la Procura di Milano, sostenendo che alcuni pubblici ministeri meneghini coprivano le attività dei clan catanesi dell’Autoparco di via Salamone: un posto dove si incrociavano criminali comuni, confidenti, gente legata ai servizi segreti. Tra i pm di cui il Gico voleva la testa, c’era Antonio Di Pietro ma c’era anche lui, Francesco Di Maggio, che pure sui catanesi dell’Autoparco aveva indagato per anni, e con successo. Si rischiò lo scontro frontale tra le due Procure, da una parte Borrelli, dall’altra Pierluigi Vigna. L’inchiesta fiorentina sull’Autoparco finì su tutte le prime pagine, e venne catalogata tra le manovre contro Mani Pulite. Poi la cosa venne lasciata cadere. Ma quando tre anni dopo Di Maggio si ammalò, e in poche settimane morì, la rabbia per quel fango non gli era ancora passata. Il dinosauro è ancora lì Cuando despertí³, el dinosaurio todavía estaba allí. «Quando mi sono svegliato, il dinosauro era ancora lì ». Le decisioni prese al vertice non sono da sottovalutare. L’accordo che permette al Fondo salva Stati di potere, in futuro, ricapitalizzare le banche direttamente e non attraverso gli Stati nazionali dovrebbe contribuire a rompere il vincolo che lega debitori nei guai con i governi nei guai. E’ un’iniezione salvifica sia per la Spagna che per l’Irlanda. Nel frattempo, aprire il Fondo salva Stati per stabilizzare il mercato del debito sovrano può bloccare la crescita dei rendimenti di Roma e Madrid a livelli insostenibili. E se nel frattempo ritorna la fiducia, la Spagna e l’Italia possono evitare di dover richiedere un salvataggio completo, o di ristrutturare i loro debiti. Mentre l’Irlanda, già inserita in un programma di salvataggio a titolo pieno, potrebbe uscirne e trovare di nuovo finanziamenti sui mercati. La prima reazione dei mercati, venerdì, è stata positiva. I rendimenti dei titoli spagnoli a 10 anni sono scesi dal 6,9% al 6,3%, quelli italiani dal 6,2% al 5,8%, gli irlandesi dal 7,1% al 6,4%. Ma restano cifre troppo alte. E, con l’eccezione dell’Irlanda, i movimenti dei mercati di venerdì non hanno fatto altro che riportare i prezzi ai livelli di maggio. Inoltre, man mano che vengono fuori i dettagli dell’accordo raggiunto, parte dell’euforia dei mercati rischia di evaporare. Dopo tutto, la Germania, che fa il gioco nell’eurozona, non ha firmato un assegno in bianco. Prendiamo il piano di ricapitalizzazione delle banche. Madrid prevede di iniettare nelle sue banche fino a 100 miliardi di euro, Dublino ha già dato 64 milioni di euro ai suoi creditori. La vera questione è se l’eurozona li rimborserà per l’intero ammontare degli investimenti, considerato che le quote delle banche non valgono tanto. Ciò appare improbabile. Ma se non venisse pagata l’intera somma, il sollievo dal fardello del debito per Spagna e Irlanda potrebbe risultare inferiore a quanto sperato. Oppure guardiamo al meccanismo della stabilizzazione dei mercati. Le risorse del Fondo salva Stati sono limitate, e potrebbe non riuscire a contenere a lungo i costi del prestito italiano e spagnolo. Inoltre, per poter accedere a questo meccanismo, un Paese deve firmare un memorandum di intesa con gli impegni per riformare la propria economia. Significa che lo schema comunque comporterà l’assumersi un pregiudizio, il che probabilmente spiega perché Roma e Madrid non sono corse a firmarlo. Ribadire che la Germania di Angela Merkel non ha firmato un assegno in bianco non significa mettere in dubbio il compromesso raggiunto al vertice. E’ essenziale che l’italiano Mario Monti e lo spagnolo Mariano Rajoy prendano ulteriori misure per rendere più competitivi i loro Paesi. Entrambi i primi ministri negli ultimi mesi hanno perso dinamicità e devono imbarcarsi in una seconda ondata di riforme. Se gli si dà soldi in cambio di nulla, non si sentiranno sotto pressione per agire. L’incertezza che permane riguardo al funzionamento dei salvataggi bancari e della stabilizzazione dei mercati significa però che il vertice non ha prodotto un pacchetto di soluzioni chiare. E cercare ulteriori rimedi significa rischiare ulteriori problemi che innervosiscono gli investitori. Nel frattempo, le economie italiana e spagnola continuano a ridursi. Questo significa che non riusciranno a raggiungere gli obiettivi di riduzione del deficit che si sono poste, e il loro debito e la disoccupazione continueranno a salire. Per dirla tutta, il vertice europeo ha prodotto un patto per la crescita da 120 miliardi di euro. Ma non è detto che riuscirà a spostare l’ago della bilancia. Bisogna fare altro per rilanciare la crescita. La soluzione più ovvia sarebbe una politica monetaria ancora più lasca della Bce. La recessione comporta anche conseguenze politiche, soprattutto in Italia, dove al più tardi in primavera del 2013 si andrà alle urne. Sia Beppe Grillo, un comico il cui movimento populista Cinque Stelle dal nulla ha raggiunto il 20% dei sondaggi in pochi mesi, sia l’ex premier Silvio Berlusconi giocano la carta euroscettica. In queste circostanze il governo tecnico di Monti faticherà a raccogliere sostegno politico per nuove riforme. Gli investitori e i partner europei dell’Italia, a loro volta, avranno paura di quello che verrà dopo. I leader dell’eurozona si sono anche accordati in linea di principio su un primo passo verso una visione più a lungo termine del futuro della regione: la creazione di un singolo supervisore bancario che «comprenda la Bce ». Se potrà fare piazza pulita dei problemi in larghe fette del sistema bancario europeo non potrà che essere positivo. Ma alcuni Paesi non vorranno cedere il controllo sulle loro banche a un’autorità centralizzata e quindi resta la possibilità dell’emersione di nuovi problemi. Se la questione del supervisore bancario unico sarà probabilmente argomento di future discussioni, è logico aspettarsi divergenze ancora maggiori sull’ipotesi di un’unione politica e fiscale completa. Alcuni Paesi, come la Germania, vogliono più decisioni in comune, altri, comprensibilmente, temono di perdere la sovranità. Diversi Paesi più deboli vorrebbero mettere insieme i loro debiti, un’idea respinta giustamente dalla Merkel. Il popolo europeo non è pronto per un’unione politica completa. E quindi la soluzione migliore sarebbe mantenere la perdita di sovranità e la condivisione del debito al minimo. Ma il vertice ha evitato di discutere questi grandi temi. Il dinosauro è meno spaventoso di qualche settimana fa. Ma è ancora lì. Aiuto, c’è una nuova Merkel: il premier della Finlandia contro lo scudo salva-spread Helsinki e Amsterdam non ratificheranno l’accordo. Ma se non c’è l’unanimità i fondi salva-Stati non potranno acquistare bond dei Paesi in difficoltà. E lo spread ne risente… Letto 1373 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||