Il fronte Santoro-Travaglio, compatto con Ingroia, si cucina Mancino e Napolitano7 Dicembre 2012 (da “Dagospia”, 7 dicembre 2012) 1 – VIDEO – INGROIA: “NON SONO UN EVERSORE” 2 – VIDEO – AGNESE BORSELLINO: “IL MIO SDEGNO PER MANCINO” 3 – VIDEO – MARIO MORI: “LA TRATTATIVA CI FU” 4 – AGNESE BORSELLINO: “MANCINO SPREGIUDICATO” – “QUALE RUOLO RIVESTIVA L’ALLORA MINISTRO DELL’INTERNO, QUANDO IL PRIMO LUGLIO DEL ’92 INCONTRÃ’ MIO MARITO?” Non ho il titolo né la competenza per commentare conflitti di attribuzioni sorti tra poteri dello Stato, ma sento di avere il diritto, forse anche il dovere di manifestare tutto il mio sdegno per un ex Ministro, Presidente del Senato e vice Presidente del Csm che a più riprese nel corso di indagini giudiziarie, che pure lo riguardavano, non ha avuto scrupoli nel telefonare alla più alta carica dello Stato, cui oggi io ribadisco tutta la mia stima, per mere beghe personali”. Agnese, la moglie del giudice Paolo Borsellino, che ha fatto del silenzio la sua religione, ha deciso di parlare. “Una bomba, per chi saprà capirlo”, mi ha detto. In questi vent’anni senza suo marito ha fatto pochissime dichiarazioni, non ha frequentato le vuote passerelle delle commemorazioni di rito, né tantomeno i salotti buoni e chiacchierati di Palermo. É rimasta a casa, con i suoi figli e con le foto e i ricordi di Paolo. Ma non ha mai smesso di lottare per giungere ad una “verità vera”. E alle telecamere di Servizio Pubblico dice: “Non sorprende che l’attenzione dei media si sia riversata sul Quirinale, ma il protagonista di questa triste storia è solo il signor Mancino, abile a distrarre l’attenzione dalla sua persona e spregiudicato nel coinvolgere la Presidenza della Repubblica in una vicenda giudiziaria, da cui la più alta carica dello Stato doveva essere tenuta estranea. Oggi io, moglie di Paolo Borsellino, mi chiedo: chi era e quale ruolo rivestiva l’allora Ministro dell’Interno Nicola Mancino, quando il pomeriggio del primo luglio del ’92 incontrò mio marito? Perché Paolo rientrato la sera di quello stesso giorno da Roma, mi disse che aveva respirato aria di morte?”. Agnese chiede di rompere. E chi la conosce sa quanto sia granitica la sua riservatezza, quanto negli anni abbia pesato attentamente ogni singola parola che riguardasse la strage di via d’Amelio, per timore che il suo diritto alla verità e il dolore della sua famiglia venissero strumentalizzati. Eppure l’altra sera qualcosa è successo, perché la signora Borsellino ha accettato di parlarmi, in un momento difficilissimo della sua vita, con un messaggio che lei stessa ha definito “una bomba, per chi saprà capirlo”. Mi chiede però di non riprendere nulla, né il volto, né le mani, né il foglio e neppure un centimetro della sua casa. Desidera rispettare fino in fondo la scelta di essere una presenza assenza. Così vorrebbe Paolo. Queste le sue parole, dette con voce ferma e occhi bagnati. STATO-MAFIA: MANCINO, IO NON SPREGIUDICATO VERSO CAPO STATO “Pur nella piú totale comprensione da parte mia dello stato d’animo di una persona duramente colpita dalla morte violenta del marito – afferma Mancino – alla signora Agnese Borsellino, che ha usato espressioni forti ed offensive nei miei confronti, desidero fare giungere questa precisazione. Il pomeriggio del primo luglio 1992, il giorno del mio insediamento al Viminale come ministro dell’Interno, ho incontrato il compianto giudice Borsellino e il giudice Aliquo’ che lo accompagnava. Dalle deposizioni del giudice Aliquo’ ho potuto ricavare la conferma che quel pomeriggio del primo luglio 1992 l’incontro si limito’ ad una semplice stretta di mano. I due magistrati, come da verbale di interrogatorio del dottore Aliquo’, allontanandosi dagli uffici del Viminale, tra di loro si confidarono il comune rammarico per non avere potuto parlare con il nuovo ministro delle linee di contrasto alla mafia. Il giorno del mio insediamento!”, rimarca Mancino. Mancino fa poi riferimento al pentito Gaspare Mutolo, che “proprio la mattina del primo luglio 1992 fu interrogato per la prima volta dai giudici Borsellino ed Aliquó come collaboratore di giustizia’. “L’interrogatorio fu sospeso nel pomeriggio per consentire ai due magistrati di recarsi al Viminale. Al ritorno dei predetti magistrati negli uffici della Dia, ove si era svolto e stava per riprendere l’interrogatorio, Gaspare Mutolo al giudice Borsellino che ritrovo’ inquieto e nervoso rivolse questa considerazione: ‘Invece di essere contento di avere visto il ministro’. ‘Che ministro e ministro’ – rispose il dottor Borsellino – (al Viminale) ho incontrato Contrada e Parisi'”.
5 – “CONSULTA, LEGGE INVENTATA PUR DI DISTRUGGERE I NASTRI” IL PROFESSOR CORDERO: “NAPOLITANO NON PUÃ’ PRETENDERE L’IMMUNITÀ DELLA QUALE GODEVANO I MONARCHI SABAUDI” Una gaffe tira l’altra: così nasce l’infelice storia”, spiega Franco Cordero, professore emerito di Procedura penale alla Sapienza ed editorialista di Repubblica, che ieri ha ospitato un suo commento contro la decisione della Corte Costituzionale sul conflitto d’attribuzioni tra la Procura di Palermo e il Colle. Professore, questa vicenda era nata sotto pessimi auspici, a partire dalle inopportune  telefonate tra il senatore Mancino e il Quirinale. Era poco persuasivo l’ex ministro testimone su oscuri rapporti tra Stato e mafia: qualcuno lo smentisce; gl’indaganti scavano; vuol schivare il rischio d’un confronto e cova l’idea d’una fuga dalla Procura palermitana. Tale l’argomento d’un molto irrituale sos al Quirinale. La risposta corretta sarebbe: materie simili non competono al Presidente; usi le difese fornite dal codice. Ma il Colle, invece, risponde… L’appello trova terreno favorevole presso un consigliere giuridico: da otto dialoghi tra i due vediamo come l’augusta persona s’interessi al caso (affiora anche l’ipotesi d’una deposizione concertata col partner dell’ipotetico confronto); gl’indaganti erano in regola, quindi lasciano il tempo che trovano interventi presso la Procura generale della Cassazione e la Procura nazionale antimafia. Il tutto finisce nei nastri, perché l’ex ministro soggiaceva a controllo telefonico. Non li direi retroscena edificanti: era un passo falso sostenere d’avere esercitato i poteri dell’altissima carica; qualunque cosa raccontino i cultori d’un fiabesco diritto costituzionale, il Presidente non è organo censorio d’atti giudiziari, legittimato a interloquire sottobanco nei singoli procedimenti. Poi solleva un conflitto d’attribuzioni, affermando che i nastri contenenti quattro dialoghi suoi rimasti segreti vadano clandestinamente distrutti, subito. Ricorrendo alla Corte, butta la spada sulla bilancia. Gesto pericoloso, innesca il dilemma segnalato da un presidente onorario: il commento alla decisione negativa sarebbe che l’eversione s’annidi anche lassù; nel caso inverso nasce il sospetto d’un servizio cortigianesco. E nella logica perversa della gaffe complica l’affare anziché scioglierlo. L’impresa trascendeva l’intelletto umano: riconoscere al Presidente carismi ancien régime, confermati a Carlo Alberto e successori dallo Statuto (persona “sacra e inviolabile”, art. 4), senza uscire dall’attuale sistema normativo. Ha scritto su Repubblica che il diritto è in qualche misura anche geometria e che se ne manomettiamo le regole, “vengono fuori faticosi sgorbi”. Sì, m’ero permessa una metafora geometrica: sarebbe come disegnare nello spazio euclideo un triangolo i cui angoli non misurino 180 °; e se non vi riesce nemmeno Iddio (vedi Spinoza contro Cartesio), nessuno poteva aspettarsi miracoli dalla Consulta. Siccome le decisioni non sono più oracoli, ma richiedono i motivi in una dialettica prestabilita, erano da compatire i quindici o quanti fossero, costretti all’impossibile: da 65 anni non ha più corso la mistica dell’inviolabilità ; il Presidente è un signore che più o meno bene adempie funzioni laiche; e se finisce casualmente intercettato, conversando col sottoposto a tale misura, non può pretendere l’immunità della quale godevano i monarchi sabaudi. La Corte tira in ballo l’art. 271 c.p.p., i cui contenuti non hanno niente da spartire col nostro caso: e non è questione ardua; ogni studente attento la risolve ictu oculi (a prima vista, ndr). Che poi, sepolta nella Carta, una norma implicita restauri l’immunità dei sovrani sabaudi, non s’è arrischiata a dirlo; diamogliene atto: l’almanaccabile ha dei limiti. Negli applausi trasversali volano bolle vaniloque, lontane dalla sintassi del diritto. La Consulta rimprovera alla Procura di non aver violato il principio del contraddittorio e impone ora un’eliminazione sottratta alla conoscenza delle altre parti. Tutto regolare? Ordinando al giudice una distruzione immediata dei nastri, da nascondere alle parti e possibili interessati, la Corte estrae ex nihilo una norma che, se esistesse, sarebbe invalida: può darsi che i materiali in questione forniscano argomenti utili; e il contraddittorio è requisito indefettibile d’ogni processo, ricordiamoglielo (artt. 24 e 111 Cost.). Si parla della questione come se la partita fosse chiusa: è così? Partita chiusa, nel senso che quel giudice sia obbligato alla distruzione clandestina dei nastri galeotti? No, la Corte gl’impone d’applicare una norma che crede d’avere scovato nell’art. 271: fantasma d’una norma ma su questo punto la decisione lo vincola; senonché letto così, risulta invalido; e la mossa dovuta è un’ordinanza che investa della questione la Corte, affinché dica se e come l’atto comandato sia compatibile con i modelli imposti dalla Carta. Qualcuno dirà che sia già risolta, qualora ne parlino i motivi della sentenza deliberata l’altro ieri. Ancora no: sono due processi dall’oggetto distinto; uno stabilisce il da farsi rispetto al materiale controverso; l’altro vaglia la conformità dell’art. 271 ai canoni del contraddittorio. Supponiamo che il giudice sollevi la questione di costituzionalità , i nastri nel frattempo che fine fanno? Restano nella cassaforte, finché la Consulta abbia deciso.
Da quando la Consulta ha stabilito che “non spetta alla Procura di Palermo di valutare” le intercettazioni Mancino-Napolitano né “di omettere di chiederne l’immediata distruzione”, nelle Procure e nelle polizie giudiziarie di tutt’Italia regna il terrore: oddio, e se intercettiamo un rapinatore, pedofilo, narcotrafficante, assassino che chiama il Presidente, che si fa? Breve prontuario delle cose da non omettere di fare, o da omettere di non fare. 1.Tizio chiama il Presidente per dirgli che i pm lo perseguitano e chiedergli di fermarli. Siccome c’è il rischio che il Presidente gli dia retta e si attivi per far insabbiare o avocare l’inchiesta, e che di ciò resti traccia in successive telefonate intercettate, non spetta all’intercettatore omettere di interrompere subito la registrazione e di ingoiare i nastri già registrati. 2.Tizio chiama il Presidente per confidargli di aver rapinato una banca. Siccome è una notizia e una prova di reato, c’è il rischio che un giudice la ritenga interessante per processare Tizio e condannarlo per rapina e il Presidente per omessa denuncia e favoreggiamento, rammentare l’art. 271 del Codice di procedura che impone l’immediata distruzione delle intercettazioni che svelano colloqui fra medico e paziente, confessore e penitente, avvocato e cliente in barba al segreto professionale. All’ovvia obiezione che l’art. 271 non fa alcun cenno al Presidente, non omettere di sostenere che è chiaro dal tenore della conversazione che il Presidente è un medico che sta curando Tizio, anzi un prete che sta confessando Tizio, anzi un avvocato che sta difendendo Tizio. Si potrebbe anche non omettere di sostenere che il Presidente, o anche Tizio, è il nipote di Mubarak, ma la giustificazione difetterebbe di originalità . 3.Tizio chiama il Presidente e gli rivela: “Lo sa che mia moglie l’ho ammazzata io, ma stanno processando un innocente al posto mio?”. Siccome è una prova a discarico di un imputato che sta per essere condannato ingiustamente, c’è il rischio che il giudice che processa l’innocente sia tentato di usare la telefonata per scagionare l’imputato e imputare il marito al suo posto. Dunque non spetta all’intercettatore omettere di gettare nella stufa la bobina, altrimenti il Presidente s’incazza e la Consulta pure. 4.Tizio chiama il Presidente per due chiacchiere e il Presidente gli confessa che sta preparando un colpo di Stato, invitandolo a dargli una mano. Siccome anche questa è una notizia di reato, l’attentato alla Costituzione, cioè uno dei due reati per cui il Presidente è imputabile nell’esercizio delle sue funzioni (l’altro è l’alto tradimento), c’è il rischio che il giudice sia tentato di usare il nastro per chiedere al Parlamento di metterlo in stato d’accusa. Dunque non spetta all’intercettatore valutare l’intercettazione e di omettere di chiederne l’immediata distruzione. Perchè è vero che la Costituzione prevede la messa in stato d’accusa del Presidente per alto tradimento e attentato alla Costituzione, ma basta distruggere le prove e nessun Presidente verrà mai messo in stato d’accusa per alto tradimento e attentato alla Costituzione. 5.Tizio chiama il Presidente, i due si dicono una a caso delle cose sopra citate, l’intercettatore non omette di distruggere il relativo nastro, ma resta un problema irrisolto: oltre a Tizio e al Presidente, che non riveleranno mai quello che si son detti, c’è un terzo soggetto a conoscenza della conversazione: l’intercettatore. Il quale, sebbene assicuri che non spetta a lui omettere di non dire nulla a nessuno, anzi che ha perso la memoria, anzi non ricorda nemmeno le sue generalità , potrebbe sempre omettere di non parlarne con qualcuno. A questo punto è pronto un killer di Stato, al quale non spetta di omettere di sciogliere l’intercettatore nell’acido. Monti pronto all’ultimo blitz: chiederà aiuto alla troika e farà commissariare l’Italia Londra, epicentro economico del Vecchio Continente. La City che tira i fili dell’alta finanza. La City che, da tempo, era conscia della prossima fine del governo Monti. Londra vittima del panico che può scaturire (sui mercati, sia chiaro) per l’addio del Professore? Niente affatto. Il retroscena lo rivela Dagospia. Bisogna fare un salto indietro di poco meno di un mese. E’ il 14 novembre quando il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, vola nella capitale britannica per una cena di beneficenza. Siamo ancora lontani dal repentino sgretolarsi della maggioranza dei tecnici e dall’annuncio del ritorno in campo di Silvio Berlusconi, ma ai più il quadro era già chiaro. La confessione – Alla cena il signor Grilli si sbottona. Al tavolo c’è il gotha dell’alta finanza londinese, che chiedeva al titolare del dicastero di via XX settembre notizie “fresche” sullo stato di salute dell’Italia prossima all’addio al governo tecnico. Grilli, secondo il resoconto di Dagospia, non si sottrae alle domande, nemmeno a quelle scomode. Qualcuno gli chiede se l’esecutivo ha intenzione di chiedere lo stato di crisi alla “troika”, alias a Unione Europea, Fondo Monetario e Bce, il “trio” che “gestisce” i Paesi in crisi, Grecia su tutti. La risposta di Grilli? Breve ma esaustiva: “Probabilmente chiederemo lo stato di crisi prima di aprile”. Monti, da par suo, lo aveva sempre lasciato intuire: “Non chiederemo aiuto fino a quando non ne avremo bisogno”, questa la sostanza del suo pensiero, ripetuto nelle sedi più disparate. Richiesta d’aiuto? – Tutto torna, insomma. L’ultimo atto del governo Monti è in caldo da tempo, e “causa-sfiducia”, con tutta probabilità verrà soltanto anticipato di qualche settimana. Monti è pronto a chiedere l’aiuto della troika e del fondo salva-Stati. Ufficialmente si tratta di un “piano b” da utilizzare nel caso in cui i mercati internazionali dovessero rimettere nel mirino il Belpaese. Ma è semplice leggere dietro le dichiarazioni di Grilli un’altra verità : l’ultimo step del governo tecnico che ci ha imposto l’Europa potrebbe essere quello di commissariare l’Italia. In favore di chi? Dell’Europa, ovviamente. Come se le manovre e l’austerity imposte dal Vecchio Continente ancora non bastassero. Le conseguenze – Dagospia spiega di aver raccolto l’indiscrezione sulla frase di Grilli da un partecipante alla cena londinese, e si chiede perché nessuno abbia dato notizia di un’affermazione tanto pesante. La richiesta dello stato di crisi e l’intervento della troika a ridosso delle elezioni, infatti, permetterebbe al governo (tecnico) di negoziare e definire le condizioni economiche che la Penisola dovrà rispettare negli anni a venire. Condizioni da rispettare a prescindere dal colore di qualsivoglia governo che sarà . Monti, insomma, sta per abdicare, ma con un ultimo blitz potrebbe consegnare il Paese alle autorità continentali e vincolare i prossimi esecutivi a seguire la “linea” del rigore e delle tasse varata dai tecnici. Banche nel mirino – Ora è importante sottolinare cosa avverrà il prossimo gennaio: da tempo è già stato calendarizzato lo “sbarco” a Roma degli emissari della troika. Obiettivo del loro viaggio, scansire il sistema finanziario del Paese. Nel dettaglio, le banche. Gli istituti stessi non vedono di buon occhio l’arrivo della troika. Ecco un esempio. Le parole di Giuseppe Mussari, presidente dell’Abi: “Se questo è un percorso per inventarsi un nuovo cataclisma, abbiamo tempo per prepararci”. Mussari teme che l’arrivo dei tecnici del Fmi serva soltanto ad acquisire dati sulle banche e sui loro crediti, per poi bollare il sistema come instabile o insostenibile e, di fatto, limitare ulteriormente la nostra sovranità . E il cerchio si chiude… – Torniamo al ministro Grilli, che non è parso particolarmente preoccupato per una eventuale riacuirsi della crisi dei mercati e per una nuova impennata dello spread. La sua “tranquillità ”, come nota l’attento quotidiano Milano Finanza, la si può evincere anche dalla fitta agenda di questi giorni, un susseguirsi di incontri con i big della finanza internazionale: vuole forse spiegare loro che non c’è nulla di cui preoccuparsi, perché tanto, a breve, l’Italia non avrà più autonomia decisionale? Possibile. Come è possibile che Monti, come ultimo atto del suo esecutivo, voglia spianare la strada al commissariamento della troika, e quindi di quell’Europa che lo ha voluto portare a Palazzo Chigi. Il cerchio si chiude… Letto 1394 volte.  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