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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: INCIPIT: Giancarlo Onorato: “Il più dolce delitto”, Sironi, 2007

3 Aprile 2008

molto ho imparato dai miei maestri,
altro dai miei colleghi,
moltissimo dai miei allievi.
(Saggezza talmudica del rabbino Chanuna)

                                                                 nevicò a mezz’estate,
                                                                                                           albicocche a dicembre.
                                                                                                             Ezra Pound, Cantos

Sursee, Svizzera, 8 giugno 1968

tutto è un mistero

1.

    Mattino, in tanto silenzio attraversi corsie quiete color avorio. Come in una missione cammini sui riquadri di luce proiettati per terra dalle vetrate nell’ombra di corridoio: finestra, ombra, finestra. Poi ancora finestre e quadri di luce. Un tempo il sole pareva più abbacinante, qualunque foto degli anni passati ce lo dimostra. Che si stia affievolendo e non si vede, se non a confronto con le immagini di ieri? La tua mano come un fiore elegante nell’appoggiarsi sulla maniglia di una porta a vetri, è già quasi estranea a te stesso, un lieve tremore l’attraversa, ti scorre addosso, motore stesso dei tuoi gesti. Poco avanti a te, il passo smorto, un’assistente troppo bassa, con un tacco più consumato dell’altro guida il corteo, alle tue spalle due infermieri come soldati stropicciati di sonno. Fragore di sedie trascinate per aule oscenamente vuote, poi di nuovo silenzio. Un altro rimbombo, ingoiato dall’istituto. Col dolore rappreso allo stomaco, le tempie che pulsano e le mani sudate avanzi, portato dalla tempesta invisibile che ti tambura il petto. Un’altra porta a vetri, quindi un atrio con le pareti scrostate alla base e una doppia porta. Poi che altro, poi ci saremo forse. E ti chiedi cosa potrà mai essere, in fondo. La sua infanzia rubata, e fingi di immaginarla ma non ci riesci, la sua estremità di mondo, questo è certo. Ma come sarà.
    Finché la porta non viene aperta.
    Salone di luce splendente di montagna, cime di roccia argentata, che viste dalle finestre, come fissi asteroidi abnormi, virano attorno alla casa passando da una vetrata all’altra, ubbidienti come mostri millenari asserviti alla bellezza del cielo. E lì, in mezzo a quel terso imbalsamati, roccificati. Su quelle nevi lontane a portata di sguardo centinaia di antichi padri dovevano essere morti come stanchi alberi. Pastori, contadini, poeti sconosciuti. Caduti in avanti. Dimenticati. Tutti assolti dalla neve, accolti al massimo giro di sole.
    Lasciatemi solo, pensi e immagini di dire: io e la Svizzera, lasciateci vi prego, ma sai che non lo faranno, mentre invece avanzate avvicinandovi. Finché ecco: sul fondo del salone bianco di sole, con la parete di fronte che abbacina di questa gloria di luce, del suo bagno soave, la vedi. Cogli la figura che aspetta come chi si attenda soltanto un nuovo castigo. È allora che dici: – Non voglio nessuno intorno.
– Non si può, dottore, dice sottovoce l’assistente bassa, creda, meglio esser prudenti.
– Voglio essere solo, – ripeti calmo – quindi andatevene.  
    Non sapere più che fanno gli altri, nel silenzio della camerata avvicinarsi, coprire senza coscienza la distanza che ti separa da lei, camminare ancora un po’ di più. Un po’ di più. Solo per capire. E nell’avvicinarti non sentire più voci dietro di te, ma solo porte che si chiudono, gli androni che risuonano di passi veloci, altre porte che si aprono e chiudono con schianto, inghiottite dal vuoto dell’istituto. Telefoni, in uffici dimenticati, che suonano e suonano e nessuno risponde mai.
    E tu lì, assorbito dal sole.
    È primavera nell’estate perché le sto davanti. Voi non capirete, nessuno può, e io non saprò spiegarlo. La mattina del mio trentasettesimo compleanno, ho inaugurato un diario solo per questo e voglio scrivere per dire quello che non si può dire. Perché   anche m’avessero avvisato, m’avessero detto, che so: l’incontrerai e proverai cosa sia finire, tutto per me sarebbe stato uguale, esattamente così. Accecante. Scomposto. È un coro scomposto d’uccelli che santifica il momento da oltre le finestre serrate a chiamarmi. Odore di detersivo. E fa già caldo.
    Così infine il destino cattivo, quello che tanto si teme, era arrivato, un giorno per tutti viene e si presenta, con delicatezza persino, per scoprire che è così gentile nella sua crudeltà. Neppure guardarla mi era facile, credevo di guardare nel nulla, in un nulla dorato di sole nel quale la sua figura galleggiava.
  E nel raggio di paura e d’incanto che ci univa, Geli aprì la bocca e tossì.
  La creatura dall’occhio viola mi ha guardato, bonjour, ho sussurrato e poi nient’altro, per un incalcolabile lasso di tempo ci guardammo e lei resse il mio sguardo. – Mi ammali, – le ho soffiato senza voce, ma si capì lo stesso, lo ricorderò sempre, perché questo semplice capriccio della mia volontà, questo desiderare di scoprirmi subito ha cambiato i miei giorni. E non volevo credere d’essere io a farlo, non credevo fosse tanto forte da indurmi a cederle prima lo sguardo poi tutto il fiume dei miei pensieri, tutto in un minuto, tutto quanto. Nel momento stesso in cui mi uscivano le parole capivo che parlare così era un errore: eravamo già vicini e nella mia confusione lei diveniva ora un colore vago più che una persona, una macchia vivente, risolutamente immobile.
  Aveva il viso diffuso d’un alone delicato di malattia, una dolcissima smorfia di dolore, ma il corpo era esile, trasparente. Gracile e trasparente. L’aria stupita e gli occhi troppo grandi, così diversi uno dall’altro. I seni sarebbero cresciuti, almeno ancora un po’, ma la loro onesta temporanea assenza riempiva di nobiltà la sua bellezza insana. Era alta, la fronte spaziosa, i capelli sottili come lame, lucenti. Il naso dalle narici nervose, denti aguzzi. La natura sembrava averla dipinta: la guancia, parte del naso, una palpebra e anche un braccio, quello sinistro, erano quasi per intero di un rosa fosco, innaturale, a tratti come evanescente. Una voglia, mi era stato detto, che la sfigura così dalla nascita, per buona parte del corpo è coperta da questa macchia. Ma il colore così differente delle braccia, e questa soave offesa sul viso non furono la sola cosa a suscitarmi un malore insinuante ma dolcissimo, come lo spavento poi graziante di un volo improvviso d’uccelli: più da vicino vidi che pure l’occhio sinistro era in qualche modo diverso dall’altro, tanto da sembrare di altro colore. Una tinta indecifrabile, violacea.
    Reggeva la mia presenza, non ero il medico e lei nel chiarore estivo non più la malattia incomprensibile. Generazioni trascorse le avevano tramandato bellezza e rigore, facendone non un germoglio di donna, ma un idolo limpido, senza più umanità. Senza pensare mi avvicinai ancora, tremavo ma mossi un passo ancora, finché vidi alle sue spalle la luce rossa del segnale di allarme: avevo commesso l’errore di arrivarle troppo vicino. Dopo avere chiesto e insistito che la malata non fosse contenuta, rassicurando tutti circa la mia cautela, ero andato subito oltre avvicinandomi. Per di più temetti che avessero potuto in qualche modo sentirmi. Certo ci avevano tenuti a vista ma erano lontani, troppo, e io di spalle, eppure l’angoscia che avessero sentito mi colse lo stesso. Ragionai, era impossibile, nessuno poteva sentire fino lì in fondo, in quel bianco di sole dell’aula. Ci stavano osservando senza capire, era così di sicuro. Di sotto intanto si suonava il pianoforte sbagliando e ritentando di continuo le note, ma le poche che andavano a segno mi innamoravano nuovamente della vita pensata di cielo, aria viva e di tutte quelle intuizioni impossibili che sgorgano vicine solo quando all’improvviso ci crediamo felici.
– Con me farai quello che vuoi – dissi, non controllavo i pensieri, era così, non organizzavo le frasi, e non c’era alcun bisogno di dirle certe cose. Valeva tutto allora e io non ero più io, mentre le sue mani viste da vicino, avevano un’aria tanto vulnerabile da far dimenticare quanto fossero pericolose per gli occhi. Attenzione agli occhi, mi era stato detto, e sottolineato in rosso nei due profili dedicati a lei, ricorreva lo stesso avvertimento: guardarsi dalle aggressioni agli occhi. Quando cominciò a muoverne una sulla coscia, e girava, girava con un dito solo intorno ad un lembo di stoffa della veste celeste infilata male, suonò l’allarme. Allora seppi che ci vedevano bene e che dovevo sbrigarmi a darle un senso dentro di me perché non c’era tempo, non ce n’era più e forse non l’avrei più rivista da solo, anzi era certo, non me l’avrebbero lasciata facilmente così tutta per me, quindi presto più presto dovevo decidere, stabilire cosa fosse e farlo subito, adesso, che il tempo passava e sarebbero arrivati, già venivano. Ma le guardai il mento la bocca e mi venne una voglia irresponsabile di toccarla. Ci separava solo un passo, potevo sentire il soffio leggero delle sue narici, potevo sollevare un braccio e sfiorarle il mento, potevo farlo, o anche ricevere uno dei suoi graffi e non avrei saputo pararlo. Cercai i suoi occhi ancora, me li diede spontaneamente e mi sentii ammalato. E cosa vide, il mio orizzonte liberato. Qualcuno piegato a una tristezza senza eguali, che di unico avesse una grazia di bestia delicata, è vero, o di insetto. Sì, forse un insetto. Le spalle strette spingevano in avanti il piccolo seno già vivo, duro come un risentimento, duro come un frutto raccolto male, il resto appariva meravigliosamente sproporzionato. Bocca e occhi tiravano diretti alla fierezza. Rosa la prima, come non ricordavo più potessero mai essere due labbra, e poi lo sguardo diviso dai colori di ciascun occhio, grigio pallido l’uno, violaceo l’altro. Lei sembrava già oltre ogni cosa. Pensai che la sua bellezza fosse un dono dei morti. La neve che le faceva da sfondo il letto immacolato dal quale si fosse alzata. Quando prese a spogliarsi per me come un’invenzione disperata dei secondi che ci rimanevano e io le vidi le spalle, una lattea, l’altra chiazzata di voglia, apparve una bambola candida che qualcuno avesse rotto per poi rimontare male. Un animale raro visto attraverso una lastra deformante.
  L’allarme suonava, uno stridore ridicolo di sirena che riempiva il primo piano dell’istituto. Questo mi richiamava, mi raschiava le idee, ma andarmene mi veniva male. Non sapevo neppure scegliere come allontanarmi, del resto. Come si fugge dall’incanto? Nell’incertezza che sottrarsi possa significare essere aggrediti. Nell’incertezza che staccarsi possa già essere una specie di addio. Forse indietreggiando, come consigliato dai rapporti sui casi speciali come comportamento da tenersi in frangenti estremi, come con gli animali feroci, mai dare le spalle stava scritto, e io non lo avevo sperimentato mai, ma lo stesso mi parve ridicolo. Proprio voltandomi allora, solo perché devo, solo per dimostrare a chi arriva che non c’è pericolo per me. Con tranquillità.
  Le diedi le spalle ma attesi e guardai fuori il cielo prima di cominciare a camminare, perché lo sentivo. Perché lo speravo. Ed ecco, allora sì, solo allora accadde quel qualcosa che non sai dire perché ma senti che è ciò che volevi. Niente di speciale davvero, però accadde: mi toccò sulla schiena, solo questo, fulminandomi con un tocco lieve, di fata, un niente fresco, in cui bruciando dalla testa alle ginocchia accolsi tutta la delicatezza che può sopravvivere nell’oscenità. Fu il nostro primo contatto, clandestino, da prigioniera a prigioniero, e smisi in quell’istante preciso di sentirmi parte della schiera dei suoi carcerieri, non ero più il nuovo medico, io ero con lei, un carcerato malato, strappato a tutto persino a se stesso.
    Fu spalancata la porta e solo con l’arrivo degli infermieri corsero all’interno anche gli assistenti che ci avevano mantenuti a vista, mentre facendomi violenza tornai a voltarmi per vederla indietreggiare, sagoma rosa nell’alone abbacinante di fuori. Gli uomini che la presero facendo un gran caos nello spazio vuoto dell’aula la raggiunsero in modo tanto brutale da farla cadere, poi le furono sopra e mentre la immobilizzavano inutilmente tornai indietro a guardare ancora la malata e avevo bisogno di sorriderle in quel momento, un bisogno doloroso di comunicarglielo che quel suo toccarmi aveva nutrito in me una luce sconosciuta. Avrei gridato, sicuro, avrei urlato di ferocia e di tristezza. L’avrei fatto per lei. Ma dissi soltanto, quasi tra me, anzi per nessuno dissi non fatele male, voleva solo toccarmi. Un’onda di amarezza mentre in quattro la portavano via tirata per i capelli, torcendole il collo all’indietro tanto da farle spalancare la bocca dal dolore, sollevata a forza da terra, come una fiera troppo feroce per essere risparmiata, e io capivo che il gusto provato accanto all’animale non poteva che essere un male.

  Era stato in primavera, Alina mi aveva detto d’aver incontrato questo ragazzo dalla bellezza inaudita, e che anzi no, forse si trattava di una ragazza. Che la casa di cura che l’ospitava si trovava a ovest di San Gallo, sulla sponda di un lago minimo ma profondo, di quelli sbucati tra le montagne, quasi invisibile sulla cartina. Disse che si portava addosso un malanno incomprensibile e per questo tutti lo temevano, e i medici stessi, più volte aggrediti e alcuni persino feriti seriamente, non ne volevano più sapere, limitandosi alla sua custodia. Ma si diceva pure, e questa era una voce sotterranea ma insistente, che qualcuno nella casa abusasse di lui o lei. Che diverse terapie fossero state tentate, ma da tempo nessuno più si occupava seriamente del caso dell’alienato meraviglioso, se non fosse per quelle certe voci di vizio che illuminavano a squarci i corridoi della casa, e di cui nessuno osava parlare apertamente.
    A giugno era venuta a trovarmi trionfante ad Airolo. Il sole toccava ogni cosa e i suoi capelli rossi quasi mi intenerirono: Alina era una donna dall’età indecifrabile ed era assolutamente certa che io ed io solo potessi scioglierle certi misteri dell’animo. Andava fiera di tale convinzione. Quando seppe del mio incarico, e lo seppe tardi perché lo tenevo nascosto a chiunque, mentre a lei dovetti dirlo quasi come pegno della fiducia che riponeva in me, le si aprì la mente, perché indovinò che sarei stato inviato proprio là. Allora volle venire a pranzo, sostenendo che dovevamo immancabilmente farlo, pranzare intendeva, poiché diceva che solo mangiando si riesce e ragionare in profondo, come già sapevano molto bene gli antichi; e dopo mangiato, quando sulla veranda della casa di mia madre l’estate ebbe una virata improvvisa e guardando il cielo si vide l’argento di una nuvola immane soffocare il fuoco del sole, e subito dopo, come per miracolo, piovve, Alina estrasse un portafogli di pelle stampato con un motivo che dovevo avere già visto, mi cercò gli occhi e disse soltanto: – Eccolo.
    Mi passò due fotografie. In una, sullo sfondo di una camerata ampia e ordinata, si stagliava piuttosto male la figura di una sorta di fauno che rifuggiva l’obiettivo. Era sottile, ripreso di tre quarti, mezzo svestito, con una mano flessuosa allungata di fianco. Alina disse: vedi? e indicò col dito la mano del malato colpendo lievemente la foto, se ti prende con le unghie sono guai, pare abbia ferito più volte e seriamente il personale. Per questo lo chiamano l’animale. Passai oltre. Fu solo con la seconda foto che caddi nel fondo di un presentimento cattivo, perché lo vidi meglio. Lo scatto sembrava girargli attorno, cogliendo male e solo in parte il volto e una fetta verticale di corpo. Uno di quegli scatti in cui più che vedere si intuisce, ma ciò che si intuisce può frustarti profondamente, da che i tuoi spettri interiori riemergono come in un rigurgito etereo, per venire a soffocarti e tu obbediente prometti a te stesso, senza neppure saperlo, prometti un sì lontano e incomprensibile quanto il principio della tua vita. – Qui si vede bene, aveva osservato con calma maledetta, poiché capiva che il suo male stesse facendomi finalmente effetto, allora riscaldò la voce e disse ancora: – guarda il suo viso, e guarda bene che braccia e le mani, le vedi? e il colore del viso e degli occhi, e una parte intera di corpo, qui si vede, è differente, vedi, diversa dall’altra. – Non sembrava poi vero, ma io vidi lo stesso ciò che lei non faceva sforzi a iniettarmi come un lutto speciale, e dolcissimo. – Questa cosa è semplicemente soave, – aveva aggiunto asciutta. La voce che usò fu nostra e intima come raramente accadde tra noi, come se quella scoperta ci isolasse di colpo dal mondo, dalle Alpi e dal mondo e tutto intorno fosse solo un unico esteso e necessario silenzio.
– Qual è il suo nome, chiesi.
– Non lo so, ma ora, tu sei il mio maestro, dimmi che dopo essere andato lì mi rivelerai un giorno questo mistero, perché pare che non lo possano curare, ma io non credo davvero ci sia una cosa così senza che possa essere aiutata. Dimmi che lo farai, disse con calore Alina quel pomeriggio, e intanto pioveva sulle pendici verdissime del Gottardo, sulle staccionate del nostro povero giardino non più curato dopo l’addio di mio padre, pioveva a fitti simmetrici punti d’acqua distribuita sull’ognicosa pensabile a memoria di vallata e io, già così preso in un dolore azzurro, in profonda risposta, non parlai.

SCHEDA DEL LIBRO
il più dolce delitto
gianCarlo Onorato
romanzo
Codice ISBN: 978-88-518-0082-6
Pagine: 288
Prezzo di copertina: € 15,00
Prezzo scontato 10%: € 13,50CONTENUTO. In una clinica psichiatrica, ai bordi di un lago scuro e fermo nel cuore della Svizzera, viene inviato Marlo, un giovane medico: il suo compito è indagare su presunti abusi e violenze ai danni delle pazienti.
Dietro la linda e ordinata organizzazione dell’istituto, Marlo scopre la peggiore delle realtà possibili: il sopruso fisico, il plagio mentale, l’abbrutimento del debole e del malato. Ma scopre anche, in tutta la sua potenza, la propria istintiva sensualità e vi si abbandona, fino a toccare il limite dell’ossessione d’amore per una giovanissima paziente: un essere fragile e violento, spaurito e inavvicinabile.
Nell’opporsi alla fredda arroganza della scienza medica, Marlo diventerà esempio vivente delle proprie convinzioni: i confini tra normalità e “follia” sono permeabili.
Il più dolce delitto è un romanzo sulla forza della sensualità totale: nostalgia che consuma e ammala ma al tempo stesso unica via possibile per la cura della malinconia dell’anima.

gianCarlo Onorato, interprete del rock d’autore, ha pubblicato tre album come solista: il velluto interiore (1996 Bmg/Lilium), io sono l’angelo (1998 Lilium/Sony), falene (2004 Lilium/Venus). Musicista, pittore visionario e scrittore, affida il suo esordio letterario al romanzo Filosofia dell’Aria (Stampa Alternativa, 1988), seguito dal racconto L’Officina dei Gemiti (Stampa Alternativa, 1993) e dalla raccolta l’ubbidiente giovinezza – racconti di luce (Ultrasuoni, 1999).

http://www.giancarlo.onorato@liliumproduzioni.com/
www.myspace/giancarloonorato
http://www.liliumproduzioni.com/
http://www.sironieditore.it/


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart