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Stato di rovescio

6 Dicembre 2012

di Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”, 6 dicembre 2012)

Gli storici e i giuristi del futuro che do ­vranno raccontare la decisione della Consulta sul caso Napolitano-Procura di Pa ­lermo potranno farsi un’idea, dai commenti dei politici e degli opinionisti al seguito, di come fosse ridotta l’Italia del 2012. Un paese dove un potere politico screditato e marcio dalle fondamenta aveva sequestrato e asser ­vito tutti i residui spazi di libertà e tutti gli organi di controllo “terzo”, dalla televisione alla stampa agli intellettuali su su fino alla Corte costituzionale. Naturalmente ciascuno, sulla sentenza che accoglie il conflitto di at ­tribuzioni del Quirinale, è libero di pensarla come vuole. Ma il trasporto mistico e l’afflato estatico con cui tutta la grande stampa corre in soccorso del vincitore senza neppure ac ­corgersi dell’effetto grottesco di certe espres ­sioni, oltreché di certe palesi menzogne e vio ­lenze alla logica, costituiscono un imperdibile reperto d’epoca.

La ragione del più forte. La Stampa, nel breve volgere di due pagine, riesce a infilare titoli come “La Consulta: ha ragione Napolitano”, “Una sentenza che cancella i veleni”, “Suc ­cesso del Colle su tutta la linea”, “La Consulta dà ragione al Colle”. Strepitoso il titolo del Corriere: “Il distacco del Presidente: ‘Ora aspetto le motivazioni’. La speranza di ste ­rilizzare lo scontro con i pm siciliani”. Di ­stacco? Da giugno, quando si seppe delle sue telefonate con Mancino, Napolitano è inter ­venuto pubblicamente decine di volte sul te ­ma. Sterilizzare lo scontro? Ma il conflitto l’ha sollevato Napolitano, mica i pm siciliani. E ora che la Consulta, nel comunicato ufficiale, copia addirittura parola per parola la memo ­ria difensiva del Quirinale, il Presidente fa il distaccato? Il Messaggero parla di “equilibrio ristabilito”, di “difesa della Costituzione” (senza spiegare dove mai la Costituzione dica che è vietato intercettare un privato cittadino coinvolto in un’indagine quando parla col ca ­po dello Stato”) e intervista Violante che ac ­cusa i pm di aver “perso il senso del limite” (e dove sta scritto quel limite?). Anche II Foglio, naturalmente, assieme a tutta la stampa ber- lusconiana, esulta per la sconfitta della Pro ­cura di Palermo, bestia nera di B. e della sua banda, in una soave corrispondenza di amo ­rosi sensi che affratella gli house organ di B. e quelli “de sinistra”, dall’Unità a Repubblica. Ferrara ha almeno il merito di essere con ­seguente: se ha ragione il Colle, vuol dire che la Procura di Palermo s’è macchiata di una specie di golpe, un reato da corte marziale o almeno una gravissima infrazione disciplina- re, infatti “il Colle aspetta di leggere le mo ­tivazioni per decidere gli ulteriori passi da compiere anche davanti al Csm”: altro che “sterilizzare lo scontro”. Mai, nella storia, la magistratura antimafia di Palermo era stata così isolata (da Quirinale, governo, politici di destra, centro e sinistra, Consulta, Csm, Anm, tv, stampa e intellighenzia). Nemmeno ai tempi di Falcone e Borsellino.

Non spettava di omettere. Nessuno nota neppure l’imbarazzato e imbarazzante elo ­quio del comunicato della Corte là dove scrive, copiando paro paro dalla memoria dell’Avvocatura dello Stato, che “non spet ­tava alla Procura di Palermo di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzio ­ne” delle quattro telefonate incriminate. Perché i supremi giudici non hanno scritto che “spettava alla Procura di Palermo chie ­dere al giudice l’immediata distruzione”? Forse perché sanno benissimo anche loro che non esiste alcuna norma, ordinaria o costituzionale, che lo preveda. Chi agisce male, pensa male e scrive anche peggio. Che cosa penserebbe una ragazza se il suo fi ­danzato, anziché “ti amo”, le dicesse “non spetta a me omettere di amarti”?

De Siervo vostro. L’emerito Ugo De Siervo, sulla Stampa, insinua che in ­tercettazioni (4 su 9.295 telefonate di Mancino) non fossero “casuali”. Cioè che si sia intercettato Mancino per intercettare Napolitano. Quindi, seguendo il suo sragiona ­mento, era prevedibile che un ex politico coin ­volto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia parlasse con Napolitano, dunque che anche Na ­politano avesse qualcosa da nascondere su quella vicenda. Ma l’insinuazione è smentita dalle carte, che naturalmente De Siervo non ha letto: i pm non rinnovarono il decreto di intercettazione su un’utenza telefonica di Mancino, non perchè fos ­se “muta”, ma perché era stata usata una sola vol ­ta, e proprio per parlare con Napolitano: infatti, sulla stessa utenza, risultò poi dai tabulati un’altra conversazione col Quirinale, che non fu più re ­gistrata e che i pm (ma non Mancino) ignorano.

Codex Scalfarianum. Eugenio Scalfari, su Repub ­blica, attacca a testa bassa chi non è d’accordo con lui. Ma, ancora una volta, dimostra di non co ­noscere le norme più elementari del diritto. Art. Ili della Costituzione: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti…”. Dunque come può Scalfari affermare che, quando c’è di mezzo The Voice, “la Procura non ha titolo per dare al ­cun giudizio sul testo intercettato: deve… imme ­diatamente consegnare le intercettazioni al Gip affin ­ché siano distrutte senza al ­cuna comunicazione alle parti”? L’art. 271 del Codice di procedura, citato a vanve ­ra dalla Consulta visto che riguarda i medici che parla ­no coi pazienti, gli avvocati che parlano coi clienti, ¡ con ­fessori che parlano coi penitenti e gli altri professionisti tutelati dal “segreto professionale”, non i Napolitano che parlano con i Mancino, prevede che il giudice distrugga le conversazioni dopo averle valutate (infatti non può distruggerle se costituiscono “corpo del reato”). Per Scalfari i pm avrebbero dovuto equiparare Napolitano ad avvocati, me ­dici e confessori “per logica deduzione”: peccato che Napolitano non sia depositario di alcun se ­greto professionale. O forse è l’avvocato difensore di Mancino? E peccato che in passato altre Pro ­cure abbiano indirettamente intercettato altri presidenti – Milano con Scalfaro, Firenze con lo stesso Napolitano – e nessuna Consulta interven ­ne, e nessuno Scalfari suggerì logiche deduzioni. “Il ricorso di Napolitano alla Consulta – aggiunge il fondatore di Repubblica – non intaccava in al ­cun modo il lavoro della Procura sull’inchiesta ri ­guardante i rapporti eventuali (sic, ndr) tra lo Stato e la mafia”. Poi però si contraddice: “Il Gup di Palermo, con correttezza professionale, ha deciso di attendere la decisione della Consulta prima di prendere le sue decisioni”. Ma, se le 4 intercet ­tazioni erano irrilevanti (come ha stabilito la Pro ­cura, dopo averle valutate, per sindacare la condotta non di Napolitano, ma di Mancino), perché mai il Gup avrebbe do ­vuto attendere la Consulta? In ­fatti il Gup non l’ha affatto at ­tesa: l’udienza preliminare pro ­cede a prescindere.

In malafede sarà lei. Dopo que ­sta bella serie di sfondoni, Scal ­fari denuncia “l’indebito clamo ­re che alcune forze politiche (una: Di Pietro, ndr) e alcuni giornali (uno: il Fatto Quotidiano, ndr) hanno montato… lanciando accuse roventi, ripetute immotivatamente contro il Capo dello Stato. Se fossero in buona fede sarebbe il momen ­to di chiedere pubblicamente scusa per l’errore, ma siamo certi che non lo faranno”. Chissà se Scalfari ce l’ha anche con Zagrebelsky, Cordero e Barbara Spinelli, autorevolissimi editorialisti di Repubblica, che, come noi, hanno sostenuto la to ­tale infondatezza del conflitto. O agli eccellenti cronisti di Re ­pubblica Bolzoni e Palazzolo che, conoscendo le carte, hanno scritto: “Le telefonate intercet ­tate stanno scoprendo un ecces ­sivo attivismo al Quirinale sulla delicata inchiesta di Palermo e sfiorano più di una volta il nome di Napolitano”. Ancora ieri Bol ­zoni scriveva che il Quirinale trescava con Mancino tramite i vertici togati “per far avocare l’inchiesta a Palermo”. Accuse in malafede? Forse Scalfari dovrebbe leggere al ­meno il suo giornale. Quel che ha fatto il Qui ­rinale contro l’indagine sulla trattativa non è og ­getto del conflitto di attribuzione né del verdetto della Consulta, e comunque nessuna sentenza po ­trà mai cancellarlo, perchè è indelebilmente im ­presso nelle carte. Quindi le scuse di chi ha rac ­contato i fatti e ne ha tratto le conseguenze sul ­l’indecente condotta del Colle, Scalfari se le sogna. Sono gli italiani che attendono le scuse di Napo ­litano e dei suoi corazzieri.

Fascisti su Marte. “Quello di alcune forze politiche e mediatiche – conclude Scalfari – non è un errore in buona fede ma una consapevole quanto irrespon ­sabile posizione faziosa ed eversiva che mira a di ­sgregare lo Stato e le sue istituzioni. Sembra quasi un fascismo di sinistra”. Qui non si capisce bene se l’in ­sulto più sanguinoso sia “fascismo” o “di sinistra”. E poi il fascismo è proprio l’atteggiamento tipico di chi, come Scalfari, si fa megafono degli “ipse dixit” del potere, a prescindere dai fatti. Il 24 settembre 1942, su “Roma fascista”, un giovane studente del Guf scriveva: “Un impero del genere è tenuto in ­sieme da un fattore principale e necessario: la vo ­lontà di potenza quale elemento di costruzione so ­ciale, la razza quale elemento etnico, sintesi di mo ­tivi etici e biologici che determina la superiorità sto ­rica dello Stato nucleo e giustifica la sua dichiarata volontà di potenza”. Non spetta a noi omettere di ricordare che l’autore era Eugenio Scalfari.


Quella quinta chiamata mai registrata dai pm
di Redazione
(da “il Fatto Quotidiano”, 6 dicembre 2012)

“PRONTO? Il senatore Mancino? Qui è il Qui ­rinale…”. “No, io sono la moglie, il senatore per ora è in studio, può rintracciarlo a questo nu ­mero”. “Grazie, buona giornata”. È il 20 aprile 2012, il centralinista della Presidenza della Re ­pubblica chiama il cellulare dell’ex ministro del ­l’Interno, ma risponde Gianna Mancino, la mo ­glie dell’ex presidente del Senato. La breve con ­versazione è ovviamente ricostruita visto che di quel colloquio, ma soprattutto di quello presu ­mibilmente successivo, non c’è traccia nei bro ­gliacci della Dia depositati agli atti dell’inchie ­sta: il decreto autorizzativo n. 1950/11 dell’u ­tenza dello studio di Mancino era scaduto il 26 gennaio precedente e, nonostante le insistenze della Dia, non era stato proro ­gato. Non è possibile, dunque, stabilire se a chiamare quel giorno dal colle più alto di Ro ­ma fosse Giorgio Napolitano o il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio. Ma se incerto è l’interlocutore che chiama dal Qui ­rinale, più probabile è l’oggetto della telefonata, che arri va il giorno dopo la convocazione a piaz ­za Cavour di Pietro Grasso, procuratore nazio ­nale antimafia, da parte del pg della Cassazione Gianfranco Ciani. In quella sede, in cui si parla anche di avocazione dell’indagine, Ciani chiede a Grasso una relazione sul coordinamento tra le procure che indagano su stragi e trattativa, ma Grasso pretende che la richiesta gli venga mes ­sa per iscritto. Risponderà picche il 22 maggio successivo, ma il giorno dopo qualcuno dal Col ­le più alto chiama Mancino, probabilmente per informarlo dell’esito dell’incontro.


Piergiorgio Odifreddi: “Testo incomprensibile, roba da avvocati”
(da “il Fatto Quotidiano”, 6 dicembre 2012)

LA FRASE che compare sul comunicato della Corte costituzionale è la seguente “e neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzio ­ne”. L’abbiamo letta quattro volte al mate ­matico e logico Pier ­giorgio Odifreddi, per scavalcare il suo “io non capisco”. Ma significa qualcosa “omet ­tere di chiedere”? “È un italiano da avvocati – commenta – quindi per ciò stesso di com ­prensione assai difficile. In sostanza con quel ‘non chiedere’ vogliono dire che i pm erano obbligati a distruggere i nastri”. For ­se, commenta, “doveva essere il Presidente della Repubblica a buttare giù il telefono in ­vece di sollevare conflitti di attribuzione”.


Con questo articolo Antonio Ingroia apre oggi il suo blog su MicroMega – “Partigiani della Costituzione” – spiegando la sua dura critica alla decisione con la quale la Corte Costituzionale ha dato ragione al Quirinale nel conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo.

Partigiani della Costituzione
di Antonio Ingroia
(da “MicroMega”, 6 dicembre 2012)

Apro oggi un blog da quaggiù, in Guatemala, terra difficile ed assai lontana dal Paese cui ho dedicato la mia vita, per una semplice ragione. Sento l’esigenza di far sentire la mia voce. Anche per non darla vinta a quelli che pensavano di essersi liberati di me col mio trasferimento in America Centrale…

Perché questo titolo? Perché “Partigiani della Costituzione”? Per tante ragioni.
In primo luogo, perché mi piace ricordare quei partigiani che hanno fatto la democrazia nel nostro Paese e che per combattere meglio la loro battaglia per la libertà scelsero di fare resistenza lontano dalle loro città. Andarono in montagna. Ed io sto qui, sull’altopiano dove sorge Città del Guatemala.
In secondo luogo, per ribadire la mia non neutralità. Io sono stato ed ancora mi sento, anche se nel diverso ruolo di funzionario dell’ONU, magistrato indipendente, ma rispetto ai valori non sono neutrale. Sarò sempre dalla parte dei principi di giustizia e di eguaglianza. Partigiano in nome del diritto. Ed il diritto è il regno del giusto, non dell’opportuno.
In terzo luogo, perché mi sento partigiano della Costituzione, come ho più volte rivendicato pubblicamente. Dalla parte della Costituzione, dei suoi principi fondamentali e dei suoi valori fondanti.

Già, la Costituzione. E quale miglior modo per aprire questa mia rubrica da “partigiano della Costituzione”, quale miglior modo per ricordare la mia fedeltà alla Costituzione, che spiegando la mia critica, anche aspra, nei confronti della recente decisione con la quale la Corte Costituzionale, custode della Costituzione, ha dato ragione al Presidente Napolitano nel conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo? C’è chi si meraviglia, autorevoli esponenti delle istituzioni e perfino la magistratura associata. Perché – dicono – la Corte Costituzionale non si tocca, non può essere criticata. Mi chiedo dove sta scritto. Il diritto di critica deve poter essere liberamente esercitato nei confronti di chiunque e di qualunque istituzione. Guai se non si consentisse il legittimo diritto di critica nei confronti di qualsivoglia provvedimento giudiziario, compresi quelli della Corte Costituzionale. Altra cosa, ovviamente, sono le invettive e gli insulti delegittimanti spesso piovuti addosso alle magistrature di ogni ordine e grado. Ma non confondiamo le due cose. Perché, altrimenti, si corre il rischio che il cliché dell’invettiva berlusconiana contro i provvedimenti giudiziari a lui non congeniali venga equiparato con ogni forma legittima di esercizio del diritto di critica, a discapito della libertà di espressione. Guai a trarre dall’abuso del diritto argomenti per limitare l’esercizio legittimo del diritto.

E poi: non cambiamo le carte in tavola. Chi è stato (ingiustamente) accusato di avere violato la legge, addirittura ledendo le prerogative della più alta carica dello Stato, sono i magistrati della Procura di Palermo, non i giudici della Consulta. E chi ha sollevato il conflitto fra poteri, accendendo il fuoco delle polemiche che ne è conseguito e si è propagato, non è stata certamente la Procura di Palermo…

E che dire di chi oggi, ringalluzzito dal tenore di un contraddittorio e parziale comunicato stampa della Corte costituzionale, pretende ancora di impartire lezioni di diritto costituzionale e di procedura penale ad alcuni fra i più illustri studiosi della materia come Gustavo Zagrebelsky, Franco Cordero ed Alessandro Pace? Ebbene, questi commentatori, alcuni dei quali giuristi improvvisati (siano o meno laureati in giurisprudenza poco importa) che rivelano scarsa dimestichezza con codici e Costituzione, oggi discettano sulle prime pagine di autorevoli quotidiani delle cantonate di cui si sarebbero resi responsabili i magistrati palermitani. Ignorando, fra le altre cose, che il meccanismo che la Corte vorrebbe applicarsi alle intercettazioni indirette del Presidente della Repubblica, e cioè la distruzione immediata senza il contraddittorio delle parti, non è in alcun modo previsto dalla legge, avendo la Suprema Corte di Cassazione più volte ribadito che anche l’ormai famigerato art. 271 del codice di procedura penale (peraltro applicabile solo a ministri di culto, avvocati, ed altre categorie professionali ben distinte dal Capo dello Stato) impone che le intercettazioni illegittime, prima della distruzione, vengano depositate a disposizione delle parti.

Il risultato è dunque che la decisione della Corte non ha risolto affatto il problema ed il GIP che verrà investito dalla Procura di Palermo sarà punto e a capo, perché la Consulta non è intervenuta in alcun modo sulla legge, com’era invece necessario. Ha invece soltanto dato ragione, platealmente, al Capo dello Stato, per bacchettare altrettanto platealmente la Procura di Palermo. Ma che farà il GIP, visto che il vuoto legislativo che già c’era è rimasto? Dovrà tornare alla Corte Costituzionale sollevando stavolta la questione di legittimità costituzionale perché la Consulta questa volta intervenga con le regole del diritto, e non con una decisione “politica”. Un vero pasticcio che poteva essere evitato…

Ma di questo nessun “autorevole” commentatore sembra finora essersi reso conto. Sono tutti troppo presi dal suonare le fanfare. Così frastornati che c’è chi sembra non saper distinguere ancora oggi le intercettazioni accidentali dalle intercettazioni dirette. Provavo a spiegare ieri il “nostro” conflitto di attribuzioni ad un alto magistrato dell’America Centrale. Ebbene, perfino in Guatemala è ben chiara la differenza fra le intercettazioni dirette nei confronti di una persona, quando cioè si mette sotto controllo un suo telefono (ovviamente vietato nei confronti del presidente della Repubblica), e le intercettazioni accidentali, quando cioè sotto controllo è il telefono di altra persona che, appunto, accidentalmente telefona al Capo dello Stato. In Guatemala la distinzione è chiarissima, in Italia no. Povera Italia…


Ingroia si presenti alle elezioni
di Arturo Diaconale
(da “L’Opinione”, 6 dicembre 2012)

Dal lontano Guatemala, Antonio Ingroia ha bollato come “sentenza politica” la decisione della Corte costituzionale di accogliere il ricorso del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano,
contro il comportamento tenuto dalla procura di Palermo nella vicenda delle intercettazioni delle telefonate tra il Capo dello stato e l’ex ministro Nicola Mancino. Dai vicini palazzi del potere la replica ufficiosa alla affermazione del pm palermitano, ora impegnato in una missione internazionale in Centro America, è stata che la la “risposta politica” è stata la logica conseguenza di una “inchiesta politica”. Ovvero, “chi la fa la aspetti! Ora è facile prevedere che la “sentenza politica” relativa ad una “inchiesta politica” troverà il suo logico sbocco politico nella prossima campagna elettorale. Chi ha sostenuto a spada tratta il senso ed il valore “politico” della inchiesta dei magistrati di Palermo sulla presunta trattativa tra stato e mafia non perderà l’occasione di usare come arma elettorale la sentenza della Corte costituzionale presentandola come la conferma più evidente e clamorosa della volontà delle massime istituzioni di nascondere i “misteri” del Quirinale e le trame oscure antiche e recenti tra uomini dello stato ed organizzazioni mafiose. Al tempo stesso, chi difende la sacralità dei massimi vertici della Repubblica userà la decisione della Corte costituzionale per respingere l’offensiva dei giustizialisti più intransigenti e fondamentalisti e denunciare il carattere strumentale degli attacchi al Quirinale. Tutto questo non va visto necessariamente come un male. Perché se l’inchiesta dei pm di Palermo è stata “politica” e la decisione della Consulta la logica risposta “politica” alla inchiesta stessa, è addirittura un bene che lo sbocco naturale di una partita così fortemente caratterizzata in senso politico sia la campagna elettorale intesa come il tribunale di ultima istanza della volontà popolare.

È giusto, in sostanza, che siano gli elettori a farsi una convinzione, a scegliere, a decidere ed a dipanare la matassa, premiando o bocciando chi ha dato il via al meccanismo tutto politico di una inchiesta che ha prodotto la reazione del Capo dello stato e la decisione della Corte costituzionale. Ingroia, in sostanza, non può restare in Guatemala. Deve tornare in Italia e partecipare in prima persona alla competizione elettorale sostenendo le ragioni che lo hanno spinto a dare battaglia ai massimi vertici istituzionali di oggi e del passato. Se vuole essere conseguente con la sua costante rivendicazione dei propri diritti di cittadino, primo fra tutti quello d’opinione, ha il dovere morale di rivolgersi direttamente agli italiani. Ma senza la copertura e l’autorità che gli derivano dalla toga di magistrato. Rinunciando al privilegio di poter garantire le proprie convinzioni dietro lo scudo protettivo di un ruolo intoccabile, insindacabile e privo di una responsabilità personale di qualsiasi tipo.Il pm palermitano si deve accontentare del già ampio privilegio di poter contare sull’ampia notorietà acquisita grazie alla propria attività di funzionario dello stato. Il ché, oggettivamente, non è un privilegio di poco conto. Ma deve avere il coraggio di giocare la partita delle proprie opinioni senza lo scudo protettivo assicurato dalla funzione di garante e custode della legalità. Come ogni altro cittadino che è convinto di avere qualcosa da dire al paese e decide di sottoporlo al vaglio del corpo elettorale. Certo, per Ingoia non deve essere facile rinunciare alla missione internazionale, alla propria carriera di magistrato fondata su scatti automatici e sostenuta dall’alta visibilità mediatica assicurata dalle proprie inchieste. Ma in democrazia funziona così! O, meglio, dovrebbe funzionare così!


Di Pietro: “Episodio grave. Noi stiamo con Ingroia”
di Sara Nicoli
(da “il Fatto Quotidiano”, 6 dicembre 2012)

Una soluzione forzata. Che non solo non risolve, ma aumenta – se possibile – la confusione sulle mo ­dalità di distruzione delle intercet ­tazioni tra Nicola Mancino e Giorgio Napolitano. “Si tratta di una senten ­za legislativa che produce l’effetto perverso di spostare l’attenzione dal ­la gravità del fatto”, sostiene Antonio Di Pietro.

E, NEL CONTEMPO, costringe il Gip della Procura di Palermo a commet ­tere il reato di abuso d’ufficio. Il lea ­der dell’Italia dei Valori e l’avvocato senatore Idv, Luigi Li Gotti, il dispo ­sitivo della sentenza con cui la Corte costituzionale ha dato ragione alla Presidenza della Repubblica sul con ­flitto d’attribuzione sollevato contro la Procura di Palermo, l’hanno stu ­diato con grande attenzione. E al di là della questione politica, che cioè quelle telefonate tra Mancino e gli uffici del Quirinale restano “un fatto gravissimo”, ce anche una questione squisitamente legislativa che nessu ­no, allo stato dell’arte, si è preso la briga di valutare. E che lascia il Gip di Palermo con il cerino in mano: “C’è un vuoto normativo che va colmato – ha spiegato Li Gotti – e la Corte non lo ha risolto; nella sentenza si dice che il  Gip dovrà distruggere le intercet ­tazioni senza contraddittorio, quan ­do invece l’articolo 269 del codice di procedura penale dice esplicitamente che la decisione sulla distruzione di intercettazioni casuali di persone ‘protette’ deve avvenire in seguito ad un’udienza preliminare tra le parti. Se il giudice non fa questa udienza e distrugge in solitudine le intercetta ­zioni commette un reato perché di ­strugge elementi che fanno parte di un processo. A questo punto, mi chiedo; a quale norma di appoggerà il Gip per raggiungere lo scopo che gli ha imposto la Corte senza incorrere in un reato?”. La domanda resta sen ­za risposta, anche perché è un pro ­blema che riguarda solo il gip di Pa ­lermo, non altri.

MA VISTO CHE tutta questa storia nasce da un vuoto legislativo, Di Pie ­tro ha pensato bene di presentare un ddl in commissione Giustizia, sia del ­la Camera che del Senato, perché “si affronti questo problema e lo si ri ­solva nel più breve tempo possibile”. Nel frattempo, resta molto pesante il problema politico che accompagna l’intera vicenda. “Lungi dall’idea di attaccare il Capo dello Stato – ha commentato Di Pietro – quella che è uscita fuori è l’immagine di una Pro ­cura sconfìtta. Questa sconfìtta viene  ricondotta al procedimento princi ­pale, che è la trattativa tra Stato e mafia, che invece c’è stata, come è stato riconosciuto anche dalla Pro ­cura di Firenze”. Il leader Idv, dun ­que, tiene ferma la barra sul proprio punto di vista; “L’inopportunità” di quella che considera una “sentenza legislativa”, che ha dato luogo a delle “forzature”. Proprio in virtù di que ­sto, l’Idv ha lanciato la campagna “io sto con Ingroia” “contro la campagna diffamatoria che il Giornale ha attivato ai suoi danni” riaffermando, in que ­sto modo “il diritto di ogni cittadino, anche se si chiama Ingroia, ad espri ­mere le proprie idee. Abbiamo atti ­vato le adesioni online per il sostegno a Ingroia” con la e-mail iostoconin- groia gmai/.com e con il sito iostoconingroia.it.


I giudici ricorreranno alla Consulta
Intervista a Gioacchino Scaduto, capo dei gip
(da “il Fatto Quotidiano”, 6 dicembre 2012)

Questa sentenza taglia la te ­sta al toro rispetto a qua ­lunque utilizzo di questi nastri da parte di chiunque: per il gup i nastri sono inutilizzabili e an ­dranno distrutti. Sui modi di distruzione il tema diventa sdrucciolevole, ma una cosa è certa: la complessità di una le ­gislazione che non esito a de ­finire confusa esclude qualun ­que malafede della Procura nel ­la gestione di questa vicenda”. Gioacchino Scaduto è il viceca ­po delTufficio del gip di Paler ­mo, da pm ha condotto nume ­rosi processi di mafia, da gip ha archiviato la posizione di Ber ­lusconi indagato per concorso, in associazione mafìosa e rici ­claggio.

Come cambia, secondo lei, il lavoro del gip alla luce della sen ­tenza della Consulta?

Sulla distruzione dei nastri la legge lascia spazio a interpreta ­zioni diverse: non prevede in nessuna sua parte il coinvolgi ­mento del presidente della Re ­pubblica, ma solo che vadano distrutti i nastri che conterreb ­bero dei segreti professionali; del presidente della Repubblica non si parla proprio. Sotto que ­sto profilo c’è un vuoto norma ­tivo. Vediamo cosa dice la mo ­tivazione della sentenza che sembra mirata a riempire que ­sto vuoto o quanto meno a for ­nire una interpretazione di una norma non perfettamente chiara. Mi aspetto che le mo ­tivazioni spieghino che l’arti ­colo 271 è altro rispetto al 268. Se le motivazioni della sentenza dovessero essere perfettamen ­te in linea con il comunicato di ieri della Consulta, è possibile che qualche gip possa chiedere di riempire il vuoto normativo, facendo appello al parlamento perchè legiferi in questo senso? L’unico modo potrebbe essere un altro ricorso alla Corte co ­stituzionale, perchè discuta di una norma che non prevede espressamente il caso del coin ­volgimento del capo dello Sta ­to.

In questo caso potrebbe essere un giudice a sollevare la que ­stione di legittimità costituzio ­nale?

In astratto si.

Leggendo questa sentenza, se ­condo lei i Padri costituenti che parteciparono al processo di formazione dell’articolo 90 del ­la Costituzione, come sarebbe ­ro rimasti?

Io  faccio il giudice, le valutazio ­ni politiche non mi apparten ­gono.


Consulta inconsulta: lettera a Repubblica di Aldo Busi
(da “il Fatto Quotidiano”, 6 dicembre 2012)

RIGUARDO LA TRATTATIVA sta ­to-mafia del ’93, ovverossia dal ‘93 in poi minimo, duole vedere Repub ­blica unirsi ai peana contro la ma ­gistratura di Palermo per schierarsi a favore di un concetto vuoi di in ­tangibile monarchia vuoi di brutale massoneria della Presidenza della Repubblica in una delle pagine più brutte per la democrazia italiana al ­la quale, già da tempo, il tuo quo ­tidiano ha prestato molto del suo inchiostro contribuendo a gettare un discredito pressoché inemenda ­bile sullo,stato di diritto e sul diritto all’informazione. Dopo tanti Ventenni passati e presenti, da oggi il Paese arretra di un altro ventennio gettando le basi per un altroVentennio prossimo venturo. Quanto a Giorgio Na ­politano, che all’indomani della sanguinosa invasione russa del ’56 dichiarò “L’Urss in Ungheria porta la pace”, non ci resta che gridare di nuovo e sempre “Viva Antonio Gio- lìttil”.

Aldo Busi (da www.altriabusi.it)


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Bart