LETTERATURA: Arrigo Benedetti: “Diario di campagna”17 Gennaio 2011 di Alberto Marchi Giunge quanto mai opportuna questa nuova edizione del Diario di campagna, lo straordinario resoconto di dieci anni  di pensieri, riflessioni, immagini e racconti della vita di Arrigo Benedetti nel periodo che va dal 1959 al 1969 e che fu pubblicato per la prima volta, postumo, nel 1979 dagli Editori Riuniti. Ad offrire ai lettori e agli studiosi di Benedetti la nuova edizione è ora Maria Pacini Fazzi Editore che, grazie alla volontà degli Eredi di Benedetti di riproporre il volume, nel centenario della nascita (1910), e all’iniziativa della Fondazione Banca del Monte di Lucca, pubblica una versione del Diario accattivante anche nella veste tipografica. La splendida copertina che riproduce l’opera di Antonio Possenti intitolata “In campagna” e che è un esplicito omaggio a Benedetti da parte del grande pittore lucchese, introduce meravigliosamente al ricco mondo interiore del fondatore dell’Espresso e pare quasi volere alludere alla tensione spirituale di chi, pur pienamente anche uomo di mondo, è  capace di vivere anche  una dimensione diversa, in cui peraltro sembra perfettamente inserito. Il prefatore di questa edizione del Diario, il saggista e studioso di letteratura italiana Paolo Vanelli, nel saggio introduttivo, intitolato “Benedetti dal giornalismo alla letteratura”, ha puntato la sua attenzione soprattutto sull’elemento ricorrente della “villa”, quale chiave interpretativa privilegiata non solo del Diario stesso, ma anche dell’intero corpus narrativo benedettiano. Scelta senz’altro azzeccata e pertinente, visto che con riflessioni che hanno al centro la villa il libro si apre e si chiude. E particolarmente centrata è anche l’annotazione di Vanelli circa la “continua dialettica tra le due contraddittorie componenti” della personalità di Benedetti e da cui scaturisce tutta l’attività dello scrittore: la “intimistica, ombrosa, lirica e provinciale” da un lato e “quella razionalistica, civile ed europea” dall’altro. Forse l’approccio interpretativo di Vanelli, che ha comunque scandagliato egregiamente il contenuto del Diario di campagna, pone eccessivamente  l’accento sulla prima componente, ovvero sul sogno da parte di Benedetti di un otium  da molto tempo desiderato e sul suo vagheggiamento di un ‘idillio virgiliano-letterario che contraddistingue il periodo abbracciato dal Diario: elementi senza dubbio presenti in Benedetti, che fu però un uomo dalla alacrità incontenibile. Tanto è vero che nel 1975 avrebbe accettato la direzione di Paese Sera anche quando le sue condizioni fisiche erano divenute precarie a causa di gravi problemi renali. E’ bene dunque non distaccare in modo troppo netto l’indubbia propensione di Benedetti a volersi ritirare lontano dai frastuoni della città in uno spazio a lui più familiare in cui potesse dedicarsi al lavoro letterario, dalla sua vera anima politica e culturale di intellettuale. Non bisogna dimenticare infatti che proprio Benedetti confessò che, anche quando si era dedicato in modo (apparentemente) esclusivo al giornalismo, non aveva mai cessato di avvicinarsi ai testi scritti dagli altri (redattori e collaboratori dei suoi periodici) con atteggiamento “letterario” e conosciamo bene di quale piglio egli fosse capace nel correggere gli errori altrui. L’esperienza letteraria, quella giornalistica e lo sguardo sulla società e sul mondo politico e culturale, appaiono in realtà più compenetrati di quanto non possa sembrare a prima vista. Per cui, se annotava per esempio (29 febbraio 1960) che “La letteratura ha finito con l’essere per me come una deformazione segreta (…). L’assillo letterario del resto è continuato ogni giorno ch’io leggo una prosa altrui da evitare: quella del letterato come quella del cronista , pigliando gusto alla seconda perché meglio si presta alla correzione”, non mancano però nel Diario pensieri che rivelino la profondità del pensiero critico di Benedetti nei confronti dei protagonisti della cultura, anche i più apparentemente inattaccabili, segno di una attenzione oltretutto assai coraggiosa che non venne mai meno neanche nei momenti in cui l’impegno giornalistico si limitò ad un editoriale settimanale. Il 26 ottobre 1967, quando collaborava con Panorama, annotava infatti: “Dopo aver visto un uomo per tutte le stagioni dedicato a Thomas More vorrei dire a Antonioni, Bellocchio, Fellini,: <<Girate in Italia un film su Giordano Bruno. Il giorno che ne avrete il desiderio riconoscerò che sapete osare, e non ora che ci mostrate letti sfatti, donne nude>>. Lo stesso a certi intellettuali che riducono il coraggio all’erotismo sfidando una censura bigotta, degno interlocutore di un tale colloquio“.  E’ altresì vero che le pagine del Diario dedicate alla cronaca e alla politica non sono moltissime, come giustamente nota Vanelli, ma proprio l’ultimo pensiero annotato, il 30 marzo 1969, in cui fantastica su una possibile vita in albergo una volta venduta la villa di Saltocchio, e in cui affiorano rimorsi e scrupoli per l’acquisto di quella bellissima dimora campestre, la dicono lunga sul sentire profondo di Benedetti che era quello di un uomo che non perdeva mai di vista il risvolto sociale, oltre che umano e politico, del proprio essere nel mondo. Letto 2254 volte. | ![]() | ||||||||||
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