LETTERATURA: ARTE: I MAESTRI: Buonarroti. Aveva il senso delle cose23 Giugno 2015 di Luigi Baldacci MICHELANGELO BUONARROTI L’« Universale Laterza » offre un bell’esempio di quel che si può fare oggi a vantaggio della cultura acco gliendo i sistemi della divulgazione di massa. Enzo Noè Girardi curò nel 1960, per la grande collezione laterziana degli Scrittori d’Italia, il testo criti co delle Rime di Michelangiolo Buo narroti: oggi quello stesso testo (in qualche punto perfino migliorato) è alla portata di tutti i lettori. Mancano naturalmente l’Apparato critico e la Nota filologica, ma non mancano le opportune parafrasi dei singoli com ponimenti che, trattandosi dell’ermeti co Michelangiolo, assumono una preci sa responsabilità esegetica e interpre tativa. In più, il volumetto è correda to di un’introduzione nella quale si compendiano le ricerche e le conclu sioni propriamente critiche espletate dal Girardi in altre sedi. Rifrazione della sua scultura Tale Introduzione ci trova sostan zialmente concordi; ed è per questo che ci preme discutere subito i pochi punti sui quali è possibile avanzare qualche dissenso: « L’accertamento della piena dignità letteraria del can zoniere di Michelangiolo e, per conse guenza, della sua sostanziale autono mia rispetto all’opera figurativa e pla stica del maestro, costituisce senza dubbio l’acquisto più rilevante del la voro filologico e critico dedicato in questi ultimi anni a Michelangiolo poeta ». Leggere la poesia di Michelangiolo come una diversa ma sempre coerente rifrazione della sua opera di scultore è un’operazione estetizzante che è stata tentata, ma che non ha dato risultati positivi. Il « non finito » di Michelangiolo scultore non ha nien te a che.fare col «non finito » di Michelangiolo poeta. Verissimo: ma nel senso appunto che il primo approda alla scoperta di una nuova forma, il secondo resta al di qua della forma. Michelangiolo poeta va misurato col metro della poesia, e non con quello della scultura; ma questo riconosci mento di autonomia non significa di per sé un riconoscimento di poesia. Quella di Michelangiolo è piuttosto una fuga dalla poesia (com’era intesa almeno dal petrarchismo trionfante) o un’ansia verso la poesia: la quale re sta però qualcosa che è al di fuori, in tuita assai più che espressa. Un altro punto, nel discorso del Girardi, è quel lo che ammonisce a non legare i pen sieri di Michelangiolo a una precisa responsabilità: nel sonetto Perché Febo non torce si conclude, parlando della notte, che « chi la loda erra »; nel sonetto successivo, e famosissimo, O notte, o dolce tempo, si proclama un principio opposto: « Chi t’onor’ha l’intelletto intero ». E’ verissimo: que ste lodi o queste denigrazioni sono prive di responsabilità. Volergliene at tribuire una significa immergere Michelangiolo in un bagno romantico: come fece anche Thomas Mann dicen do che quel secondo sonetto era stato « composto, forse sull’impalcatura, mentre lavorava al Giudizio Universa le, in esaltazione nostalgica della not te ». Ma a questo punto ci pare che il Girardi aggiri non già l’ostacolo ma il traguardo, quando dichiara che « non è il pensiero a decidere delle forme, ma al contrario sono queste a decide re del pensiero, sono queste che lo fanno servire a se stesse, secondo le proprie esigenze ». A nostro avviso bi sognava o bastava dire che Michelangiolo aderisce qui a un’idea popolare della poesia da intendere come arte di dire tutto: una cosa e il suo contrario; che era poi la linea della produzione capitolistica: scrivere in lode delle donne e poi, subito dopo, vituperarle. Per il resto, come si diceva, il sag gio del Girardi contiene molti punti fermi e capaci di rinnovare la critica michelangiolesca: l’oculata suddivisio ne in gruppi, il rapporto di derivazio ne nei confronti del Petrarca (non quello più lirico o narrativo, ma il Pe trarca del « trobar clus »), infine il pe trarchismo esplicito e acquiescente delle ultime rime spirituali: più abbor dabili ma meno significative e caratte rizzanti. Un ultimo punto di dissenso è quello che riguarda il giudizio sui due saggi foscoliani: Michelangelo e Le Rime di Michelangelo Buonarroti, rispettivamente del 1822 e del 1826. Per il Girardi il secondo è « più am pio e meditato »: a noi sembra più freddo e celebrativo. A ogni modo (e qui torniamo all’assunto iniziale) un bilancio dell’esperienza lirica del Buo narroti deve ancor oggi muovere dalle premesse poste dal Foscolo (nel sag gio del ’22): « Sarebbe manifestamente ingiusto di considerare i versi di Mi chelangelo come produzioni d’un uomo professante poesia; come sem pre è ingiusto, laddove richiedesi un grado di eccellenza a cui l’autore stes so non pensò mai d’aspirare… Se mai fu uomo che fidasse interamente nelle proprie facoltà, quegli fu Michelange lo; ma del pari, se mai fu uomo che conoscesse difficoltà inerenti a ciascun’arte, e desse meditazione, tempo e quanta fatica facea d’uopo per supe rarle, quegli fu Michelangelo »; il che viene a dire che, nella poesia, il Buo narroti additò a se stesso le difficoltà dell’arte, ma non si propose di vincer le. Al sentimento tutto foscoliano della parola magica ed evocatrice, quel di fetto, quel margine di approssimazio ne che si riscontra in Michelangiolo, doveva necessariamente essere sgradi to: « Sebbene egli scriva generalmente con quella precisione e condensamen to d’idee, che son testimonio di pro fondità di pensiero, non si esprime pe raltro continuamente con quella per spicuità che non può aversi se non per costante abitudine di scrivere… ». E si potrebbe osservare che il tono del giudizio foscoliano sarebbe stato ancora più perentorio se, invece di leggere le Rime secondo il testo del l’alteratissima edizione giuntina del 1623, egli avesse potuto considerarle nella più scabra situazione delle edi zioni moderne. Con ciò non si vuol negare che tale verdetto possa essere anche sensibil mente corretto. La preoccupazione classicistica che incombeva sul Fosco lo del periodo inglese, è avvertibile tra le righe di quelle nuove intuizioni; ma resta fondamentale l’indicazione di fondo sul carattere privato di quella poesia: appunti su cui imbastire l’eter no dialogo con se stèsso. Di questi ap punti si è perduto troppo spesso la chiave e, sul piano della poesia, l’offerta di Michelangiolo resta più in tenzionale che reale. Il che non si gnifica, peraltro, che egli sia un solita rio e un eccentrico tagliato fuori dal commercio culturale. I segni della cul tura umanistica sono anzi evidentissi mi: pensiamo ai compiacimenti mira colistici (cioè alla casistica dei miraco li d’amore) nei quali il Buonarroti si specchia come in un’appendice neces saria di una più vasta esperienza pla tonica. Non si dimentichi appunto che accanto al Michelangiolo anticipatore di un’età nuova dello spirito (aspetto sul quale si è fin troppo insistito), esi ste il filosofo ficiniano, cioè tutto affondato nella humus bizzarra del platonismo fiorentino quattrocentesco. Questo è insomma il punto che non dovrà essere perso di vista: poiché in esso si chiariscono sia le ragioni della storicità michelangiolesca, sia quelle della sua eccentricità. Si è dimostrato a sufficienza, in altre sedi, che il corso della lirica cinquecentesca quale ri sulta dalle nuove istituzioni letterarie del Bembo, ha rapporti del tutto occa sionali e non mai necessari con la trattatistica platonica sull’amore. L’antibembismo di Michelangiolo è appunto da ricercare tutto nella dire zione del suo delirante platonismo. E’ la stessa direzione che tornava gradi ta al Berni, odiatore di tutti i poeti, nei famosi versi del capitolo A Fra Bastian del Piombo: « Ho letto qual che sua composizione: / son ignorante, e pur direi d’avelle / lette tutte nel mezzo di Platone… ». Il rifiuto della lingua del Bembo Secondo il Klaczko che nelle sue Causeries Florentines (libro tutto da rileggere o da leggere), scrisse nell’Ottocento le pagine più nuove sul carat tere artistico di Michelangiolo, il ge nio di lui fu contrario al suo tempo proprio in quanto si mostrò refratta rio a ogni principio d’imitazione o di scolastica adeguazione culturale. Così, in luogo di aderire allo sviluppo stori co della nostra lirica secondo i canoni del nuovo petrarchismo, Michelangiolo rifiuta un lavoro di équipe, rifiuta la dimensione linguistico-nazionale del Bembo e si scava un terreno d’appog gio tutto in profondità, in un ambito che può apparire municipale. Al mo dello Petrarca si sostituisce il modello Dante (o almeno un Petrarca che sa di Dante). A Michelangiolo artista figurativo restava estraneo, come osservò il Klaczko, il senso ultimo dell’opera dantesca, e per questo il suo Giudizio Universale ostenta gli strumenti del supplizio di un Dio, non già la sua so lare vittoria che è principio razionale dell’universo; ma il Michelangiolo del le Rivi e si rivolge tutto all’anormalità dello stile dantesco: un’anormalità che non aveva aperto la traccia di una tra dizione illustre, ma si era filtrata, in tono minore, nel dominio della poesia realistica e burlesca: fino al Burchiel lo, fino al Berni. E in questo, egli non si dimostra poi lontanissimo dalla po sizione generale del proprio secolo: perché se il Bembo desiderava un Dante tanto meno filosofo e tanto più poeta, anche al Buonarroti la filosofia di Dante (razionale e tomistica) non interessa affatto; ma laddove il gusto formale bembiano condannava in Dan te lo stile impoetico, a Michelangiolo quello stile appare un rifugio sicuro contro la moda del tempo, una garan zia suprema, nella sua astoricità, di un’espressione individualmente valida e polemicamente inconfondibile. D’altronde l’Alighieri è per Michelangiolo (nel sonetto che gli dedicò: Dal ciel discese) non il savio o il mae stro d’eloquenza (eloquenza che egli sdegna), ma prima di tutto l’esule vit tima della perfida noverca, il giusto tra i lupi, nel quale egli si riconosce. Vale a dire che se un processo d’iden tificazione autobiografica esiste â— come avveniva per i petrarchisti nei confronti del Petrarca â— quest’iden tificazione non avviene sul piano del l’esperienza religiosa o su quello della ricerca filosofica, bensì nella dimensio ne di una vita pratica e combattuta: stile e vita, niente filosofia. Che la poesia di Michelangiolo non rientri tutta in questa linea schemati ca sarà un rilievo perfino ovvio; ma resta il fatto che in questa linea rien tra il Michelangiolo poeta che mag giormente si sottrae al denominatore comune del proprio secolo. Certamen te alcune delle ultime rime potranno dare un suono più piacevole, come il sonetto Per croce e grazia dove si ac cenna, nei termini di un petrarchismo di consumo, alla morte del fedele Ur bino; eppure in una lettera al Vasari del 23 febbraio 1556, toccando quello stesso episodio, Michelangiolo è molto più commosso, molto più vero e, dicia mo, più poetico. La poesia del Buonarroti non fu l’e legia petrarchistica, ma; come disse il Contini, il « senso delle cose » nella li nea realistico-bernesca, e, potremmo ancora dire, lo sforzo aspro, la tensio ne psicologica, l’ambizione platonica con cui le parole cercavano di rag giungere, di acchiappare le cose. Letto 1714 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||