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LETTERATURA: ARTE: I MAESTRI: Buonarroti. Aveva il senso delle cose

23 Giugno 2015

di Luigi Baldacci
[da “La fiera letteraria”, numero 48, giovedì 30 novembre 1967]

MICHELANGELO BUONARROTI
Le Rime
A cura di Enzo Girardi
Laterza, 247 pagine, lire 900

L’« Universale Laterza » offre un bell’esempio di quel che si può fare oggi a vantaggio della cultura acco ­gliendo i sistemi della divulgazione di massa. Enzo Noè Girardi curò nel 1960, per la grande collezione laterziana degli Scrittori d’Italia, il testo criti ­co delle Rime di Michelangiolo Buo ­narroti: oggi quello stesso testo (in qualche punto perfino migliorato) è alla portata di tutti i lettori. Mancano naturalmente l’Apparato critico e la Nota filologica, ma non mancano le opportune parafrasi dei singoli com ­ponimenti che, trattandosi dell’ermeti ­co Michelangiolo, assumono una preci ­sa responsabilità esegetica e interpre ­tativa. In più, il volumetto è correda ­to di un’introduzione nella quale si compendiano le ricerche e le conclu ­sioni propriamente critiche espletate dal Girardi in altre sedi.

Rifrazione della sua scultura

Tale Introduzione ci trova sostan ­zialmente concordi; ed è per questo che ci preme discutere subito i pochi punti sui quali è possibile avanzare qualche dissenso: « L’accertamento della piena dignità letteraria del can ­zoniere di Michelangiolo e, per conse ­guenza, della sua sostanziale autono ­mia rispetto all’opera figurativa e pla ­stica del maestro, costituisce senza dubbio l’acquisto più rilevante del la ­voro filologico e critico dedicato in questi ultimi anni a Michelangiolo poeta ». Leggere la poesia di Michelangiolo come una diversa ma sempre coerente rifrazione della sua opera di scultore è un’operazione estetizzante che è stata tentata, ma che non ha dato risultati positivi. Il « non finito » di Michelangiolo scultore non ha nien ­te a che.fare col «non finito » di Michelangiolo poeta. Verissimo: ma nel senso appunto che il primo approda alla scoperta di una nuova forma, il secondo resta al di qua della forma.

Michelangiolo poeta va misurato col metro della poesia, e non con quello della scultura; ma questo riconosci ­mento di autonomia non significa di per sé un riconoscimento di poesia. Quella di Michelangiolo è piuttosto una fuga dalla poesia (com’era intesa almeno dal petrarchismo trionfante) o un’ansia verso la poesia: la quale re ­sta però qualcosa che è al di fuori, in ­tuita assai più che espressa. Un altro punto, nel discorso del Girardi, è quel ­lo che ammonisce a non legare i pen ­sieri di Michelangiolo a una precisa responsabilità: nel sonetto Perché Febo non torce si conclude, parlando della notte, che « chi la loda erra »; nel sonetto successivo, e famosissimo, O notte, o dolce tempo, si proclama un principio opposto: « Chi t’onor’ha l’intelletto intero ». E’ verissimo: que ­ste lodi o queste denigrazioni sono prive di responsabilità. Volergliene at ­tribuire una significa immergere Michelangiolo in un bagno romantico: come fece anche Thomas Mann dicen ­do che quel secondo sonetto era stato « composto, forse sull’impalcatura, mentre lavorava al Giudizio Universa ­le, in esaltazione nostalgica della not ­te ». Ma a questo punto ci pare che il Girardi aggiri non già l’ostacolo ma il traguardo, quando dichiara che « non è il pensiero a decidere delle forme, ma al contrario sono queste a decide ­re del pensiero, sono queste che lo fanno servire a se stesse, secondo le proprie esigenze ». A nostro avviso bi ­sognava o bastava dire che Michelangiolo aderisce qui a un’idea popolare della poesia da intendere come arte di dire tutto: una cosa e il suo contrario; che era poi la linea della produzione capitolistica: scrivere in lode delle donne e poi, subito dopo, vituperarle.

Per il resto, come si diceva, il sag ­gio del Girardi contiene molti punti fermi e capaci di rinnovare la critica michelangiolesca: l’oculata suddivisio ­ne in gruppi, il rapporto di derivazio ­ne nei confronti del Petrarca (non quello più lirico o narrativo, ma il Pe ­trarca del « trobar clus »), infine il pe ­trarchismo esplicito e acquiescente delle ultime rime spirituali: più abbor ­dabili ma meno significative e caratte ­rizzanti. Un ultimo punto di dissenso è quello che riguarda il giudizio sui due saggi foscoliani: Michelangelo e Le Rime di Michelangelo Buonarroti, rispettivamente del 1822 e del 1826.

Per il Girardi il secondo è « più am ­pio e meditato »: a noi sembra più freddo e celebrativo. A ogni modo (e qui torniamo all’assunto iniziale) un bilancio dell’esperienza lirica del Buo ­narroti deve ancor oggi muovere dalle premesse poste dal Foscolo (nel sag ­gio del ’22): « Sarebbe manifestamente ingiusto di considerare i versi di Mi ­chelangelo come produzioni d’un uomo professante poesia; come sem ­pre è ingiusto, laddove richiedesi un grado di eccellenza a cui l’autore stes ­so non pensò mai d’aspirare… Se mai fu uomo che fidasse interamente nelle proprie facoltà, quegli fu Michelange ­lo; ma del pari, se mai fu uomo che conoscesse difficoltà inerenti a ciascun’arte, e desse meditazione, tempo e quanta fatica facea d’uopo per supe ­rarle, quegli fu Michelangelo »; il che viene a dire che, nella poesia, il Buo ­narroti additò a se stesso le difficoltà dell’arte, ma non si propose di vincer ­le.

Al sentimento tutto foscoliano della parola magica ed evocatrice, quel di ­fetto, quel margine di approssimazio ­ne che si riscontra in Michelangiolo, doveva necessariamente essere sgradi ­to: « Sebbene egli scriva generalmente con quella precisione e condensamen ­to d’idee, che son testimonio di pro ­fondità di pensiero, non si esprime pe ­raltro continuamente con quella per ­spicuità che non può aversi se non per costante abitudine di scrivere… ». E si potrebbe osservare che il tono del giudizio foscoliano sarebbe stato ancora più perentorio se, invece di leggere le Rime secondo il testo del ­l’alteratissima edizione giuntina del 1623, egli avesse potuto considerarle nella più scabra situazione delle edi ­zioni moderne.

Con ciò non si vuol negare che tale verdetto possa essere anche sensibil ­mente corretto. La preoccupazione classicistica che incombeva sul Fosco ­lo del periodo inglese, è avvertibile tra le righe di quelle nuove intuizioni; ma resta fondamentale l’indicazione di fondo sul carattere privato di quella poesia: appunti su cui imbastire l’eter ­no dialogo con se stèsso. Di questi ap ­punti si è perduto troppo spesso la chiave e, sul piano della poesia, l’offerta di Michelangiolo resta più in ­tenzionale che reale. Il che non si ­gnifica, peraltro, che egli sia un solita ­rio e un eccentrico tagliato fuori dal commercio culturale. I segni della cul ­tura umanistica sono anzi evidentissi ­mi: pensiamo ai compiacimenti mira ­colistici (cioè alla casistica dei miraco ­li d’amore) nei quali il Buonarroti si specchia come in un’appendice neces ­saria di una più vasta esperienza pla ­tonica. Non si dimentichi appunto che accanto al Michelangiolo anticipatore di un’età nuova dello spirito (aspetto sul quale si è fin troppo insistito), esi ­ste il filosofo ficiniano, cioè tutto affondato nella humus bizzarra del platonismo fiorentino quattrocentesco.

Questo è insomma il punto che non dovrà essere perso di vista: poiché in esso si chiariscono sia le ragioni della storicità michelangiolesca, sia quelle della sua eccentricità. Si è dimostrato a sufficienza, in altre sedi, che il corso della lirica cinquecentesca quale ri ­sulta dalle nuove istituzioni letterarie del Bembo, ha rapporti del tutto occa ­sionali e non mai necessari con la trattatistica platonica sull’amore. L’antibembismo di Michelangiolo è appunto da ricercare tutto nella dire ­zione del suo delirante platonismo. E’ la stessa direzione che tornava gradi ­ta al Berni, odiatore di tutti i poeti, nei famosi versi del capitolo A Fra Bastian del Piombo: « Ho letto qual ­che sua composizione: / son ignorante, e pur direi d’avelle / lette tutte nel mezzo di Platone… ».

Il rifiuto della lingua del Bembo

Secondo il Klaczko che nelle sue Causeries Florentines (libro tutto da rileggere o da leggere), scrisse nell’Ottocento le pagine più nuove sul carat ­tere artistico di Michelangiolo, il ge ­nio di lui fu contrario al suo tempo proprio in quanto si mostrò refratta ­rio a ogni principio d’imitazione o di scolastica adeguazione culturale. Così, in luogo di aderire allo sviluppo stori ­co della nostra lirica secondo i canoni del nuovo petrarchismo, Michelangiolo rifiuta un lavoro di équipe, rifiuta la dimensione linguistico-nazionale del Bembo e si scava un terreno d’appog ­gio tutto in profondità, in un ambito che può apparire municipale. Al mo ­dello Petrarca si sostituisce il modello Dante (o almeno un Petrarca che sa di Dante).

A Michelangiolo artista figurativo restava estraneo, come osservò il Klaczko, il senso ultimo dell’opera dantesca, e per questo il suo Giudizio Universale ostenta gli strumenti del supplizio di un Dio, non già la sua so ­lare vittoria che è principio razionale dell’universo; ma il Michelangiolo del ­le Rivi e si rivolge tutto all’anormalità dello stile dantesco: un’anormalità che non aveva aperto la traccia di una tra ­dizione illustre, ma si era filtrata, in tono minore, nel dominio della poesia realistica e burlesca: fino al Burchiel ­lo, fino al Berni. E in questo, egli non si dimostra poi lontanissimo dalla po ­sizione generale del proprio secolo: perché se il Bembo desiderava un Dante tanto meno filosofo e tanto più poeta, anche al Buonarroti la filosofia di Dante (razionale e tomistica) non interessa affatto; ma laddove il gusto formale bembiano condannava in Dan ­te lo stile impoetico, a Michelangiolo quello stile appare un rifugio sicuro contro la moda del tempo, una garan ­zia suprema, nella sua astoricità, di un’espressione individualmente valida e polemicamente inconfondibile.

D’altronde l’Alighieri è per Michelangiolo (nel sonetto che gli dedicò: Dal ciel discese) non il savio o il mae ­stro d’eloquenza (eloquenza che egli sdegna), ma prima di tutto l’esule vit ­tima della perfida noverca, il giusto tra i lupi, nel quale egli si riconosce. Vale a dire che se un processo d’iden ­tificazione autobiografica esiste â— come avveniva per i petrarchisti nei confronti del Petrarca â— quest’iden ­tificazione non avviene sul piano del ­l’esperienza religiosa o su quello della ricerca filosofica, bensì nella dimensio ­ne di una vita pratica e combattuta: stile e vita, niente filosofia.

Che la poesia di Michelangiolo non rientri tutta in questa linea schemati ­ca sarà un rilievo perfino ovvio; ma resta il fatto che in questa linea rien ­tra il Michelangiolo poeta che mag ­giormente si sottrae al denominatore comune del proprio secolo. Certamen ­te alcune delle ultime rime potranno dare un suono più piacevole, come il sonetto Per croce e grazia dove si ac ­cenna, nei termini di un petrarchismo di consumo, alla morte del fedele Ur ­bino; eppure in una lettera al Vasari del 23 febbraio 1556, toccando quello stesso episodio, Michelangiolo è molto più commosso, molto più vero e, dicia ­mo, più poetico.

La poesia del Buonarroti non fu l’e ­legia petrarchistica, ma; come disse il Contini, il « senso delle cose » nella li ­nea realistico-bernesca, e, potremmo ancora dire, lo sforzo aspro, la tensio ­ne psicologica, l’ambizione platonica con cui le parole cercavano di rag ­giungere, di acchiappare le cose.


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