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LETTERATURA: Cesare De Marchi – I romanzi. Leggerli, scriverli- Feltrinelli, Milano 2007

30 Settembre 2012

di Alfio Squillaci

È   passato del tutto inosservato questo libro di Cesare De Marchi, il non dimenticato autore de “Il talento”. De Marchi è secondo il vostro  book jokey  (cos’altro può essere   oggi un critico letterario, seppur improvvisato come me,   se non una specie di  disk jockey  dei libri, uno che seleziona e mette sul piatto il disco che vuole farvi ascoltare, creando così un canone, che sarà il proprio, ma potrebbe essere anche il vostro se il critico-lettore sarà convincente)   uno dei più dotati narratori che abbiamo oggi   in circolazione in Italia; ed è sicuramente un maestro, se non dell’arte romanzesca, sicuramente della lingua italiana o meglio dire dell’italiano narrativo scritto, fatto questo che ha molta attinenza con questo suo saggio sul romanzo, come presto vedremo. Appartato (vive in Germania), lontano da ogni ribalta, ignoto alla massa dei lettori generalisti, mai apparso in TV salvo in occasione della premiazione del Supercampiello per “Il talento”, De Marchi esce periodicamente con delle narrazioni (romanzi e racconti) che hanno il destino (salvo quel romanzo che lo ha reso, diciamo così, “noto”) di arrestarsi alla prima edizione. Le sue prime prove, ad esempio, “Il bacio della maestra” e “La malattia del commissario” entrambi editi da Sellerio, sono introvabili e mai più ristampate. Non diversa fortuna hanno avuto “Una crociera”, “Fuga a Sorrento” e in ultimo il notevole   “La furia del mondo”.

De Marchi è un invisibile alle patrie lettere, uno dei tanti, va detto, in un’epoca in cui le librerie sono dei porti di mare o dei Grand Hotel, quelli con le porte girevoli che si vedono nelle leste trame dei film di Lubitch. Una   possibile risposta a questa invisibilità di De Marchi (e potremmo dire “omissione” per usare un termine-chiave de “Il talento”) la troviamo forse in questo saggio sul romanzo. Nell’ottavo e ultimo capitolo intitolato “L’impegno e la moralità dello scrittore” qualche amara ma composta riflessione sulla chiassosità mediatica cui spesso indulgono i nostri letterati di successo svela il punto di vista di De Marchi, che è, come ovvio, molto severo e intransigente. Intervenire nei talk-shaw, essere escussi dai giornali per questioni che nulla hanno a che fare con la propria competenza professionale di scrittori/ narratori o finanche far parlare di sé nelle cronache rosa, inseguire le mode del momento per denaro, scrivere per compiacere il dittatore di turno o per eccitare sessualmente i lettori, consoliderà senz’altro l’immagine dello scrittore di grido e ne aumenterà le vendite, ma sicuramente finirà col mettere a rischio sia lo   scrittore che la sua opera. “La moralità dello scrittore – dichiara con una punta di risentimento De Marchi – è interna alla scrittura, è una moralità del fare, che qui significa del narrare” […] “Se narrare è trovare parole per una storia, in tale ricerca risiedono impegno e moralità dello scrittore”.

Narrare è “trovare parole per una storia”. Tutto qui? Non è poco per De Marchi che si impegna ad affermare: “Un romanzo è fatto esclusivamente di parole, e aggiungiamo subito, per precisare, che un romanzo è  un movimento di parole: movimento proprio nel senso più ovvio, che la mano di chi scrive, e l’occhio di chi più tardi legge, si muovono da una parola e da una frase all’altra , procedendo dalla prima all’ultima pagina del libro” (corsivi dell’autore). Questa dichiarazione preliminare, di una semplicità tautologica apparente, nei fatti segna non solo la concezione del romanzo che De Marchi   sostiene in questo saggio, ma anche una implicita dichiarazione di poetica. De Marchi parla della pratica del romanzo in generale, ma questa sembra tratta dalla pratica di scrittura dei propri   romanzi. Trovare parole per una storia   “né troppo tecniche né troppo generiche” (le mot juste, direbbero i francesi) a me sembra la cifra della sua scrittura. Ora, dopo terrorismi sintattici e prose brade   cui siamo stati abituati negli ultimi lustri, un’acquisizione sembra certa: De Marchi punta a narrare storie dentro una cornice di   prosa d’eccezione, a “scrivere bene” insomma. I suoi testi narrativi sono lì a dimostrarlo: sono nutriti di una prosa adamantina; un italiano lustro e iridescente che non è ripicchiato, da vocabolario,   ma che non è neanche, per intenderci, l’italiano neutro, standard e funzionale di Moravia, uno scrittore che non so se consentaneo a De Marchi, ma che tra la prima e la seconda Avanguardia, andò dritto per i fatti suoi a filare le sue storie, incurante di anti e iper- romanzi. Come De Marchi,   aggiungo io, in ciò stimolato da quanto leggo in questo saggio in   “La leggerezza di Calvino e l’”iperromanzo”, appendice al capitolo terzo, che nei fatti è una censura robusta alla tendenza ludica e combinatoria dell’ultimo Calvino, ma anche, sottotraccia, di Umberto Eco. Censura che resterebbe improvvida se non inserita in una perorazione di poetica in cui la “pesantezza” della scrittura in termini di “concretezza drammatica di situazioni” e di movimento di parole atto   a evocarla/rappresentarla, è indicata come la risorsa prima e privilegiata del fare romanzo.

A chi è arrivato fin qui verrà il dubbio che De Marchi sia una specie di calligrafo tradizionalista e uno scrittore d’antan, lontano dagli sperimentalismi cui è stata sottoposta la difficile arte del narrare negli ultimi lustri e attaccato alla forma scritta o meglio iperscritta, ossia lontana   dalle modalità, ormai ampiamente sdoganate   della scrittura di derivazione orale, quella dello “scrivi come parli e parla come mangi” che sarà un grande precetto di spontaneità e di immediatezza e di scrittura automatica, ma poco ha a che fare con la letteratura della tradizione, che è principalmente, ossia redazionalmente, una forma  scritta  di comunicazione. E in parte calligrafo nel senso migliore   del termine, ossia di uno che badi alla bella e accudita redazione dei testi, De Marchi lo è   senz’altro. E con qualche ragione. Segnalo per esempio che questo saggio è molto accudito sotto questo riguardo e per certi aspetti è un vero “pezzo di bravura”: non capita tutti i giorni di incrociare un saggista che attinge alla bibliografia specialistica di riferimento direttamente   in tedesco, spagnolo, inglese, francese, russo e qualche altra lingua, oltre l’italiana,   che sicuramente mi è sfuggita. Chapeau!

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