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LETTERATURA: CINEMA: I MAESTRI: La scuola dei duri

5 Dicembre 2015

di Oreste del Buono
[da “La Fiera Letteraria”, numero 31, giovedì 3 agosto 1967]

« Lasci che glielo dica in quattro parole. Mettiamo da parte ogni mio eventuale senso dell’onestà, ogni eventuale senso di lealtà che io possa provare nei confronti dei miei dato ­ri di lavoro. Lei sarebbe in grado di dubitarne, e dunque non teniamone conto. Ora, io faccio il detective per ­ché si dà il caso che questo lavoro mi piace. Ne ricavo un discreto sti ­pendio, ma potrei trovare altri lavori pagati meglio. Anche solo cento dolla ­ri al mese significano milleduecento dollari all’anno in più, mettiamo un venticinque-trentamila dollari in tutti gli anni da adesso al mio sessan ­tesimo compleanno. Ebbene, io passo sopra a venticinque dollari di onesto guadagno perché mi piace fare il de ­tective, mi piace questo lavoro. E il fatto che il mio lavoro mi piace mi spinge a sbrigarlo come meglio mi riesce, altrimenti sarebbe tutto assur ­do. Io la penso in questo modo. Non conosco nient’altro, non mi diverto con nient’altro, e non voglio conosce ­re nient’altro né divertirmi con nien ­t’altro. E questo lei non è in grado di misurarlo con nessuna somma di denaro. I soldi sono una gran cosa, io non ho niente contro i soldi, ma in questi ultimi diciotto anni mi sono ca ­vato il gusto di inseguire delinquenti e di affrontare enigmi e la soddisfa ­zione di acciuffare ladri e di risolvere misteri. E’ l’unico sport che io sappia, e non riesco a immaginare avvenire più piacevole che un’altra ventina e più d’anni di questo sport. E non ho intenzione di privarmene… ».

A parlare così, e a una bella donna che, superstite ancora per poco in li ­bertà d’una banda di rapinatori, offre al suo persecutore un vero tesoro in contanti e preziosi, e insieme se stes ­sa, è l’anonimo operatore di una gran ­de agenzia americana d’investigazio ­ni, la Continental Detective Agency.

E’ lui a raccontare la propria avven ­tura in Attacco a Couffignal, e, rife ­rendosi alla propria persona e al pro ­prio operato, non fa troppi compli ­menti. In poche parole si descrive co ­me un tipo non esattamente attraen ­te, piuttosto tozzo, sul quintale, né esageratamente acuto né esagerata- mente svelto, un tipo indubbiamen ­te normale, quasi banale. Si esalta ap ­pena nella risposta all’offerta della bella donna, si esalta non tanto per se stesso quanto per il suo mestiere, il mestiere che pratica come uno sport, lo sport della caccia. E’ un cacciato ­re convinto, un cacciatore tenace, incapace di pentimenti, recriminazioni.

Quando la bella donna, dato che è finito per terra, con una caviglia rot ­ta e persino la gruccia rubata a uno zoppo spezzata, pensa di potersi allontanare, sicura che il suo persecutore non avrà il coraggio di spararle addosso, lui le spara in un polpaccio. La bella donna cade, seduta, la faccia bianca esprime la massima sorpresa, è troppo presto per il dolore. Lui non aveva mai sparato a una donna, è la prima volta, ammette di sentirsi quasi male. Quasi. Comunque, si sarebbe sentito sicuramente peggio, se avesse lasciato andare la sua vittima. In tal caso, avrebbe tradito il suo istin ­to, l’istinto della caccia.

Attacco a Couffignal fa parte, con altri nove racconti, di un grosso volume, cui l’editore italiano, Mondadori, ha appunto imposto il titolo L’istinto della caccia. I migliori dieci racconti di Dashiell Hammett, il maestro indiscusso dell’« hard-boiled-school », l’uomo che quarant’anni fa rivoluzio ­nò la narrativa poliziesca, sostituen ­do l’azione alla riflessione, la dinami ­ca all’analisi, la violenza alla persua ­sione. Ora che la scuola dei duri, la scuola all’americana, ha fatto il pro ­prio tempo, e che gli iperbolici agen ­ti segreti inglesi hanno ristrappato agli spietati poliziotti privati ameri ­cani quel primato che era già stato degli infallibili investigatori dilettan ­ti inglesi, ci pare si possa tentare la verifica di quali resistano di tanti te ­sti, di chi resista di tanti autori.

Dashiell Hammett, nato nel Mary ­land nel 1894, aveva esercitato i me ­stieri più disparati, da fattorino a im ­piegato, avanti di trovare quello che veramente si addiceva al suo istinto come operatore della Pinkerton. Ma, durante la prima guerra mondiale, cui aveva partecipato come sergente, aveva contratto una grave malattia polmonare che lo aveva fatto ricove ­rare per lunghi periodi in vari ospe ­dali militari. Riprendere il lavoro per la Pinkerton non era stato molto faci ­le, e intanto Dashiell Hammett aveva cominciato a scrivere.

Sino all’avvento di Dashiell Ham ­mett, la scena della narrativa polizie ­sca era stata dominata dalla scuola in ­glese. Sebbene a inventare il sottoge ­nere fosse stato il poeta americano Edgar Allan Poe, nel 1841, con Gli as ­sassini di Rue Morgue, la prima delle troppo poche avventure dell’analitico cavalier Auguste Dupin, i prototipi dei personaggi e gli schemi fissi di svolgimento erano stati senza dubbio codificati dal medico inglese Arthur Conan Doyle, nel 1886, con Uno stu ­dio in rosso, la prima delle persi ­no troppe avventure dell’onnisciente Sherlock Holmes, e, a qualsiasi nazio ­nalità fossero ascrivibili gli imitatori di Arthur Conan Doyle e su qualsiasi sfondo si accampassero gli epigoni di. Sherlock Holmes, la narrativa poli ­ziesca si era da allora conformistica ­mente attenuta alle regole inglesi.

Per rispettare i termini del proble ­ma, l’autore sarebbe stato tenuto a fornire al lettore come al protagoni ­sta i particolari necessari a mette ­re insieme la soluzione; ma quanti dei narratori polizieschi tradizionali rispettavano questi termini? La mag ­gioranza dei narratori polizieschi tra ­dizionali, preoccupati dall’idea che, ove il lettore avesse indovinato subi ­to l’identità del colpevole, si sareb ­be disinteressato della loro opera, ri ­correvano a ogni mezzo pur di disto ­glierne l’attenzione dalla direzione giusta. Quando nel 1920 Dashiell Ham ­mett cominciò a scrivere le sue sto ­rie poliziesche senza arzigogoli, così tese, rapide, rozze all’apparenza, com ­pì una rivoluzione, e il sottogenere si divise in due.

Una scena di « Giungla d’asfalto » di John Huston, il più famoso film sul gangsterismo girato negli anni cinquanta. L’interprete prin ­cipale era Sterling Hayden; vi recitava per la prima volta in una parte di fianco la Monroe.

Raymond Chandler, l’unico vero al ­lievo di Dashiell Hammett nella scuo ­la dei duri, il suo continuatore e il suo eversore, sostiene nel saggio La semplice arte del delitto che le trame dei narratori polizieschi tradizionali non sono problemi dal punto di vista intellettuale, allo stesso modo che i loro scritti non sono opere dal punto di vista artistico. « Sono troppo inge ­nui e macchinosi, e troppo poco con ­sapevoli di quanto va accadendo nel mondo. Tentano di essere onesti, ma l’onestà è un’arte. Il cattivo scritto ­re è disonesto senza saperlo, lo scrit ­tore relativamente bravo può essere disonesto perché non sa a che propo ­sito dovrebbe esercitare la propria onestà ».

Secondo lui un complicato piano d’omicidio che ha lasciato con un pal ­mo di naso il lettore pigro che non vuole starsi ad annoiare con l’analisi dei particolari lascerà con un palmo di naso anche la polizia, il cui preciso compito consiste appunto nell’occuparsi dei particolari. Ma se i narrato ­ri di questo genere descrivessero i delitti che accadono veramente, sa ­rebbero costretti a dare alle loro opere il sapore della vita vissuta. E poiché non ne sono capaci fingono di crede ­re che quanto fanno è quanto deve es ­sere fatto.

Hammett, invece, ha tolto il delitto dalla campana di vetro, e l’ha gettato nei vicoli. Hammett da principio e sin quasi alla fine ha scritto per quel ­li che prendono la vita di petto, ag ­gressivamente. Questi non avevano paura dei lati neri dell’esistenza, vec ­chie conoscenze per loro. La violenza non li sgomentava: era ordinaria am ­ministrazione nel loro quartiere. Hammett ha restituito il delitto alla gente che lo commette per ragioni vere o solide, e non semplicemente per fornire un cadavere al lettore… ». La forza di Dashiell Hammett sta tut ­ta, dunque, nel suo fedele riportare sulle pagine una realtà che conosceva per personale esperienza?

Una tesi troppo facile, troppo evi ­dente per risultare consigliabile. La esperienza personale non basta a spie ­gare perché Dashiell Hammett sia sta ­to effettivamente uno scrittore. Anzi, rischia di confondere le idee. E’ per questo che, nonostante tutto, trovia ­mo più interessante il decimo raccon ­to della raccolta L’istinto della caccia.

Nei primi nove scritti tra il 1920 e il 1930 e apparsi quasi tutti su Black Mask a parlare, come abbiamo detto, è l’anonimo operatore della Continen ­tal Detective Agency innamorato del proprio mestiere, ma nel decimo, che poi non è un vero racconto, è piutto ­sto il brano d’un romanzo lasciato in ­terrotto in giorni molto vicini alla fi ­ne, Tulip a parlare è lui, Dashiell Hammett stesso, Pop. Sono lontani i giorni in cui Pop, appena dimessosi dalla Pinkerton per ragioni di salute, scriveva le sue prime storie per il capitano Shaw. Sono lontani i giorni in cui i suoi romanzi imponevano la leggenda del detective americano più duro del gangster chiamato a combat ­tere, Red Harvest, 1929, The Maltese Falcon, 1930, The Glass Key, 1931, The Thin Man, 1932, il detective che era anche un poco gangster, il gangster che poteva essere detective, il perso ­naggio destinato a incarnarsi nella faccia, nei modi, nella roca, arrogan ­te malinconia di Humphrey Bogart.

Sono lontani i giorni dei grandi gua ­dagni e delle grandi spese, delle grandi bevute e dei grandi amori, i giorni sulla breccia. La vena si è ina ­ridita, le forze si sono logorate, i pol ­moni sono tornati a soffrire. Per chis ­sà quale orgogliosa scommessa con il destino, Dashiell Hammett è riuscito ad arruolarsi come soldato semplice per due anni, durante la seconda guerra mondiale, ma nel 1951 è an ­dato in carcere per essersi, insieme con altri due amministratori del fon ­do cauzioni del Civil Rights Congress, rifiutato di rivelare i nomi dei sotto- scrittori. Non ha più speranze, se mai ne ha avute, non ha più illusioni se mai ha saputo nutrirne. E così usa in Tulip la prima persona per se stesso, non per il suo anonimo eroe.

E’, dunque, uno scrittore a parlare. O si sarebbe più nel giusto, dicendo che a parlare è un ex-scrittore? Pop, mentre a stagione della caccia finita, vaga ancora in campagna con il fuci ­le, sostenendo che si può sempre sparare ai corvi, e spiando una volpe rossa tra le more selvatiche, è rag ­giunto da Tulip, un suo equivoco co ­noscente di una volta. Tulip irrompe nella delusa, privata, povera vita di Pop con un petulante chiacchieric ­cio, un incalzare di pretese, la più in ­sistente tra le quali è che lo scrittore utilizzi per i prossimi libri quello che gli narra lui. L’esperienza di Tu ­lip? E cosa potrebbe farsene Pop? Se Pop non utilizza neppure la propria, di esperienza, per scrivere. « E ba ­da » dice Pop, « che ho fatto un paio di guerre, o almeno sono stato sotto le armi durante due guerre, ho bazzi ­cato le prigioni federali, ho avuto la tubercolosi per sette anni, mi so ­no sposato quante volte ho voluto, ho avuto figli e nipoti, e, eccetto che in un grazioso ma sconclusionato rac ­contino a proposito di un tisico che dal suo ospedale vicino San Diego se ne va a Tijuna per un pomeriggio e una serata di libertà, non ho mai scritto una sola parola su tutte queste cose. Perché? Posso solo dirti que ­sto: perché non sono roba per me. Forse non lo sono ancora, ma può an ­che darsi che non lo saranno mai. A volte, ogni tanto, mi ci provavo, e con impegno, ti dirò, come del resto in una quantità di cose che faccio, ma fi ­nivano con il non rappresentare mai niente ai miei occhi… ».

« Tutte le cose che ti sono capitate non sono servite a niente », replica Tulip, risentito, dopo avere ancora cercato di esitare la propria mercan ­zia. « Sono capitate al tipo sbagliato. Tu sei convinto che tutto dev’essere filtrato dal cervello, e, invece, le cose s’appiattiscono, quando ti ci scervelli sopra… ».

« Tu e le tue immature emozioni che non sopportano il peso del ragio ­namento » protesta Pop, « Nessun sen ­timento è veramente forte se non re ­siste alla logica. Come un ubriacone che picchia la moglie, e piange su un qualsiasi passerotto zoppo… ».

Tulip non è finito. Negli ultimi anni Dashiell Hammett non aveva pro ­prio più le forze per lavorare. La mor ­te arrivò all’inizio del 1961. Cancro ai polmoni, scoperto solo due mesi pri ­ma. Lillian Hellman che gli fu accan ­to sino alla conclusione non ebbe il coraggio di dirglielo. Dashiell Ham ­mett, per conto proprio, si diagno ­sticò un reumatismo al braccio de ­stro, e dichiarò che per questo motivo doveva rinunciare ad andare a caccia. Ma una sera la donna lo sorprese con gli occhi bagnati e chiuso il libro che avrebbe dovuto leggere. Gli chie ­se: « Vuoi parlarne?… ». Quasi con stizza, Dashiell Hammett rispose: « No, il mio unico scampo è non parlar ­ne… ». Si metta insieme la commossa testimonianza della fedele amica con il nitido documento di Tulip. L’espe ­rienza personale non basta a spiega ­re il fatto che uno sia effettivamente uno scrittore, e il fatto di essere ef ­fettivamente uno scrittore non ba ­sta a spiegare l’esperienza personale.

Occorre scegliere la parzialità, la riduzione, la limitazione dello stile, l’unico modo per catturarne almeno un poco, della realtà.

Lo stile di Dashiell Hammett, quello che non ha capito Edmund Wil ­son e che, invece, hanno capito tanti altri, da André Gide a Ernst Heming ­way, è una trappola con la quale il suo istinto della caccia coglie più d’un risultato.

La caccia alla realtà è difficile.

Meno comoda, meno piacevole, me ­no sportiva di quella a un delinquen ­te o alla soluzione di un enigma.


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