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LETTERATURA: I MAESTRI: Leonida Rèpaci

3 Dicembre 2015

di G. A. Cibotto
[da “La Fiera Letteraria”, numero 9, giovedì 2 marzo 1967]

Prima ancora di sentire la sua voce attraverso il filo telefonico, ho udito il ruggito di Leonida Rèpaci inondare di cupi brontolìi l’appartamento romano dove vive fra libri e quadri che farebbero invidia ai collezionisti più raffinati. E le sue prime parole sono state, « ma guarda che io con la Fiera ho il dente avvelenato, perché nelle ultime stagioni mi avete trattato piuttosto male ». Dopo aver incassato il suo sfogo, gli ho risposto che proprio per questo motivo, per essere stati dei carissimi nemici mi sem ­brava opportuno inserire il suo personaggio nella galleria di attori maggiori e minori della nostra letteratura, che vado intervistando non senza una punta di polemica franchezza ormai da anni. Tanto più che sul « Viareggio » corrono le voci più strane, di finanziamenti ora strepitosi, ora vacillanti, di sostituzioni certe e poi respinte nella complicata giuria, di mutamenti di date. Gli ho detto chiaramente ciò che gli altri mor ­morano sottovoce, provocando una sparatoria contro mezza letteratura nostrana, non sempre a mio avviso motivata.

Ma così è fatto l’uomo, che trascinato da un temperamento sanguigno il più delle volte non sa resistere alla tentazione di trasformare la penna in una spada con la quale fare giustizia dei torti subiti, che gli sembrano sempre troppi e insostenibili. Specie adesso che vive piuttosto isolato, e non si arrende alle cadenze di un tempo, abituato a diffidare degli slanci emotivi, che invece lui continua a stimare il bene più alto.

So non sbaglio sono quasi cinquant’anni che stai lavorando in sede narrativa (« L’ultimo Cirenèo » reca la data 1923) con un fervore e un impegno capa ­ci di dare dei punti agli stes ­si giovani. Prova ne sia che stai proprio in questi giorni termi ­nando una specie di galoppata che dovrebbe superare il mi ­gliaio di pagine.

Eppure, se passo in rassegna la fitta bibliografia riguardante la tua opera, mi sembra che i giudizi, anche se positivi (e non sono pochi) siano quasi sempre venati di un certo opportuni ­smo e non rivelino mai uno slancio autentico, una adesione completa. Che ne dici?

Alla prima domanda potrei ri ­spondere pregandoti di leggere quel « Ritratto su misura » da me scritto nel ’59 e incluso da Accrocca nel volume edito dal ve ­neziano Sodalizio del Libro. Se tengo conto dei nemici, cinquan ­ta ogni anno, duemila, e tutti qualificati, per i 40 anni del « Via ­reggio », il quale si ostina, con pervicacia, a non premiare tutte le ambizioni sbagliate non mi

posso, in assoluto, lamentare del ­la critica. In ogni tempo, da Sil ­vio Benco che recensì, per pri ­mo, I fratelli Rupe ad Alberto Bevilacqua che si occupò recen ­temente de Il caso Amari, ho avu ­to amici che hanno dimostrato simpatia per la mia opera. Il saggio di Francesco Flora « Fan ­tasia e linguaggio di Rèpaci » ; quello di Debenedetti « Introdu ­zione al dibattito sul Deserto del sesso » ; quello di Ravegnani « Importanza di Rèpaci » nel pri ­mo omnibus mondadoriano dei Rupe; infine l’imponente raccol ­ta di saggi, di giudizi, di « omag ­gi » in « Rèpaci controluce »: mi coprono le spalle e mi servono a neutralizzare l’indifferenza che i Baldacci, i Bo, i Bocelli, i Falqui, i Ferrata, i Montale, segui ­tano a dimostrarmi, e che io mi sforzo di aiutare non mandando più, da Amore senza paura in qua, i miei libri ai critici. A pro ­posito di questo romanzo che ha trovato come presentatori a Mi ­lano Debenedetti, Piovene e Valiani, e Ravegnani a Roma, men ­tre, in sede strettamente critica, Grillandi e Salveti sono quelli che l’han capito di più, posso dir ­ti che anche Montale l’aveva tro ­vato « molto spiritoso », tant’è che sarebbe stata naturale una sua nota, almeno quella, sul Cor ­riere. Invitato da me a buttar ­la giù egli fu talmente meravi ­gliato che io potessi pensare a un’operazione del genere da par ­te sua che finii col meravigliarmi io stesso della mia ingenuità. E pensare che, sotto il fascismo, per recensire, sullo stesso Cor ­riere, una mia tragedia rappre ­sentata nel ’25, Renato Simoni non si era contentato di siglare r. s. ma aveva firmato per este ­so due colonne col nome e co ­gnome! Sempre restando al ma ­gno Corriere, Rèpaci, nella pagi ­na diretta da Emanuelli non pas ­sa, non diciamo per un articolo, ma neppure per una notizia di lavoro. Egli è sulla famigerata « linea peste », o sulla colonna, come un martire stilita, anche per il faceto televisivo Silori. E inesistente è anche per i titolari dell’Approdo letterario, così bra ­vi, quando occorra, nel far le ta ­gliatelle in casa più con l’acqua che con le uova. E anche per i critici della Fiera Letteraria i miei libri seguitano a non esse ­re. Se tolgo un bell’articolo di Virdia, uscito una decina di anni fa sul Riccone, da allora io sono per la Fiera un ibernato. Non importa. Ibernato e lavorante al tempo stesso. I miei libri passa ­no i quaranta. Sarebbero assai di più se, negli anni successivi alla liberazione, invece di parte ­cipare alla battaglia democrati ­ca per la ricostruzione della Na ­zione distrutta, avessi coltivato il mio orticello letterario. Mentre io mi impegnavo politicamente in toto gli altri badavano a oc ­cupare posizioni che avrebbero consolidato negli anni avvenire, creando autentici gruppi di pote ­re letterario.

 

Altro argomento che mi sem ­bra degno di essere analizzato con attenzione, è quello della tua battaglia sul problema me ­ridionale. Sei stato fin dagli ini ­zi per ragioni che vanno dalla tua natura sanguigna alla tua formazione spirituale, uno dei primi che hanno impresso alla pagina il carattere di una de ­nuncia illustrando situazioni, ca ­si, avvenimenti con una veemen ­za « garibaldina ». Ancora con ­tinui, sul filo di una tenacia e di una fedeltà che rischiano ad ­dirittura di diventare anacroni ­stiche. Nei vari bilanci però sulla narrativa cosiddetta impe ­gnata, si fanno quasi sempre al ­tri nomi che ritengo inutile elen ­carti, e il tuo viene volutamen ­te ignorato sotto l’accusa di naturalismo. Accusa piuttosto faci ­le, non ti pare?

 

Permettimi intanto di notare la cordialità con la quale tu pre ­senti le domande. Esse conten ­gono tra le righe una mezza ri ­sposta e fanno di te un benevolo avvocato del diavolo, un « partoritore » della proporzione lette ­raria. Passando al merito ti di ­rò che, come narratore impegnatissimo, le vedute parziali e sofi ­stiche (Ulisse) d’un Bellonci, di un Garosci, d’una Guiducci, rin ­tuzzate efficacemente da Rave ­gnani che accusò i tre sapienti di colpevole dimenticanza nei miei riguardi, non son riuscite a scoraggiarmi, anzi mi hanno acceso, per reazione, un furore creativo che non trova troppi esempi nella nostra narrativa. Sullo stesso piano metto i sag ­getti di Rea e di Crovi, quest’ul ­timo ricredutosi al punto di di ­chiararmi di considerare il Rupe un classico. Non saranno le loro esclusioni a mettermi fuori dalla battaglia meridionalistica alla quale ho dato decine di romanzi e racconti, e, negli ultimi anni, due saggi-racconto come II Sud su un binario morto e Calabria grande e amara. Se io non fossi nato in Calabria non sarei diventato uno scrittore, e ciò ti dica quale parte ha il ritardo della terra natale sulla mia fatica.

Che io sia accu ­sato di naturalismo risum teneatis? Si legga il terzo libro dei Ru ­pe, il lungo racconto « Mani » de La tenda rossa, tutti i racconti di Compagni di navigazione, tut ­to Rèpaci giramondo, il Riccone, il Deserto, Amore senza paura e Il caso Amari, e si avrà un’idea dello strano concetto che i miei « silenziatori » si fanno del natu ­ralismo. Un romanzo come Amo ­re senza paura è naturalista co ­me è naturalista La città del so ­le di Campanella. E qui altre pa ­role non ci appulcro.

Nella tua ormai lunga e atti ­va esistenza d’uomo di cultura, il teatro ha avuto un peso ri ­levante. Sei stato infatti autore di successo e poi critico auto ­revole e battagliero. Senonché da tempo hai abbandonato il mon ­do del palcoscenico e assai di rado sei presente alle manife ­stazioni che scuotono la sonno ­lenta vita culturale nostrana. Da che cosa è nato il tuo improv ­viso voltafaccia, da stanchezza, amarezza, desiderio di ritirarti sotto gli olmi dei ricordi?

Il teatro resta il mio gran ­de e deluso amore. Dopo La ma ­dre incatenata, rappresentata con eccezionale successo a Milano nel ’25, mi presagivano un grande avvenire come autore teatrale, e G. A. Borgese era tra questi pro ­feti disarmati. Invece fui messo, appena due mesi dopo, in galera, per strage e complotto contro il regime e ciò impedì alla Madre di far la sua strada. Tra l’altro essa non è mai stata rappresen ­tata a Roma. Diedi, fra tragedie commedie miti e moralità, ben sette lavori, associando alle mie rappresentazioni i cari nomi di Petrolini, di A. G. Bragaglia, di Pilotto, della Sperani, di Marcac- ci, di Bernardi, di Becci, della Magnani, e altri. Ho anche fatto critica drammatica per anni sull’Illustrazione italiana, su Paese Sera, su Vie Nuove; ho riscritto i miei lavori, non risparmiando neppure La madre incatenata, alla quale ho aggiunto addirittu ­ra un atto; ho riscritto La Vam ­pa, alla quale ho aggiunto due « sogni » e dato un nuovo titolo Favola di Martino-, ho nel cas ­setto, da quindici anni, una com ­media nuova, Questo nostro tem ­po, che attende di essere rappre ­sentata. Vito Pandolfi ha recen ­temente affermato in un suo ar ­ticolo sull’Avanti! che io sono un autore da ricuperare per il teatro, tuttavia invano ho atteso di vedere qualche mio lavoro nel suo cartellone. Il risultato di que ­sta difficoltà a farsi rappresenta ­re, se non si fa parte di un certo giro, è che ho dovuto, mio mal ­grado, lasciare il teatro e volger ­mi ad altri interessi. Posso tutta ­via annunziarti, caro Cibotto, che, tra qualche settimana, uscirà un mio volume di oltre mille pagi ­ne, Teatro di ogni tempo, che rac ­coglie tutta la mia critica dram ­matica e un lungo discorso sul teatro ultimo. Già te lo affido per una recensione.

E passiamo al tema scottante del « Premio Viareggio », che mi sembra costituisca una specie di « croce e delizia » della tua battagliera esistenza. An ­che perché quando si tratta di annunciare ad un concorrente la vittoria i tuoi colleghi hanno la buona abitudine di precederti telefonicamente attribuendosi il merito della scelta, e quando al contrario le faccende si metto ­no male tutti scaricano sulle tue spalle la responsabilità. Non so per quale ragione, da tempo stan ­no accavallandosi notizie alquanto confuse su nomi di critici e scrittori che dovrebbero servire a un radicale mutamento della giuria. Risponde a verità?

Anche questa domanda rivela la tua amichevole apertura ver ­so di me. E’ proprio vero che i successi del « Viareggio » vanno ai pièveloci telecomunicandi men ­tre gl’insuccessi sono addebitati volentieri a me. Ma ormai, abi ­tuato come sono a questi escamotages, non me la prendo più. Accetto come cosa naturale di non ricevere un biglietto d’augu ­rio a Natale da chi qualche me ­se prima ha avuto a Viareggio

la più bella soddisfazione della sua vita. Mi stimo fortunato se chi prende il premio si viene a congedare da me prima di lascia ­re la Versilia.

E’ esatto che la giuria del « Via ­reggio » è in movimento. Sono stati chiamati a farne parte per il prossimo biennio scrittori di gran nome mentre altri, pari- menti qualificati, non rientreran ­no nella compagine sia per le lo ­ro dimissioni dopo il gesto di Al ­berto Mondadori, sia perché trop ­po strettamente legati a interes ­si editoriali. Da questo lato vo ­gliamo inaugurare un nuovo corso ultraintransigente, stanchi come siamo di dare esca a una stampa malevola che vuole solo crearci delle difficoltà e scorag ­giare i finanziatori. Penso che su 21 membri , della giuria ci saran ­no almeno 5 sostituzioni. Potrei farti dei nomi ma preferisco ri ­servarmeli per la prossima con ­ferenza stampa. Anche perché tutto potrebbe cambiare all’ulti ­mo minuto, costretti come siamo a muoverci su un terreno minato, innescato sulle componenti della nostra società letteraria.

 

Sempre in tema di « Viareg ­gio », non ti pare che sia tempo di ritornare alle origini e, inve ­ce di premiare in termini di « consacrazione » (per questo ci sono il « Marzotto », il « Premio dell’Accademia dei Lincei » ecc.) autori già famosi, con particola ­re riguardo ai docenti universi ­tari, si ritorni a indicare poeti e narratori che rappresentano la letteratura di domani? Insomma di buttare via le vesti palu ­date e di diventare una mani ­festazione più giovane, coraggio ­sa, spregiudicata. C’è ormai bi ­sogno estremo di cambiare aria in questa arcadia che si chiama letteratura italiana.

Restando al tema del « Viareg ­gio » ti dirò che la spinta a « far giovane » è stata sempre forte nella lunga storia del Premio. Era giovane nel ’46 Micheli quando divise il Premio con Saba; gio ­vane, eternamente giovane, Gram ­sci nel ’47; giovane la Morante nel ’48 ex-aequo con Palazzeschi; giovani nel ’49 De Libero, la Vi ­gano, (Ugo) Moretti e Zagarrio (Biagio); giovani nel ’50 Jovine e Bernari, Mila e Piovano; gio ­vani nel ’51 Rea, Zangrandi, Venturoli e Sissa; giovani nel ’52 Caproni, la Banti, Venturi (Mar ­cello); giovani nel ’53 la Ortese, Battaglia, Carrieri, Rigoni-Stern ; giovani nel ’54 Scotellaro, Lupo ­rini, Carocci (Giampiero); gio ­vani nel ’55 Pratolini e Russo (Giovanni); giovani, se pur mo ­deratamente, nel ’56 Carlo Levi e la Manzini con Niccolò Tucci co ­me elemento di rottura; giovani nel ’57 Pasolini, Calvino, la Ginzburg, Del Vecchio, la Giacobbe; giovani nel ’58 De Martino, Lan- dolfi, Marotta, la Fazzini e Pas ­seri; giovani nel ’59 Caproni e Boffa; giovani nel ’60 Volponi e Saviane. Negli ultimi anni il Pre ­mio è andato a Moravia, Bassani, Delfini, Berto, Parise, Gatto, Ottieri, i quali non son certo vecchio ­ni. E allora? Basta il venerando nome di un Manara-Valgimigli, quello di Giorgio Levi della Vi ­da, di Eugenio Levi, di Angio ­letti, di Moretti (Marino), di Pa ­lazzeschi, di De Filippo (Eduar ­do) di Garin, di Ravegnani, di Quasimodo, di Villaroel, a quali ­ficare come « vecchio », come « commemorativo », il « Viareg ­gio »? Mi ribello a queste sem ­plificazioni. Il « Viareggio » non fa questione di anagrafe perché il genio creatore non ha età. Per me lo scultore di Venere Cirenea è più giovane di Pomodoro, di Lardera, di Hoflehner, di Chillida. E, se sbaglio, perdonami, ca ­ro Cibotto. Comunque, sensibili come siamo al grido di dolore che parte dalle nuovissime leve, ti dirò che ho in mente di ripri ­stinare i premi « opera prima » per le due sezioni. Se riuscire ­mo ad attuare anche questa ri ­forma per l’anno in corso avre ­mo acquistato un altro titolo al ­la tua simpatia.  

Quali opere hai attualmente in preparazione oppure allo stato di progetto? Ho sentito dire che la tua già nutrita bibliografia sta per arricchirsi di almeno tre o quattro nuovi titoli…

Non si tratta di opere allo sta ­to di progetto ma di libri di im ­minente pubblicazione. Sta per uscire presso Ceschina Teatro di ogni tempo, cui ho già accenna ­to, mentre per i tipi dell’editore Fazzi uscirà, malgrado l’alluvio ­ne di Firenze che ha bevuta tut ­ta la prima edizione, la repli ­ca di Taccuino segreto, aggior ­nato al ’50. Entro l’anno verrà iniziata la pubblicazione dei Ru ­pe in 4 volumi, circa 4000 pagi ­ne complessive. Di questa gran ­de fatica Che si propone di ri ­percorrere la storia del nostro se ­colo attraverso la vicenda di una famiglia calabrese, Mondadori ha già in mano i primi tre volumi. Sto intanto lavorando al quarto che spero di consegnare entro l’autunno. Proprio in autunno uscirà presso Mursia un’antolo ­gia da me curata in collaborazione con Antonio Altomonte sulla narrativa calabrese, dal Padula a oggi. Ultimati i Rupe non mi re ­stano che due cose da fare. La prima è dare a un editore un grosso romanzo già scritto dal ti ­tolo Estella diamante, che non fa parte dei Rupe ma si muove nel loro solco. La seconda è di scrivere la storia del « Viareg ­gio », ciò che equivale a puntua ­lizzare l’apporto del nostro Pre ­mio sullo sviluppo della lettera ­tura italiana negli ultimi quarant’anni. A questo punto mi fermo per non farmi lapidare da te che mi sei amico, ma sempre portato ad aggiornare la famosa domanda di Cicerone nella pri ­ma Catilinaria: « Quousque tan ­dem, Rèpaci, abutere patientia nostra? ».


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