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LETTERATURA: I MAESTRI: Prezzolini. Il professore «emerito » era autodidatta

8 Dicembre 2015

di Luce d’Eramo
[da “La Fiera Letteraria”, numero 10, giovedì 9 marzo 1967]

Partita da Roma alle nove del mattino, ho percorso l’autostrada fino a Napo ­li e, proseguendo per Saler ­no, appena si arriva sulla costie ­ra amalfitana si vede Vietri che risalta sul mare.

Per trovare la casa di Prez ­zolini ci ho messo un po’ di tempo, nonostante le spiega ­zioni particolareggiate ch’egli m’aveva dato per lettera e poi ripetuto per telefono. Prezzo ­lini era stato per me uno di quegli autori « importanti » (e generalmente si dice così quan ­do non si conosce la ragione esatta dell’importanza), aveva diretto con Papini La Voce, era stato uno dei protagonisti dell’ambiente italiano di mez ­zo secolo fa; scrive tuttora sui giornali articoli originali e spregiudicati. Inoltre avevo let ­to una sua Vita di Niccolò Ma ­chiavelli fiorentino, che m’era piaciuta molto. Ma di più non sapevo e m’immaginavo di tro ­vare un vegliardo rugoso e mi ­nuto, come generalmente ci si raffigura un veterano della let ­teratura.

La lingua di Webster

Già la casa ha cominciato con lo sconcertarmi. Prezzoli ­ni abita in una casa « popola ­re » di quelle che son qui co ­strette a stare appiccicate al ­la roccia, un appartamentino sopra l’altro, non casettine, ma cassettine; che formano una gradinata, in modo che la ter ­razza d’un appartamento serve da tetto dell’appartamento di sotto; e da quello di Prezzoli ­ni, che sta in cima agli altri, si vedono altre terrazze, e poi un. orizzonte vasto di mare che comprende tutta la baia di Sa ­lerno, la città, curva come uno spicchio roseo di lana, e i mon ­ti Lattici, smerlati come una sega fino alla punta di Capo d’Urso protesa nel mare come un bastione avanzato. Ma nei giorni di bel tempo (ieri non era bello) si deve vedere la costa dov’è Paestum e le mon ­tagne del Cilento. Siamo en ­trati da una porta posteriore che s’apre su uno stretto an ­drone, con scale ripide.

Una voce di donna dall’ac ­cento anglosassone ci dice di salire.

Penetriamo in un apparta ­mento luminoso, arredato con estrema semplicità; ci fanno accomodare in una stanza con una macchina per scrivere su un vasto tavolo coperto di car ­te, sulla parete uno scaffale a muro di acciaio carico di libri di consultazione, ma non fino al soffitto, un divano letto in un angolo, una grande finestra che dà sul mare, un grande apparecchio radio, e sopra un leggio, aperto come un Messa ­le, un librone che credevo la Bibbia e invece era il dizio ­nario americano della lingua del Webster.

Entra Prezzolini che ci pre ­senta sua moglie, snella e gen ­tile, la signora che ci aveva invitato a salire. E’ un uomo di statura normale, dalla fron ­te liscia e dal viso fresco, qua ­si nordico; rientra dalla sua passeggiata mattutina e ci ac ­coglie in maglione, asciutto, agile, i grandi occhi azzurri ci guardano cordiali e distaccati dietro le lenti. Parla un italia ­no accentato, sembra quasi uno straniero che soggiorni da lun ­go tempo in Italia; ma quan ­do glielo dico mi osserva che serba ancora, quando vuole, l’accento toscano della sua fa ­miglia senese per generazioni, e dice che è piuttosto l’accen ­to d’un insegnante abituato a parlare a stranieri, è un accen ­to scandito con terminazioni nette e poche liaisons.

La conversazione all’inizio è impacciata e si parla dell’Ame ­rica. Prezzolini ha abitato sta ­bilmente negli Stati Uniti dal ’29 al ’62, è stato fino al ’50 professore alla Columbia Uni ­versity. Data la presenza di mio figlio universitario, il pri ­mo soggetto di conversazione è stato l’ambiente universita ­rio americano.

« Sa, quando uno torna da ­gli Stati Uniti, subito gli ami ­ci gli domandano: ”Beh, come si sta in America?”, ma, a co ­sto di dire una banalità, l’Ame ­rica è immensa, e poi io, in particolar modo, non ho diret ­te esperienze che dell’ambien ­te della mia Università. Infat ­ti in quegli anni avevo, tra la biblioteca di New York e quel ­la dell’Università, più di tre milioni di libri a disposizio ­ne », lo dice con rimpianto e lo ripeterà ancora nel corso della conversazione, « e lì ho ristudiato tutto, mi sono rilet ­to i filosofi preferiti e i classi ­ci italiani; imparai persino il russo per poter scrivere un capitolo sulla fortuna del Ma ­chiavelli in Russia; credo che nessuna biblioteca italiana, tranne quelle di Roma e di Firenze, sia più fornita di libri della nostra letteratura. Ma ri ­torniamo all’argomento: i pro ­fessori americani sono molto competenti, hanno una gran ­de lealtà, onestà intellettuale, ma non hanno l’apertura, la varietà e ricchezza d’interessi dei loro colleghi europei, cul ­turalmente l’ambiente univer ­sitario è mediocre. I docenti non sono pagati molto rispetto alle altre professioni e non so ­no così importanti nella scala sociale come in Germania; per ­ciò molta gente è distratta dal ­la carriera universitaria. Pe ­rò lì il professore è veramen ­te tale, e deve far lezione, non come in Italia. Con l’ultima guerra l’Università americana si è migliorata, per l’emigra ­zione di grandi personalità del ­la cultura delle Università eu ­ropee, specie dalle facoltà scientifiche. Ricordo l’arrivo di Jaeger, l’autore di Paideia – la formazione dell’uomo greco, il più grande conoscitore di Ari ­stotele; accolsi Fermi, quando giunse negli Stati Uniti; duran ­te il mio insegnamento si tra ­sferirono laggiù Segrè, Bernar ­dini, Raselli, anche Santillana, altri ».

« Scusi, ma perché ha preso la cittadinanza americana? ».

« I motivi sono molti. In Ita ­lia molti fascisti mi conside ­ravano antifascista, la mia ami ­cizia con Croce, Amendola, Sof ­fici, De Bosis, Salvemini, che per un certo tempo fu collabo ­ratore de La Voce, non era molto ben vista, a parte quel ­lo che dissi del fascismo nella mia indipendente biografia di Mussolini pubblicata nel 1925 e ristampata nei 19G5. Invece all’estero mi consideravano di ­versamente perché mi rifiuta ­vo di parteggiare contro il fa ­scismo. E in America, quando Salvemini e Borgese tentarono di farmi espellere, accompa ­gnando una campagna giorna ­listica (la cattedra alla Colum ­bia faceva gola a parecchi), i miei colleghi americani sebbe ­ne di idee differenti mi difese ­ro, e questo fu assai bello da parte loro, non credo che mol ­ti in Europa sarebbero pronti a farlo. Su questo lei leggerà L’Italiano inutile â— e me ne regala una copia â—. Inoltre, ne ­gli anni passati in Francia, poi negli Stati Uniti, potevo vede ­re non dall’interno, ma dal ­l’esterno cosa si diceva del ­l’Italia, cosa se ne pensava (fu una dura esperienza assistere dal di fuori alla “bocciatura dell’Italia”), e allora feci lì, potendo avere una visuale mi ­gliore e più oggettiva, il mea culpa d’italiano. Proprio per gratitudine verso un Paese che per me era libero, che mi da ­va la possibilità di lavorare, spregiudicato per le mie opi ­nioni politiche, presi la citta ­dinanza americana ».

« Ma insomma che cosa vuol far sapere ai lettori della Fie ­ra? Perché se lei vuol inter ­vistarmi, deve avere un argo ­mento letterario che interessi quei lettori. Si scrive per un dato pubblico, non per i cento colleghi che stanno sempre a studiarsi tra di loro. Chi scri ­ve ha questo dovere verso chi compra il giornale: esser chia ­ro e parlare di cose che in ­teressino i lettori ».

Andiamo a tavola in una stanza una parete della quale è coperta da uno scaffale pie ­no di scatole marrone come quelle dei notai del tempo dei Promessi Sposi. Contengono sessantacinque anni di corri ­spondenza con Croce, Papini, Mussolini, e altri amici ora ce ­lebri, allora sconosciuti.

L’impiego stabile

Ci serve da mangiare una donna del luogo. Prezzolini, grave come un capo famiglia, fa le porzioni d’un appetitoso grosso pesce arrosto, e la si ­gnora ci porge le vivande pre ­murosamente. Tra una porta ­ta e l’altra me n’esco con la domanda che m’interessa di più, anche se molto vaga.

« Secondo lei, in che cosa è cambiato il mondo da cinquan ­t’anni a oggi? ».

« Prima di tutto lo Stato ha molto più potere oggi che una volta, tanto in Italia quanto in America; salvo che in Italia non lo esercita. Con l’accre ­scimento delle funzioni dello Stato, l’iniziativa privata ha un campo d’azione minore, do ­vunque ». Volevo fermarlo su quest’argomento, ma Prezzolini già salta a un argomento affine. « Una grande trasformazione degli Stati Uniti è che il gio ­vane non cerca più l’avventu ­ra, ma vuole l’impiego stabile. Appunto, perfino in America, ch’è tradizionalmente un Pae ­se individualista, succede len ­tamente quello che in Italia è una tradizione di secoli e che oggi da noi è diventato un fe ­nomeno impressionante. Leg ­gevo l’altro giorno che per 4.000 posti a 70.000 lire mensili, un ente parastatale ha bandito un concorso cui hanno partecipato 100.000 aspiranti. Ora anche laggiù i giovani preferiscono al rischio dell’iniziativa priva ­ta i posti governativi, la pen ­sione sicura, la poltrona, il pa ­ne senza incertezze. Prima in America la gente che cambia ­va residenza e lavoro era mol ­ta, tutto ciò era frequente, ades ­so lo è assai meno. E’ scompar ­so lo spirito di frontiera ».

« Un altro cambiamento è sta ­to la rivoluzione sessuale, ba ­nale a sentirsi ma sconcertan ­te a vedersi. Prima gli Stati Uniti erano una nazione essen ­zialmente e profondamente pu ­ritana. Si evitava di dire le “gambe” del tavolo, del piano ­forte, e le si copriva, non rida, è così, è vero? », dice volgen ­dosi alla moglie che annuisce. « Ora invece nelle più serie riviste d’America lei trova ar ­ticoli e libri con titoli Come godere il sesso nel matrimo ­nio, oppure L’amore per i ra ­gazzi, da un eccesso si è pas ­sati all’altro ».

Si ritorna alla cultura, si par ­la di opere, e Prezzolini ci fa vedere il libro « che abbiamo fatto », dice, rivolgendosi alla moglie. Si tratta della tradu ­zione fatta dalla signora Prez ­zolini del Machiavelli anticri ­sto apparso ora in America col titolo Machiavelli our contemporary.

Scovo nello schedario a mu ­ro i quattro volumi d’una sua fatica che apprezzo molto, il Repertorio bibliografico della storia e della critica della let ­teratura italiana dal 1902 al 1942, edito da Vanni di New York, citazione ragionata di tutti i libri scritti in quegli anni sulla nostra letteratura che furono recensiti in 200 ri ­viste critiche. Prezzolini l’ha compilato, dice, per abituare gli studenti a vedere come un problema si è sviluppato nel tempo contemporaneo. La sola bibliografia che valga la pena d’essere pubblicata, afferma, è quella ragionata. Ma, tastando i fogli, si rammarica della « carta orrenda » dei primi due volumi pubblicati in Italia.

« Le copie erano poche, e se la carta si consuma, mi dispia ­ce, perché il libro non sarà più utile ». Poi fa il confronto con i volumi americani stampa ­ti con carta resistente e tipi più evidenti. S’è dedicato a questo lavoro in due periodi, « quando m’è morto un figlio ­lo, e l’altro durante la guerra; è stato un modo di togliere la pena ».

« Un modo serio », commen ­to io.

« Scrivere, bere, la penna, il vino, sono tutti modi di eva ­dere. Non illudiamoci, noi intellettuali, d’essere superiori agli altri ».

« Però lei ha sempre scelto di “evadere” lavorando sodo », osservo io.

E lui, con una spallucciata: « Se ci fu una speranza, fu d’essere utile, anch’essa delu ­sa ».

Si ritorna alle rivoluzioni di costumi, e malinconicamente si giunge al senso sociale italia ­no, o meglio alla mancanza di esso, che non è mai cambiata.

Gli domando allora se non c’è un po’ di delusione per il fal ­limento di cento anni d’unità.

« Il fatto fondamentale è che il popolo italiano non è mai riuscito a formare uno Stato. L’attuale è sorto male, in un Paese che non sentiva l’unità.

Però un certo effetto sul popo ­lo italiano l’unità l’ha avuta, basterebbe vedere la sottoscri ­zione per Firenze alluvionata, eccetera. Ma negli uffici! Nei Paesi anglosassoni c’è un sen ­so sociale che in America si mantiene nonostante l’emigra ­zione latina. Anche questo pre ­gio ha il suo rovescio, per esempio, in molte Università si perde un gran tempo in ce ­rimonie, in visite, in parties, in riunioni vuote e noiose. La mia Università, per fortuna, era una delle meno afflitte da questo genere di perditempo ».

Prezzolini, come tutte le per ­sone che hanno studiato mol ­to un autore, ritorna a Machia ­velli, alla « virtù » e ad altri argomenti. Si arriva a parla ­re di Chabod e di Meineke.

« Chabod ebbe torto, quando volle ridurre le espressioni di Machiavelli al senso che ave ­vano allorché furono scritte. Fare la storia non è ricondur ­re le cose al significato che ave ­vano quando avvennero, ma riconoscere loro tutti i signi ­ficati di cui le abbiamo cari ­cate nel corso dei secoli. Per ­ché, vede, quando ci rivolgia ­mo ad altri, la parola è sem ­pre un’avventura, dobbiamo contentarci di supporre di es ­sere capiti, e in ogni caso dob ­biamo sempre contare una percentuale d’errori, di false interpretazioni, sia volontarie che involontarie, non si sa mai che cosa susciterà la parola che abbiamo lanciato nel mon ­do, se produrrà una valanga, se si poserà come una piuma pronta a volare di nuovo ». Si ferma sovrappensiero un istan ­te. E poi, con un sorriso: « Ora, siccome la storia non è altro che un effetto di comunicazio ­ni (in politica, in guerra, nel ­la finanza, nel costume), che cosa dobbiamo dire? Che la storia è l’effetto di una serie d’interpretazioni personali, di errori, di sconnessioni, di am ­pliamenti o di riduzioni? ».

Strano il modo di mescolar ­si di una mentalità europea con la filosofia pragmatista di Dewey, generando una sorte di problematica sofista, estremamente moderna in un’epoca di crisi come questa.

« Ci si capisce sempre ma ­le », riprende Prezzolini, « e forse la storia è fatta proprio di questo capirsi male. Anche adesso, le mie parole suscita ­no in lei qualcosa che non so cosa sia, parlare con gli altri è come un pescare, è un’esplo ­razione. Forse solo quando par ­liamo con noi stessi, per chia ­rire le nostre idee, per farci coraggio, per prepararci a un incontro con altri, o semplicemente per esprimerci, il lin ­guaggio è meno equivoco, an ­zi ci forma, lo sforzo per tro ­varlo diventa un atto educati ­vo, è un riconoscimento delle nostre trasformazioni. In que ­sto caso sappiamo esattamente che cosa “abbiamo”, che cosa “vogliamo”, dove si sta, e, se non siamo troppo orgogliosi, co ­nosciamo anche i nostri limi ­ti. Siamo quello che sappiamo dire a noi stessi ».

Ci accomiatiamo. Mentre mi allontano in macchina, leggen ­do il foglio biografico inserito nel volume e probabilmente scritto da Prezzolini stesso: « E’ un autodidatta: diventò capitano senza essere stato pri ­ma soldato, professore d’Università senza diplomi scola ­stici, capo di un ufficio della Società delle Nazioni senza concorso. … l’Università di Co ­lumbia, dove insegnò per vent’anni, lo nominò “professore emerito”, o come egli dice, “professore stanco”. Il che non toglie che ora, più che mai, gli sembri di soddisfare il deside ­rio più insolente della sua vi ­ta, che è stato l’indipendenza, che egli gode vivendo in mo ­do appartato nel piccolo bor ­go di Vietri sul mare presso Salerno »: penso a questa cop ­pia, a quest’uomo, che dal ­l’avanguardia del mondo s’è ri ­fugiato a Vietri, a 84 anni, an ­cora combattivo, e dove ap ­punto nel modo di vivere sem ­plice, modesto, egli è libero.


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Bart