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LETTERATURA: SCRITTORI LUCCHESI: Divo Stagi: “Il mio papà”

7 Novembre 2019

di Bartolomeo Di Monaco

Si legge, a proposito dell’autore: “Nasce il 28 aprile 1924 a Fagnano, da Agostino, agricoltore, e da Emma Baiocchi, operaia della Manifattura Tabacchi di Lucca.
È sposato e padre di due figli. Ha dedicato quarant’anni della vita lavorativa alla Cassa di Risparmio di Lucca dove ha ricoperto il ruolo di Direttore Centrale. Da pensionato, nella Parrocchia di S. Anna dove è vissuto per cinquantacinque anni, ha svolto attività di volontariato soprattutto nell’assistenza agli anziani. Appassionato di musica, ha diretto per tutta la vita cori parrocchiali ed è stato per diversi anni organista.
Si è sempre dilettato a scrivere dando vita ad alcuni volumetti che non sono stati pubblicati, ma offerti in dono ad amici. Tra questi ‘II mio papà’, una storia di emigrazione, poi pubblicato a puntate nella rivista ‘Lucchesi nel Mondo’.
È stato vincitore del premio “Custer De Nobili” a Coreglia Antelminelli per un raccontino in vernacolo lucchese. Attualmente abita in Via S. Donato a Lucca.”.

La campagna ad occidente della città di Lucca è lo sfondo costante della sua narrativa. Fagnano, il piccolo paese che gli ha dato i natali, distante pochi chilometri da Lucca, e che ha conosciuto un’antica civiltà contadina, ricca di tradizioni, ne è il perno.
A questo scrittore, che oggi ha 95 anni, Fagnano ha da donare la sua riconoscenza, poiché il piccolo mondo che l’ha caratterizzato, ed oggi scomparso, rimarrà, grazie a lui, nel tempo.
Recentemente un suo libro “Racconto della mia vita” (che si trova inserito anche nella mia raccolta: “Scrittori di guerra lucchesi”), uscito nel 2019, ci ha ricordato quei luoghi durante la Seconda guerra mondiale, insieme con le devastazioni, i lutti, le miserie che essa ha portato con sé, grazie a una scrittura avvincente in grado di restituirci l’esattezza degli eventi e la loro cornice storica e umana.

Il mio papà” è venuto prima, alla fine degli anni ’80, e attraverso la figura del padre il racconto rievoca suggestioni e illuminazioni di un modo di vivere che non c’è più, ma che fu, a dispetto della fatica materiale che lo distinse, ricca spiritualmente e felice.
Il racconto dimostra quanto l’aderenza alla natura, il suo rispetto, l’armonia della creazione e la sua congiunzione con un Dio creatore buono e generoso, siano alla base di un modello di vita che meriterebbe di essere rimpianto e, pur nell’accoglienza della modernità, replicato, poiché esprimeva, con leggerezza ed armonia, lo spirito in cui si trascorrevano i giorni, fecondi e solidali. Perfino la guerra non riuscì mai, nel mentre disseminava dolore, ad intaccarne ricchezza e esemplarità.

Mio padre era il più ricco tra i contadini della corte dove abitava. Si deduceva facilmente anche dalla quantità dei suoi raccolti, che era sempre di gran lunga superiore a quella degli altri contadini e ciò risultava ancor più evidente per il raccolto del granturco.
Nell’ottobre, appena finita la festa dello sfoglio, legava le pannocchie di granturco in grossi mazzi che poi appendeva a tralci di vitalbe che si procurava andandole a fare nel bosco e che disponeva poi in lunghe filze lungo la facciata della casa e della capanna.
A volte era costretto addirittura ad invadere anche una parte della facciata di casa di suo fratello Aniceto, l’unica che altrimenti sarebbe rimasta libera perché Aniceto, Capo del reparto falegnameria alla Manifattura Tabacchi di Lucca, non coltivava la terra e quindi non aveva né fagioli né granturco da appendere vistosamente alla facciata di casa.”.

Già questo incipit ci anticipa i profumi di quanto raccoglieremo con questa lettura. Lo stile è limpido, i ricordi asciutti e efficaci.
Quando occorre, l’autore lo arricchisce con una spinta discorsiva e popolare: siamo nella stanzetta dove si celebrava il rito dello sfoglio del granturco. Sono presenti Gustino il padre e i figli, che chiamava coi loro nomignoli: “Poi veniva l’assegnazione dei posti ed era sempre lui, chiamandoci con i nostri nomignoli, a dirci: Te, Segalina, mettiti là con lo staio e con questa seggiola che ha l’altezza giusta; te, Bazza mettiti qua con la quara e la panchetta che ci si munge; te Trasando prendi questo, te prendi quello… e te Poldo prendi la panchetta che ci si lava i panni, così ti ci metti a cavalcioni e con quell’aggeggio lì puoi scavicchia’ quanto ti pare; ma sta attento a non farti del male alle dita.”. Poldo è il soprannome che il Padre ha dato all’autore del libro.

Con la scrittura di Stagi non ci si annoia. Chi come me lo conosce vede una corrispondenza strabiliante tra il suo modo di scrivere e di parlare. È un invidiabile affabulatore e chi lo ascolta non vorrebbe mai che finisse il suo raccontare, adorno di ricordi così nitidi che appaiono come accaduti appena qualche giorno prima. Con una facilità che appartiene a pochi, ci trasporta nel passato facendoci provare la sensazione che esso appartenga anche al ciclo presente della nostra vita.

Questa parte occidentale della campagna lucchese, e il paese natale di Fagnano in specie, ha in Stagi il suo cantore, così come la parte orientale della Piana di Lucca lo ha in Giampiero della Nina, che ha fatto del suo paese natale, Porcari, l’epicentro simbolo di una realtà che non deve essere dimenticata.
Gustino, il padre di Divo, fece parte della lunga fila di emigranti che andarono fuori dall’Italia in cerca di fortuna, in Europa e perfino nelle Americhe, e racconta (è il figlio che lo trasforma nell’io narrante): “Avevo 16 anni quando nel 1899 mi resi conto che in Italia non era possibile trovare un lavoro adatto a me e decisi di emigrare in America seguendo l’esempio di altri miei paesani che erano partiti qualche anno prima e dei quali però si avevano scarse notizie.
I soldi per il viaggio me li trovò mio padre dietro la promessa che al più presto glieli avrei mandati perché potesse restituire il prestito.”.

Da notare il facile scivolamento, che avviene con una delicatezza e leggerezza mirabili, dell’autore nelle vesti del padre diventato nuovo io narrante. Vi si forma una corrispondenza e una congiunzione di anime letterariamente affascinanti. Attraverso il figlio, il padre torna a vivere in una rinascita, meglio ancora in una resurrezione, che pare avere del miracoloso.

In America Gustino ebbe successo; aveva un’isola tutta per sé dove impiegava un’ottantina di operai. Vi restò qualche anno, ma poiché sua moglie, che lui chiamava la “Baiocca” (dal suo cognome Baiocchi), non aveva alcuna intenzione di lasciare l’Italia, fu costretto a tornare. Seppe sempre amministrare saggiamente la sua fortuna, facendone godere ai figli.
La Baiocca la conosce poco prima di emigrare. Avuto dai genitori, prima che partisse, il permesso di andare dove voleva, scelse di recarsi nel vicino paese di Meati, dove – si era nel periodo di Carnevale – si celebrava il “Bruscello”, una recitazione popolare della tradizione contadina che attirava molta gente, divertendola o comunque facendola riflettere su vari aspetti della vita, qualche volta anche religiosi.
Così racconta: “Il giorno successivo era una Domenica di carnevale (del 1899) e, dopo essere stato al Vespro, mi sentii autorizzato ad andarmene da solo, cioè senza l’accompagnamento dei miei fratelli, nel vicino paese di Meati a vedere il ‘Bruscello’.
Era la prima volta che assaporavo la libertà totale ed ero ben consapevole che questo grande privilegio mi era stato concesso con molto anticipo rispetto alle usanze.
Seguivo la scena del ‘Bruscello’ ma al tempo stesso mi sentivo autorizzato anche a rivolgere lo sguardo dove mi pareva e fu così che i miei occhi s’imbatterono nei capelli e nel volto di una fanciulla che per la sua semplicità e la sua bellezza, si differenziava da tutte le altre.
Anche lei seguiva il bruscello ed era in piedi dalla parte opposta alla mia così io potevo soffermarmi ogni tanto ad ammirarla perché la sua immagine si collocava all’altezza dei piedi degli attori che recitavano sul palco: un piccolo piano di tavole sistemato in mezzo alla corte.”.

Eccolo, infine, sulla nave che trasporta i migranti e che lui ribattezza col nomignolo di “affogagatti”:
In men che non si dica, Genova scomparve. Poi, per qualche giorno, ogni tanto s’intravedeva laggiù in fondo un tratto di costa, prima dell’Italia, poi della Spagna, Gibilterra e poi si finì col vedere solo mare e cielo. Per giorni e giorni, sperso in mezzo all’Oceano, il piccolo bastimento che io chiamavo ‘affogagatti’ saliva in cresta a onde di 20 metri per poi calare a picco nella parte bassa.
Questo continuo fluttuare era per noi l’inferno e nessuno riusciva a mangiare o a trattenere nello stomaco un po’ di cibo.
Per molti giorni le polpette di mia madre furono l’unico mio alimento e ricordo che le assaporavo briciolina dopo briciolina senza mai poterne mangiare una intera per timore di doverla rigettare.
Il mal di mare è tremendo, specialmente quando ti paralizza per quasi un mese.”.

Restano affascinati dalla visione della statua della Libertà posta all’ingresso della Baia di Hudson: “La speranza riaccese la gioia sui nostri volti.”.
Tutti noi emigranti venimmo fatti salire su un vaporetto e accompagnati all’isola di Ellis o della ‘Quarantena’, proprio sotto la statua della Libertà e lì fummo informati che dovevamo restare quaranta giorni in isolamento per evitare di trasmettere agli americani malattie contagiose di cui fossimo eventualmente affetti.”.

New York e gli Stati Uniti d’America rappresentavano per i migranti la realizzazione di un sogno e la culla della speranza. Nel paese della libertà per eccellenza si poteva finalmente sconfiggere la miseria: “Tra poche ore dimenticherò i sacrifici del mare e della quarantena e dopo un’altra galoppata di una quindicina di giorni in treno per attraversare gli Stati Uniti, sarò finalmente in California, a San Francisco, dove mi aspetta un lavoro sicuro, già prenotato per me.”.
L’immigrazione in quegli anni era regolata in modo che l’emigrante poteva lasciare il proprio Paese solo se a destinazione avesse già garantito un lavoro. Si andava, dunque, sapendo bene di dover affrontare una esistenza al principio dura e poco indulgente, ma di potere altresì avere modo di dimostrare le proprie capacità e il proprio valore.

Arriva a San Francisco dopo un viaggio estenuante in treno, dove si trovano altri emigranti che parlano varie lingue a lui sconosciute: “Fino a qui non ci avevo posto attenzione ma mi ero reso conto ugualmente che il paesaggio americano è di una monotonia spaventosa.
Subito dopo New York vengono immense praterie, immense distese tutte uguali, senza laghi e senza montagne! Cambia solo la tonalità del verde che è più intenso nelle zone coltivate e meno intenso o tendente al giallo nelle zone di pascolo o addirittura abbandonate.
Si camminava giorni e giorni senza incontrare un centro abitato, una casa o in qualche modo segni di vita.
Il treno si fermava raramente perché il deposito di carbone gli era sufficiente per diversi giorni e per approvvigionarsi di acqua il macchinista allungava un tubo come la proboscide di un elefante e, senza rallentare, la pescava in fossi dislocati a bella posta lungo il binario per chilometri e chilometri.”.

È una descrizione avvincente, ricca di movimento; quel tubo che raccoglie l’acqua lungo una fossa appositamente costruita e alimentata per chilometri e chilometri per soccorrere le necessità del treno rappresenta una rarità, un documento storico; per molti una scoperta.
Il lettore potrà rendersi conto da sé, e apprezzarla, della meticolosità e della precisione presenti in questo resoconto di viaggio durato giorni e giorni. Siamo di fronte alla storia autentica di una emigrazione narrata, attraverso i formidabili ricordi del figlio, con lo scrupolo di chi sa che ogni momento della sua vita è una scommessa di rischio e di speranza. Doverosa, vigile e costante l’osservazione: “Il treno si infilava in ampi canaloni tra pareti rocciose e per ore e ore non si vedeva una pianta o un filo d’erba. L’unica cosa bella era il loro colore rossastro che alla luce del tramonto lasciava incantati trasportandoci in un mondo di fiaba.
Spesso, giù nella parte più bassa, si vedeva qualche stradina che si stendeva come un nastro per chilometri e chilometri e lungo il percorso spesso si vedevano transitare carovane di carrozze coperte di teli chiari col tetto a volta, trainate da diversi cavalli e scortate da molte persone anch’esse a cavallo.”.
Il treno “Dopo qualche ora, cominciò ad accelerare vertiginosamente come non si era mai visto e rimase in quell’andazzo per molto tempo seminando fra di noi un po’ di panico perché eravamo in discesa tra dirupi paurosi e a qualcuno venne il dubbio che si fossero rotti i freni.”; “Ad un tratto sentii uno che gridava facendo dei gesti con la mano ma non riuscendo a capire cosa volesse dire, guardai gli altri e vidi che tutti indicavano giù in basso, in fondo alla scarpata. C’erano diversi vagoni e una locomotiva disseminati un po’ ovunque, precipitati qualche tempo prima forse per un deragliamento.”.

Gustino che, non scordiamolo, ci sta raccontando la sua avventura di migrante attraverso i ricordi del figlio, precisa: “Molti anni più tardi, quando ripercorsi questa linea ferroviaria per il mio secondo viaggio a San Francisco, seppi che quello sconfinato paesaggio dall’affascinante colore rossastro che avevamo attraversato per un tratto di circa duemila chilometri, è il famoso Colorado che per secoli e secoli ha inghiottito nei suoi Grand Canyon, migliaia e migliaia di pionieri che morivano di sete e di stenti galoppando col loro cavallo verso il Far West nella speranza, come me, di trovare un lavoro nella lontana e sconosciuta California.”.

Giunto a San Francisco è accolto dal cognato e dalla sorella e il suo primo lavoro è quello di “manovale per la costruzione della linea ferroviaria di Santa Fe’”; “in pochi giorni le mani mi si ricopersero prima di bolle e poi di piaghe sanguinanti.”.
Esce da alcune disavventure che lo hanno visto ingannato dal cognato, grazie all’intervento di un italiano originario di Carrara, Ghigo, il quale gli offre un lavoro meno faticoso e più remunerativo, quello di fabbricare mine per abbattere le numerose sequoie che si trovavano lungo il percorso di una strada in costruzione che doveva condurre in Canada: “Sono qui da molti anni ed ora desidero rientrare in Italia. La mia famiglia abita sui monti di Carrara, siamo tutti cavatori di marmo e se vuoi io ti insegno un mestiere che non è pericoloso come sembra. Se vuoi ti insegno a fare le mine e poi ti lascio il mio lavoro che ti consentirà di recuperare in poco tempo il guadagno perduto. Pensaci un po’ e, se te la senti, vieni con me subito da domani.”.
Ma il suo aiuto non finisce lì. Gli dice che d’ora innanzi parlerà con lui soltanto in inglese, in modo da fargli imparare la lingua, senza di che non avrebbe potuto muoversi in quell’ambiente.

Quando Gustino ha padronanza del mestiere e della lingua, si congeda da lui: “Al momento di separarci mi ricordò che, quando avevo con me del denaro, dovevo viaggiare sempre armato tenendo la pistola ben evidente a portata di mano nel cintolone e non dovevo mai entrare in un ‘Saloon’ se non volevo finire disperso in una botola come il suo amico portoghese e poi mi raccomandò di non licenziare i due aiutanti perché erano dei lavoratori capaci e onesti.
Infine, dopo un abbraccio affettuoso come si può tra padre e figlio, se ne andò in Italia e non ne seppi più niente.
Ancora una volta mi venne da piangere ma questa volta erano lacrime di felicità per aver ricevuto tanto bene e quando meno me l’aspettavo, da un uomo apparentemente rozzo e di poche parole ma dal cuore grande come una casa e di una generosità da non potersi descrivere.”.

La conoscenza di Ghigo fa la sua fortuna: “Quel lavoro era una manna. Già guadagnavo bene facendolo come mi era stato insegnato ma io lo migliorai ancora e feci soldi a palate.”.
Quando il lavoro finì, poiché la strada in costruzione fu terminata, così racconta Gustino: “Al sopraggiungere di quella data, provai un enorme dispiacere anche se ero preparato. Liquidai gli aiutanti e dopo esserci salutati da grandi amici, andai in banca a controllare la cifra che ero riuscito a mettere insieme e quando la vidi lì scritta sul foglio col mi’ nome, rimasi strabiliato e incredulo perché non riuscivo a capire come tanti piccoli mucchietti fossero riusciti a fare un mucchio così grosso!
Mi prese il tremito e, uscito fuori, mi misi a passeggiare a lunghi passi tra le bancarelle del porto dove il profumo degli aranci, dei limoni e delle mele, mi aiutava a respirare a pieni polmoni per assaporare la gioia di aver conquistato finalmente anch’io la libertà… quella libertà che l’America, come chiunque altro, assicura sì ma a chi ha i soldi per pagarsela!”.

Più si avanza nella lettura e più ci si rende conto che questa testimonianza, così genuina e nitidamente e compiutamente espressa, ha un valore storiografico attinente alla nostra emigrazione dei primi del Novecento.
Non è un caso che questa storia sia stata pubblicata a puntate sulla rivista degli emigranti lucchesi intitolata “Lucchesi nel mondo”. Non sono molti coloro che hanno saputo renderla con tanta ricchezza di particolari e con un linguaggio così semplice, vivido e appropriato.
Gustino, bisogna riconoscerlo, è un emigrante speciale, poiché vocato dal suo dna all’imprenditoria. Attento osservatore, brillante inventore di tecniche di lavoro, appassionato in tutto ciò che fa, capace di intessere relazioni commerciali (quando abbatteva le sequoie con una tecnica tutta sua e ne trascinava i tronchi lungo il fiume Sacramento con un rimorchiatore che aveva appositamente acquistato battezzandolo col nome di “Gasolino”, incatenandoli uno dietro l’altro, aveva clienti dappertutto e le tante villette in stile Vittoriano che ancora si vedono a San Francisco, sono state costruite col suo legname), dotato di fiuto e intuito mercantile tra i più raffinati, Gustino appartiene alla schiera di quegli uomini che, o nel bene o nel male, hanno già segnato in partenza il loro destino.

Imbottito di soldi, un giorno, capita al mercato delle verdure, e, ormai padrone della lingua inglese, gli viene un’idea e domanda: “Mi venne un’idea che mi era trapelata nella mente la mattina prima tra i mille profumi del mercato e ritornato da quelle parti domandai a un grossista: ‘Da dove viene questa verdura?’ Rispose: ‘Dalle isole… da Oakland’. E così di domanda in domanda seppi che si potevano avere in concessione dal Demanio degli appezzamenti di terreno o addirittura delle isole. Il resto venne da sé e in pochi giorni riuscii ad ottenere in concessione demaniale per novantanove anni, la proprietà di un’isola grande un’infinità di acri, corrispondente a una ventina di ettari, sistemata nelle vicinanze di Oakland, cioè dalla parte opposta della baia ma proprio di fronte al porto di San Francisco.”.

Vi impianta una grande fattoria: “Cominciai con dodici cavalli, due aratri e feci costruire qualche baracca dove dormire. Inizialmente avevo una decina di operai che in due anni passarono a ottanta. I cavalli passarono a una venticinquina ed in più avevo molte vacche per il latte e per la carne da macello per nostro uso; e poi maiali, polli, oche, tacchini e due chiattoni dei quali uno, lo rimorchiavo al mercato tutte le mattine carico di verdure fresche e l’altro lo lasciavo in fattoria dove me lo preparavano carico per la mattina successiva.
I miei operai erano: portoghesi, francesi, spagnoli, norvegesi, giapponesi; qualche tedesco e anche indios ma non ci avevo nemmeno un italiano, così finii quasi col dimenticare la mia lingua materna.”.

Sembra che tutto proceda a rose e fiori e che l’emigrante Gustino abbia dimenticato il suo paese natale. Succede a lui come succedeva a tutti gli emigranti sia a quelli che lo precedettero che a quelli che lo seguirono. Il ricordo del passato ogni tanto, però, si presentava alla loro mente, spesso attraverso il sogno, e provocava una grande malinconia.
Il libro riporta alcuni di questi ricordi che ricompongono una realtà che non c’è più e il figlio Divo allega al testo alcune foto di luoghi che hanno conservato le tracce di quel loro passato. Scrive, Divo, queste didascalie sotto alcune delle foto: “Guarda papà, cosa ti ha trovato tuo figlio Divo?! Il fosso dove facevi gli scivolini è questo! È lì da quando costruirono la ferrovia nel 1834 ed è rimasto immutato nei secoli e ce li ho fatti anch’io. Anche la strada campestre che si vede è rimasta immutata e la percorrevo anch’io per andare a scuola a Montuolo dove andavi anche tu. Anche il treno è simile a quello dei tuoi tempi.”.
E sotto un’altra foto leggiamo: “E questo, caro papà è il cortile della Birreria Landucci in piazza della Pupporona!”. E ancora, sotto un’altra foto: “Queste foto le ho fatte io e qui è ancora leggibile la parola GHIACCIO. Te la ricordi?… È ancora la stessa scritta dei tuoi tempi!”.

Il libro è diventato anche un amoroso colloquio tra padre e figlio, un legame spirituale che unisce tra loro due epoche lontane e perfino due territori lontani. Infatti, il ricordo che nasce nel padre e si forma in quell’isola al di là dell’oceano, e il figlio che lo recupera attraverso il racconto e lo restituisce ai luoghi della sua infanzia, conducono ad unità due nature e due mondi che solo apparentemente non si conoscono. In questo modo, attraverso lo spirito dell’uomo, l’universo si fa piccolo, simile ad un nido che racchiude l’unico sentimento che può far muovere il creato, l’amore.

Il padre continua a raccontarci il suo viaggio della memoria proprio ricordandoci di quando a 13 anni andava a lavorare alla Birreria Landucci in Piazza della Pupporona, nella città di Lucca: “Il Landucci mi voleva bene e spesso mi mandava col barroccino a consegnare la birra alle varie Caffetterie della città ed io, percorrendo scalzo le strade lastricate in pietra, mi sentivo scottare i piedi lungo i tratti assolati e provavo un grande refrigerio quando li posavo sulle pietre lisce e fresche lungo i tratti ombreggiati.
Per le vie di Lucca spesso incontravo gente conosciuta che mi salutava e con la quale scambiavo anche qualche parola, mentre qui non ricevo mai un saluto da nessuno. Com’è difficile abituarsi a vivere tra la gente quasi del tutto sconosciuta e senza incontrare mai un italiano, mai una faccia amica o una qualunque altra persona con la quale poter scambiare un pensiero!”.

Ancora una volta è fortunato. Un giorno che esce dalla chiesa cattolica della Missione a San Francisco dove ha ascoltato la messa in latino, che gli fa sembrare di trovarsi nella chiesa del suo paese di Fagnano, scorge un gruppo di italiani che innalzano un cartello dove è scritto che cercano lavoro. Si avvicina e domanda se tra loro ci sia un toscano. C’è. Gli chiede da dove venga. La risposta quasi lo fulmina. Viene da Lucca, “Da San Concordio… dal Roton’ di San Concordio”; “Ci abbracciammo e venne a lavorare da me.”. Si chiamava Livio Lucchesi, bravo nel lavoro, e presto “diventò il mio braccio destro.”.

Nel 1906, mentre sta pensando di tornare in Italia per chiedere in sposa la bella ragazza che aveva intravisto nel corso della recita del “Bruscello”, San Francisco è colpita da un terribile terremoto: “La maggior parte delle case furono distrutte sia per i crolli, sia per gli incendi che divamparono subito per lo schianto delle tubature del gas. Anche la mia fattoria fu distrutta ma non da crolli o incendio: fu invasa dalle acque del mare che, agitate dal terremoto, rigonfiarono e travolsero gli argini dell’isola.
Noi ci salvammo salendo sui tetti delle nostre baracche e gli operai mi aiutarono a salvare qualche mucca e qualche cavallo. Tutto il resto e, ovviamente il raccolto, andò perso.”.

Ma, scampato il pericolo, incombe un’altra minaccia: il fallimento delle banche a seguito di una profonda crisi economica. Gustino conserva tutti i suoi risparmi in banca, ed è assalito dall’angoscia. Tutto il ricavato del suo faticoso lavoro potrebbe andare in fumo: “La gente si accalcava agli sportelli per prelevare e anch’io provai ad avvicinarmi ma non mi fu possibile perché c’era troppa ressa.
Dopo qualche ora di attesa e di penosa incertezza sul come sarebbe andata a finire, sentii un frastuono di trombe.
Le suonavano uomini a cavallo che precedevano uno strano corteo di poliziotti, pure a cavallo, i quali a loro volta scortavano delle carrette trainate da altri cavalli bardati a festa e ornati da striscioni con delle scritte a grossi caratteri.
Si trattava della banca del “Fugazi” quella dove io tenevo tutti i miei risparmi, la quale, per assicurare i propri clienti che le voci del suo fallimento erano infondate, aveva deciso di far uscire per le strade della città quello strano corteo di carrette piene di lingotti d’oro e di dollari in oro zecchino, in modo che tutti potessero vedere e tranquillizzarsi.
A quella visione anch’io tirai un grosso respiro di sollievo e tornato in fattoria, mi misi al forno a cuocere dolci per tutti senza però specificare il motivo.”.

Trascorre un anno e il pensiero della ragazza intravista al paese torna a farsi pressante; così decide di partire per chiederla in sposa, nella speranza che nel frattempo non si sia unita a qualcun altro, visto che era una ragazza molto bella e corteggiata.
Parte in condizioni assai diverse da quelle dell’andata. Ora non ha più “il fazzoletto da fagotti”, bensì un baule “pieno di cose pregiate” e il suo portafoglio è gonfio di dollari e “mi dava tanta sicurezza e tanta serenità.”.
Nell’attraversare il Colorado si trova a vivere uno di quei momenti che ci emozionano quando andiamo al cinema a vedere un film di cow-boy: l’assalto al treno da parte degli indiani (“indios”): “Nonostante queste belle premesse, il diavolo volle metterci lo zampino e, nella traversata del Colorado, quando il treno dovette rallentare a passo di lumaca per superare una delle tante ripide salite, fummo assaliti dagli indios i quali saltarono sui vagoni di fondo, quelli che trasportavano solo merce e per nostra fortuna, si limitarono a scaricare solo quelli tirando giù dalla scarpata d’ogni ben di dio.
Questo episodio mi fece capire il motivo per cui i treni avevano un locomotore anche in coda. Era per evitare che gli assalitori staccassero i vagoni di coda per lasciarli poi precipitare nel profondo dei dirupi e impossessarsi così della merce che contenevano.
Noi passeggeri sentimmo una lunga sparatoria con fucili e pistole e penso che ci fu anche qualche morto fra gli assalitori Perché sentii anche grida di disperazione di uomini che precipitavano lungo gli strapiombi rocciosi.”.
Il racconto ha di questi sprazzi in cui la descrizione diventa pellicola e movimento.

Quando si imbarca a New York, conosce una donna del suo paese, emigrata quando lui era ancora piccolo, la quale ha con sé la figlia ancora bambina, Dalida, “di cinque o sei anni”. La donna, vedova, è gravemente malata e non vuole lasciare la figlia sola in America. Ma muore nel corso della navigazione, colpita dalla tisi, come il marito pochi giorni prima: “Il Capitano si rivolse a me pregandomi di essere presente alla cerimonia funebre che lui avrebbe celebrato in coperta all’alba del giorno successivo; poi mi disse che avrebbe ufficialmente affidato a me la piccola Dalida perché io la consegnassi ai nonni in Italia.
All’alba mi presentai puntuale sul ponte della nave dove tutto era pronto per la cerimonia che il Capitano ufficiò con devoto raccoglimento come se fosse stato un prete.
Al termine del rito, due marinai chiusero la salma in un sacco e la calarono in mare poi il Capitano ci lanciò dei fiori di carta che non so come si fosse procurati. Più tardi mi mandò a dire che avrebbe gradito fare colazione con me e con la bimba che poi mi affidò come può fare un buon padre e aggiunse che per ogni necessità che fosse capitata durante il viaggio avrei potuto rivolgermi direttamente a lui in ogni momento, anche di notte.”.

Stiamo assistendo davvero ad una esperienza straordinaria che, molto probabilmente, ne ha poche altre di simili, ricca com’è di imprevisti e soprattutto di umanità.
Ci si domanda che cosa mai possa ancora capitare a quest’uomo e ci prende la curiosità di sapere al più presto che cosa il destino gli abbia riservato a proposito della piccola Dalida, ma specialmente a proposito della ragazza che non sa nulla di lui, forse nemmeno lo ricorda, e che Gustino è intenzionato a sposare. Sono trascorsi ben nove anni! Chi sa quante altre donne, vista anche la sua raggiunta agiatezza, avrebbe potuto trovare a San Francisco, straniere e italiane, ma quella ragazza, di cui non sa nemmeno il nome, gli è così profondamente entrata nel cuore, che non riesce a dimenticarla.
Il racconto, quindi, è anche la testimonianza di un amore speciale che, penetrato furtivamente nel cuore di un uomo come una minuta fiammella, ne ha prepotentemente preso possesso inondandolo della sua potenza e della sua malia.
Tutto in lui appare ora finalizzato a soddisfare questo suo invadente e dirompente amore. Sembra, addirittura, che l’intero suo destino possa dipendere da una tale conquista, senza la quale il percorso della sua avventura rischierebbe di arrestarsi e l’uomo di essere sconfitto.
Mentre per i genitori “riuscivo a malapena a ricostruire le loro sembianze”, “non avevo per niente dimenticato il volto della fanciulla di Meati”.

Sbarcato a Genova e preso il treno, arriva infine alla stazione di Montuolo, da lì, a piedi, raggiunge Fagnano: “Prima passai dai nonni di Dalida ai quali affidai la bimba che non voleva staccarsi dal mio collo perché non capiva una parola di italiano e non si fidava di loro perché non li conosceva, poi mi diressi verso casa mia e prima di entrare in Corte, mi dovetti fermare perché mi prese il tremito alle gambe.”.
Abbraccia la mamma che gli dice: “Come sei imbellito, ma la moglie ce l’hai?”; “Mio padre era a lavorare nei campi dove lo raggiunsi appena mi fui staccato da mia madre e l’abbraccio fu ugualmente affettuoso.”.
Ma ora deve pensare alla ragazza di Meati: “Salutati i genitori, i fratelli e gli amici, volli subito avere notizie della fanciulla di Meati ma non conoscendo il suo nome né quello dei suoi genitori, nessuno seppe darmi le notizie che desideravo e allora piantai tutti in asso e me n’andai di corsa a Meati per cercare di rintracciare almeno la casa dove ritenevo che abitasse.
Lì incontrai un giovanotto che non ricordavo di aver mai visto prima, il quale mi disse: ‘La figliola del mi’ sio muratore? Si chiama Emma, Emma Baiocchi.’.
Poi mi confermò che era ancora libera ma subito aggiunse che quella sua cugina non voleva saper di marito; che aveva scartato tanti buoni partiti e che aveva dato fiasco anche a lui.”. Gli confida pure che forse si è montata la testa da quando ha trovato lavoro in città presso la Manifattura Tabacchi.

Invece Gustino ha successo. Si mette in attesa su di un viottolo, “sotto il pergolone”, da dove Emma sarebbe passata a piedi di ritorno dalla fabbrica: “Quindi non mi allontanai da lì e non so dire quante volte lo percorsi in su e in giù. Ad un tratto, ecco che mi apparve nella penombra, là in fondo, la visione tanto desiderata!
No, non potevo sbagliarmi… era molto diversa dall’immagine dei miei ricordi, non più una fanciulla ma una ragazza matura, nel pieno splendore della sua bellezza…”.
Avviene l’incontro e la semplicità con cui si rivela l’amore tra i due è la parte più bella e emozionante del libro. La si deve riportare per intero: “‘Buonasera, le dissi, mi riconosci?’…
‘Sì’, rispose dolcemente. Ed io: ‘Dopo tanti anni sono rientrato dall’ America per te: sei ancora libera?’…
‘Sì’, replicò. Aggiunsi: ‘Mi hai aspettato tutto questo tempo?’…
‘Sì’, disse ancora. Ed io incalzai: ‘Ma allora, quando eravamo al Bruscello, avevi visto che ti guardavo?’. Con mia grande meraviglia la risposta fu ancora:
‘Sì’. Non potetti resistere e senza rendermene conto, aggiunsi: ‘Io sono rientrato perché ti vorrei sposare, ma tu sei disposta a sposarmi?’. E lei, senza esitazione rispose ancora:
‘Sì’. A quel ‘sì’ mi emozionai e capii che non sarei riuscito a pronunciare altre parole. Allora mi venne spontaneo di allargare le braccia; lei fece altrettanto e finimmo l’uno nelle braccia dell’altra.”.
Non è, questo episodio, un modello di delicatezza e di semplicità?
Il racconto si arricchisce continuamente di contributi eccellenti e significativi come questo, ed altri di cui sì è già fatto cenno. Non è un diario qualunque; è una storia di lavoro, di speranze e di amore.
Ora però c’è un’ultima cosa che debbo dirti: in tutti questi anni io sono riuscito a mettere insieme, in America, una grande fattoria con tanti operai e quindi appena sposati bisogna andare là almeno per qualche anno: ci vieni?… con la stessa semplicità e fermezza rispose: ‘no!’”.
In questa conversazione che sancisce il loro primo incontro, c’è il ritratto compiuto di Emma, una ragazza determinata, che ha saputo scegliere lo sposo quando ancora aveva 13 anni, e ha saputo aspettarlo, e che di fronte ad una richiesta così pressante rivoltale dall’uomo che ama, non nasconde la verità, pur sapendo che è una verità dolorosa.

Siamo nel 1908, e i due si sposano, è il 29 febbraio, nella quieta, antica e piccola chiesa di Meati: “Com’era bella la mi’ Emma nell’abito di seta nera ornato di ricami e di bottoni preziosi.”; “La cerimonia durò pochi minuti. Io mi rifiutai di rispondere alle domande che il prete mi voleva fare sulla dottrina e gli dissi che a quelle cose lì avevo già risposto da ragazzo.”. E qui si completa anche il quadro della personalità audace e vigorosa del nostro protagonista.
Emma attende un figlio, ma Gustino non può più rimanere in Italia, deve badare al suo lavoro in America, e, così, si vede costretto a partire.

Si arriva allo scoppio della Prima guerra mondiale e il Console italiano lo chiama insieme ad altri e organizza il rimpatrio. Viene inviato a Castagnavizza, sul fronte fra la Jugoslavia e l’Austria. “…ci spedirono tutti al fronte arruolandoci senza farci visitare da un medico per accertare la nostra idoneità fisica e senza preoccuparsi del fatto che nessuno di noi aveva mai visto un fucile o un’arma militare.
Fra le tante sventure, avevo il privilegio di trovarmi arruolato nella prestigiosa Arma dei Bersaglieri. ma al fronte non ci sono privilegi e la vita in trincea era un inferno per tutti.
Passavamo giorni e giorni chinati nel fango a scavare lunghe trincee e quando terminavano gli assalti, spesso alla baionetta, si faceva presto a contare i pochi sopravvissuti.
Quasi sempre erano i più giovani a morire ma, in quelle condizioni, anche il sopravvivere non poteva essere considerato un privilegio.“.

Grazie ad un permesso vede per la prima volta la sua primogenita, Diva; poi il fratello Aniceto, che lavora all’Ansaldo di Genova, dove si costruiscono aeroplani da guerra “quasi tutti in legno”, riesce a farlo assumere grazie all’amicizia col Direttore della fabbrica e Gustino, invece che tornare al fronte, ha la possibilità di condurre una vita un po’ più serena e di poter andare più spesso in licenza. Nel 1916 gli nasce un’altra figlia, e due anni dopo assiste alla fine della guerra: “Il 4 novembre del 1918, tutti i cantieri, tutte le fabbriche e tutte le navi alla fonda nel porto di Genova fecero suonare improvvisamente le loro sirene e contemporaneamente squillarono le campane di tutte le chiese della città.
La gente si riversò nelle strade e nelle piazze cantando inni di vittoria; i balconi dei palazzi, gli alberi delle navi e le gru del porto, si ornarono di bandiere e di striscioni tricolori: la guerra era finita!”.

Finisce anche la sua esperienza americana. Visto che non riesce a convincere la moglie, la “Baiocca”, a trasferirsi con lui in America, decide di vendere la fattoria a colui che negli anni della sua assenza l’aveva ben gestita e che era stato ben più che il suo braccio destro, il Lucchesi, agevolandolo nel prezzo e nella rateizzazione del pagamento: “Concluso l’affare, salutai gli operai abbracciandoli uno ad uno e, arrivato sul treno, il Lucchesi ed io continuammo a salutarci agitando la mano finché fu possibile vederci. Poi mi accasciai sul sedile con la testa fra le braccia e, ancora una volta, cominciai a singhiozzare.
La favola americana era finita!”.

Il racconto riprende ora, come all’inizio, con l’autore che torna a narrare in prima persona. È lui a fare memoria del padre dal momento in cui, rientrato in Italia nel 1920, vive la sua vita accanto alla famiglia e in stretto contatto coi cinque figli.
Gustino forgerà con il proprio esempio la sua famiglia, e soprattutto aprirà ai figli, a poco a poco, le porte della vita.

L’autore pubblica anche propri testi in vernacolo in cui celebra episodi della vita del padre (ad esempio: “Ir Comandante dell’Annona”; “L’Assunta in casa di Gustino”), ed anche della madre Emma (ad esempio: “La Suffragette”; “La pulissia dell’Acqua Benedetta”), della quale scopriamo così, che fu donna molto attiva, una “suffragetta” che nella fabbrica in cui lavorava, la Manifattura Tabacchi, s’impegnò nella difesa dei diritti delle donne: “La ‘Baiocca’ non era poi tanto baiocca, cioè minchiona… Anzi, come risulta dalla fotocopia di alcuni documenti originali che sono riuscito a rintracciare e che espongo nelle pagine successive, era una ragazza molto preparata.
Continuò a studiare presso le Suore Agostiniane di Vicopelago, dove ebbe per insegnante la sorella di Giacomo Puccini, anche dopo l’esame di ‘proscioglimento’ e, nella vita, sperimentò sulla propria pelle i problemi relativi all’inserimento della donna nel mondo del lavoro!
Ben presto diventò una Suffragette, cioè una sindacalista e, verso il 1913, riuscì a organizzare i primi scioperi.”.
Non c’è che dire, due genitori davvero speciali: tenaci, intelligenti e combattivi.

Seguono altre composizioni in vernacolo ugualmente divertenti per il timbro popolare che le contraddistingue. Una di queste riguarda lo stesso autore, che a 5 anni, fu “ammesso nel gruppo dei chierichetti”. Era il 31 marzo 1929.
Sono composizioni che ritraggono costumi ed usanze ormai scomparse. Anch’esse, dunque, costituiscono un prezioso documento storico. Ne esce pure un bel ritratto, amorevole e scherzoso, dell’autore.


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Bart