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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

FAVOLE: Storie del Piccolo Oro: Il commissario #7/8

22 Settembre 2008

di Bartolomeo Di Monaco

[Per le sue letture scorrere qui. Il suo blog qui.]

 

Un fatto gravissimo accadde in un piccolo paese appena fuori delle mura di Lucca. Un uomo fu trovato ucciso nei pressi della casa del taglialegna. Subito si sospettò di questi, da sempre ritenuto scontroso, pieno di mistero.
    La gente lo avvicinava malvolentieri, scambiava poche parole con lui. La sua abitazione era talmente malmessa ed isolata in mezzo alla boscaglia che solo chi aveva bisogno di legna si azzardava a inoltrarsi fin laggiù.
    E così, spesso passavano settimane intere senza che si sapesse di Prospero il taglialegna, se era ancora vivo o bell’e morto.
    Perciò, quando fu rinvenuto il cadavere, fu naturale indicare in lui l’omicida. Era così brutto nel fisico, mezzo storpio, energumeno creato uomo a metà e metà più scimmia che essere umano, che la parte dell’assassino gli si addiceva a pennello.  
    Il commissario stava facendo colazione quando fu avvertito.
    «Ti vogliono al telefono » disse sconsolata la moglie, che non riusciva mai a fare quattro vere chiacchiere con lui.
    «Vengo subito » lo sentì poco dopo esclamare al telefono; eppoi afferrò il soprabito e via di corsa giù per le scale, abbozzato appena un saluto.
    Uomo piccino e grassottello, il commissario per la verità non aveva mai avuto grossi problemi nel suo lavoro.
    Quell’omicidio era il primo che accadeva dopo anni lunghissimi di quiete.
    Salì in macchina e fu sul posto in un momento.
    Gli fecero subito largo, e così poté vedere il disgraziato steso a terra, seviziato in più parti, anche qua e là mutilato.
    Si trattava di un bravo falegname, la cui abitazione non era molto lontana dal luogo del delitto.
    La gente cominciò a brontolare davanti al commissario.
    «Che cosa aspetta ad arrestare il taglialegna? È stato lui, è stato lui! »
    «Un uomo così » aggiunse un altro «non può che essere un assassino. »  
    «L’ho sempre detto io di stare alla larga da quella casa » borbottò una donna.
    Fatte le fotografie di rito, raccolti qua e là dei probabili indizi, il cadavere fu coperto e portato via.  
    La gente invece restò ancora; tutti guardavano il commissario, e aspettavano di sapere che cosa intendesse fare.
    «È lui, le dico. Vede, non si è nemmeno fatto vivo. Nessuno lo ha visto in giro; eppure il delitto è accaduto a due passi dalla sua casa. Le pare normale, questo? »
    Così il commissario decise di bussare alla sua porta.
    Si avviò, parve un po’ titubante, infine spinse l’uscio ed entrò.
    Prospero stava seduto, coi gomiti puntati sulla vecchia tavola e la testa tra le mani.
    «Sai cos’è accaduto là fuori? » principiò a dire il commissario.
    L’uomo si voltò; era davvero orripilante quella maschera umana!
    «Che cosa volete da me? » domandò bruscamente.
    «Conoscevi il falegname? »
    «Non sono stato io! Io non so nulla, non so nulla! »
    Di nuovo la testa fra le mani.
    «La gente ti accusa. »
    «Lo so, ho sentito. Ma non sono stato io. »
    Il commissario restò un bel po’ di tempo a interrogare. Prospero era sconvolto; il fatto lo aveva reso rabbioso, insicuro.
    «Se sei innocente, non devi temere » lo rassicurò il commissario, e uscì chiudendo dietro di sé la porta.
    La gente stava ancora lì ad attenderlo.
    «Ma come, lo lascia libero? È pazzo, ucciderà ancora. »
    «Piano con le accuse. Prove ne avete? Per la galera ci vogliono le prove » disse, mentre si dirigeva verso l’auto di servizio.
    Nel tardo pomeriggio passò dai colleghi della Scientifica.
    L’uomo era stato ucciso con una coltellata alla gola; l’omicida l’aveva sorpreso alle spalle, immobilizzato e zac, con la lama gli aveva reciso la gola; nessuna resistenza da parte della vittima che, probabilmente, non aveva avuto nemmeno il tempo di rendersi conto che quelli erano gli ultimi istanti della sua vita.
    Poi l’assassino aveva infierito sul corpo: altre ferite, e un’orrenda mutilazione: la mano sinistra amputata.
    «Ci sono indizi? » domandò il commissario.
    «Il bottone trovato accanto al corpo non appartiene alla vittima. »
    «È tutto qui? Non c’è altro? »
    La sera, a casa sua, ne parlò con la moglie, avvezza ai suoi sfoghi quando principiava un’indagine importante, ma poi il marito non le raccontava più nulla e quando la poveretta, piena di curiosità, dopo qualche giorno azzardava una domanda per sapere: «Poi ti dirò » rispondeva il commissario, e allora capiva che l’argomento era chiuso anche quella volta; e solo dai giornali avrebbe appreso.
    Per i delitti aveva perso un po’ di esercizio, il commissario; si sentiva impacciato, incerto.
    Rimuginò tutta la notte, si girò e rigirò; poi al mattino, di buon’ora, si recò in ufficio. Soprappensiero, non s’accorse dei soliti saluti dei colleghi, si sedette, prese il suo vecchio mazzo di carte e si mise a fare il solitario.
    Da dove cominciare?
    Per prima cosa, farò sorvegliare il taglialegna, pensò. Se la gente mormora, qualcosa ci deve pur essere; gatta ci cova…
    E poiché il delitto aveva dei connotati anche sadici, concluse che doveva procurarsi i nomi di tutti i maniaci della città.
    Impartì gli ordini, poi uscì all’aria aperta e nessuno lo vide più per tutta la giornata.
    Passarono mesi e mesi.
    La gente protestava, aveva paura.
    Telefonate giungevano al commissario, lo sollecitavano ad arrestare l’assassino.
    «Tutto facile per loro, come se io potessi mettere al fresco chi mi pare, senza prove certe, schiaccianti. »
    Ma ad un tratto: «Corra subito, commissario! » gridò una guardia tutta trafelata, spalancando la porta. «Un altro omicidio! »
    Salì di corsa sull’auto di servizio e partì a sirena spiegata.
    Di nuovo fu vicino alla casa del taglialegna; ancora gente attorno, preoccupata, inviperita.
    Quando lo videro arrivare, molti si precipitarono verso di lui.
    «Ha visto? Un altro omicidio. »
    «È una donna questa volta. »
    «Se non fa presto, ci ucciderà tutti. »
    «Fatemi passare » ordinò bruscamente.
    La gente si aprì e il commissario vide stesa a terra la poverina.
    Era giovane, bella, commessa in un grande magazzino della città; la conosceva.
    Seviziata come l’altro, mutilata.
    «Ricopritela! » disse.
    «E Prospero? » domandò qualcuno.
    «Lasciatelo in pace. »
    Giunto in ufficio, volle restare solo. Lasciò detto di informarlo non appena la Scientifica avesse   avuto qualche risultato.
    Prese le carte, accese il sigaro e, distendendo la schiena sulla poltrona, cominciò a calare l’asso di picche.
    «È un maniaco » disse sicuro.
    Subito gli annunciarono però la visita di una delegazione di paesani. Volevano che arrestasse il taglialegna.  
    «Non è lui l’assassino. »
    Allora gli riferirono tutte le sue stranezze; eppoi quella bruttezza non era lo specchio della sua anima nera?
    «Baggianate. »
    «Badi, » disse il più scatenato del gruppo «noi non le diamo altro tempo, protesteremo. »
    Uscirono senza salutarlo.
    Il commissario si sedette di nuovo, continuò il solitario.
    Però era preoccupato. Quella gente non era venuta a caso; aveva davvero tanta paura.
    Dette un’occhiata alla nuova lista dei probabili sospetti: altri maniaci del luogo e dei dintorni. Alcuni avevano delle malformazioni agli arti, anche alle mani; il commissario volle cominciare da questi.
    Incaricò due dei più capaci di spartire il compito con lui.
    «Mi raccomando. Non fatevi sfuggire nessun particolare. Quasi sempre si tratta di soggetti molto furbi. »
    Stava per congedarli, quand’ecco arrivare la telefonata della Scientifica. Alzò il ricevitore.
    «Pronto… » poi si voltò verso i due collaboratori.
    «Ci sono novità! »
    La Scientifica gli comunicava che sotto le unghie delle mani, la vittima aveva trattenuto alcuni capelli dell’assassino.
    «È biondo! » esclamò il commissario, ghignando tra sé («Ti prenderò » pensava).
    «Scartate gli altri, non ci servono. Solo i biondi, indagate sui biondi! »
    Tirò un sospiro di sollievo.
    Passarono i giorni, però, e l’euforia andò scemando, fino a scomparire del tutto; il commissario tornò al solitario; vi passava molte ore del giorno.
    Era chiaro che i capelli biondi e il bottone rinvenuto vicino al corpo dell’altra vittima erano indizi importanti, ma ora, quando il volto dell’assassino era sconosciuto, a che potevano servire?
    Tra i biondi che aveva interrogato o fatto interrogare poteva esserci l’uomo che cercava, ma non era riuscito a cavare alcun sospetto plausibile; molti erano malati, tarati, lo si capiva bene, ma da lì a concludere che erano anche assassini…
    Come avrebbe voluto strappare i capelli a tutti i biondi della città! Li avrebbe fatti analizzare uno ad uno: lo avrebbe smascherato…   Ma subito allontanava l’idea con un gesto di stizza; non si poteva… la legge… i diritti della persona…
    Cominciò a ricevere nuove telefonate dai superiori.
    Alle prime rispose dando molte assicurazioni.
    «È questione di giorni. Forse da un momento all’altro… »
    «Faccia presto, presto. La gente mormora, ha paura. Se la prende con noi. »
    Alle successive, fu preso da impazienza, nervosismo.
    «È un caso difficile. Siamo di fronte ad un omicida astuto. »
    «E quel Prospero, lo fa arrestare? Si sospetta di lui, lo sa? »
    «Lui non c’entra. »
    Sarebbe stato facile farlo arrestare. Nessuno avrebbe avuto da ridire e tutto si sarebbe placato.
    «Ma la coscienza, la mia coscienza, ce l’ho io addosso. »
    Ora parlava poco con i suoi collaboratori; gli riferivano, prendeva appunti. La sera rincasava tardi, perlustrava ogni angolo sospetto della città; nei bar si sorprendeva a scrutare questo o quello; domandava, qualche volta pretendeva confidenze.
    Sul luogo del delitto era stato a tutte l’ore, anche di nascosto.
    Spesso aveva visto Prospero fuori, trafficare tra la legna fino a tardi, a volte sedersi su di un ceppo e starvi immobile per lungo tempo, oppure girare intorno alla casa.
    Ma per quanto impegno vi ponesse, nessuna luce, neppure un barlume, rischiarava quel caso delittuoso.
    Una mattina molto presto, al commissariato si sentì arrivare gente; udì il fracasso, le voci, dal suo ufficio.
    «Che diavolo succede! » brontolò, infilandosi la giacca per andare a vedere.
    Ma non fece in tempo a muoversi che la porta si spalancò e davanti a lui comparve Prospero, che teneva stretto per un braccio un giovanotto mingherlino, ben vestito; una persona ammodo, si capiva.
    Li seguiva una vera folla di gente, che li aveva visti, e s’era incamminata dietro di loro incuriosita.
    «Ecco l’assassino » brontolò appena Prospero.
    Ma il commissario non parve sentirlo.
    «È biondo, è biondo! » urlava dentro di sé.
    Si avvicinò; i suoi occhi penetrarono dentro quelli dell’assassino; lo toccò, sentì il braccio sinistro impedito, come paralizzato.
    «Che hai fatto, qui? » domandò bruscamente.
    «È il maestrino » rispose qualcuno tra la folla. «Un incidente accaduto un anno fa, una brutta disgrazia. »
    «Possibile? Lui l’assassino!? Faccia attenzione a non fare sbagli, commissario. Ne ha passate già tante, quel poveretto. »
    «È biondo! » continuava a ghignare dentro di sé il commissario.
    Prospero borbottò poche parole; appena si capiva che cosa dicesse.
    Raccontò che tutte le notti, da quel secondo omicidio, si appostava; non tollerava il sospetto, che lo umiliava, ingigantiva la sua disgrazia.
    «Finalmente stanotte ho sentito qualcosa qua dentro, » e si batté forte il petto «qua dentro » ripeté. «Stava per uccidere quel disgraziato » e indicò tra la gente un omino ancora impaurito; il quale annuì.
    «L’ho tenuto in casa fino a stamani. L’ho costretto a confessare. »
    Il maestrino non rispose. Il commissario capì che aveva vergogna di sé, paura della gente.
    «Fate uscire tutti! » urlò.
    «Me ne vado anch’io » brontolò Prospero. «Ne ho fin sopra i capelli di questa storia. »
    «Vai pure, ma resta a disposizione. E anche lei, la prego » disse il commissario, rivolgendosi all’omino terrorizzato.
    Così Prospero si avviò alla porta. Ma quando fu vicino alla folla, si fermò un istante, non guardò in faccia nessuno; soltanto col capo fece un cenno di rispetto (e noi sappiamo anche di gratitudine) al piccolo Oro, che se ne stava appartato, quasi nascosto, felice.          

 


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3 Comments

  1. Pingback by Fontan Blog » LETTERATURA: FAVOLE: Storie del Piccolo Oro: Il commissario #7/8 - Il blog degli studenti. — 22 Settembre 2008 @ 08:05

    […] webinfo@adnkronos.com: […]

  2. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 22 Settembre 2008 @ 18:44

    Noto con piacere che continua a dar frutti copiosi la tua fantasia, Bartolomeo. Ne versi a piene mani e ci delizi.
    La fantasia libera l’uomo e lo fa volare anche sopra le difficoltà della vita. Lo rende e lo mantiene soprattutto giovane. Ti ricordo che Leo Longanesi scrisse: “La fantasia […] è la figlia diletta della libertà”. Bravo ancora, Bartolomeo. Chissà come sono contenti di te i tuoi nipoti!
    Gian Gabriele

  3. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 22 Settembre 2008 @ 19:40

    Sì, Gian Gabriele, la fantasia mi ha accompagnato sempre, anche se ora, con l’avanzare degli anni, si fa più debole.
    La fantasia, sono d’accordo con Longanesi, è figlia diletta della libertà, un dono prezioso, una scintilla divina.
    Grazie.

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Bart