LETTERATURA GOTICA: Francesco Mastriani: “I Vermi. Le classi pericolose in Napoli”
29 Settembre 2020
di Bartolomeo Di Monaco
Ed eccoci ora a trattare uno di quei libri di carattere storico-sociale che hanno evidenziato l’inclinazione del Mastriani a rappresentare la vita dei suoi tempi coi loro difetti e meriti, calcando sui difetti in modo martellante, sì da auspicarne il rimedio. Sono libri improntati al verismo più che al gotico, e li trattiamo poiché significativi nella produzione dell’artista.
Abbiamo cominciato la celebre sua trilogia con “I Misteri di Napoli. Studi storico-sociali”, romanzo che fu scritto, ultimo dei tre, nel 1869, il quale forse è il più celebre, sebbene sappiamo che questi poderosi e impegnativi lavori furono molto amati dall’autore, il quale a “I Vermi”, del 1863, che ci accingiamo a presentare, fece seguire “Le Ombre. Lavoro e Miseria”, conosciuto anche come “La figlia del forzato”, che è il titolo del suo prologo, del 1868.
Tra le due date, uscì, nel 1866, il romanzo che viene considerato il seguito de “I Vermi”, di impossibile reperimento, non essendo stato più pubblicato, e che si spera i discendenti di Mastriani, come stanno facendo per altre opere, possano ridare alle stampe: “I figli del lusso”, conosciuto anche come “Oro e fango”, del 1866.
Lo stesso Mastriani, nella Prefazione, ci spiega il motivo che lo ha indotto a scrivere “I Vermi”: “Il suo scopo principale è di gittare alquanta luce su le pratiche insidiose di quelle numerose classi che, o per accidia naturale ed abborrimento ad ogni onesto lavoro, o sedotte dalla speranza di uscire, più presto che col lavoro, dallo stato di miseria in cui giacciono, o sopraffatte per ignoranza da’ più astuti che si dànno a vivere di illeciti guadagni. Queste classi, figlie della corruzione, formano appunto la sciagurata generazione de’ VERMI sociali.”.
Affronteremo, dunque, un mondo di miserie, di raggiri e arrangiamenti per guadagnarsi una sopravvivenza che gli altri godono per un destino meno avverso e più compassionevole, verso i quali “Questo libro non è per essi: la nostra speranza è che sia letto e propagato tra le classi medesime, di cui ci occupiamo, e verso le quali non abbiamo che un sentimento di profonda commiserazione e un desiderio vivissimo di cooperare al salutare ritorno di qualcuno di questi miseri nel seno degli onesti e nelle originarie condizioni della vita sociale da cui si trovano oggidì segregati ed espulsi.”.
In tutte le opere del Mastriani, e massimamente in queste di natura storico-sociale, vi è sempre un intento moralistico di cui lo stesso autore, cristiano e socialista, si nutre.
La natura verista del libro è qui conclamata: “I fatti su cui si appoggiano i nostri studi storici sono, la maggior parte, veri: i particolari che diamo su i costumi, su le pratiche, sul linguaggio di queste classi sono esattissimi, perciocché, vincendo la ripugnanza che c’ispiravano i luoghi più abbietti, abbiam voluto studiarli da vicino, per offrirne un quadro sincero, comeché sempre velato da quel santo pudore che le lettere non devono mai abbandonare.”.
Dobbiamo dire che la prefazione è esemplare ed esaustiva e consente al lettore di conoscere perfettamente in anticipo le mura e le atmosfere che andrà ad incontrare. Anche questo tributo a “I Miserabili” di Victor Hugo, accompagnato dalla distinzione che è fatta tra le due opere, è autorevole: “Noi avevamo concepita quest’opera molto innanzi che fosse venuto alla luce il libro stupendo de’ Miserabili di Vittor Hugo. Confessiamo che la lettura di questo ammirabile lavoro del romanziero francese ci avrebbe scoraggiati dallo intraprendere il nostro, qualora non ci fossimo avveduti della differenza della indole dell’opera, differenza che i nostri lettori rileveranno di per sé, dove attentamente si facciano a leggerci. Nel resto, non bisogna mai diffidare delle proprie forze quando si ha in vista, non un titolo di vanagloria, ma uno scopo utile e morale, e il bene de’ propri concittadini.”.
Andiamo a cominciare, dunque, nella speranza di saper leggere questo “scabroso lavoro”, come ci avverte Mastriani.
Il libro (l’autore ci avvertirà: “Questo non è un romanzo; né è un libro per quelli che cercano il solo svagamento della lettura”) è diviso per piaghe, che sono quelle della società: l’Ozio (“è marciume”), la Miseria (“è sordidezza”), l’Ignoranza (“è morte”), ciascuna divisa in parti e capitoli che rappresentano le sotto piaghe.
Si comincia con l’Ozio, e i fatti accadono nel luglio del 1858 (si noti che il voluminoso romanzo è uscito appena 5 anni più tardi e alcuni personaggi sono viventi). Noi ci troveremo, però, ad andare avanti e indietro rispetto a questa data lungo il percorso non breve e accidentato dell’opera.
Il metodo che l’autore segue è quello del cronista, taccuino alla mano. Si sposta nei vichi, si ferma a chiacchierare con questo o con quello e prende nota. La scrittura ha un che di compiacente e vezzoso, e rivela la piacevolezza con cui Mastriani si accinge al suo lavoro: “Vi ho detto che Augusto era stato mio compagno di catena alla scuola dell’Abate V…, d’imprecata memoria. A proposito di scuole, mi ricordo che, a mo’ di celia, egli soleva dirmi: Sapresti indicarmi chi fu l’inventore delle pubbliche scuole? Ho sfogliato tutt’i repertorii di invenzioni e scoperte; ho rovistato in tutt’i dizionari delle origini; ho fatto le più minute ricerche ne’ libri che trattano de’ famosi scellerati; ho letto attentamente la storia dei ‘Delitti Celebri’; speravo di trovarlo in qualcuna delle bolge di Dante; ma il nome di questo malfattore si è involato alle mie particolari maledizioni ed a quelle di tutti gl’infelici vertebrati che hanno, al pari di me, sofferto in questi lazzaretti che si addimandano ‘scuole’ la tormentosa quarantena, che si espia pria di entrare nel regno della vita umana.”.
Il lettore apprezzerà la presentazione arricchita di buon umore e di garbo che Mastriani farà dei suoi amici che lo accompagneranno nel racconto, Augusto, un quarantenne gaudente e straricco, Federico, un trentenne dalla bella voce tonante, “allegro e spiritoso” e Eduardo, un letterato di 27 anni, dal naso prominente e di “patrizia famiglia napolitana”. Nella compagnia, Mastriani è indicato con la semplice M seguita dai puntini: M…
Si deve dire che, proprio grazie alla piacevolezza della sua scrittura, non solo per quest’opera, ma anche per le numerose altre scritte dal Mastriani, non s’immagina che egli ebbe una vita difficile per miseria e disgrazie (gli morirono tre figli). Si ha proprio da dire che la scrittura fu il suo rifugio, dentro il quale egli, grazie alla sua arte, trasfigurava la sua persona e vi trovava, forse, un po’ di felicità: “Io non adulerò nessuna passione, nessun vizio, nessun pregiudizio. Quando vi avrò mostrata la faccia lucida della medaglia, ve ne mostrerò il rovescio. Colla mano sulla coscienza, solleverò il velo che copre la frine impudica, non perché il vostro occhio si arresti e si diletti su quelle forme prevaricatrici, ma perché sotto quella rosea epidermide scopriate il pus venefico che vi si nasconde… Io le toglierò dal volto il belletto, perché ne veggiate il plumbeo pallore; le torrò dal capo la ghirlanda di fiori perché possiate sentir di lei l’alito pestifero e morboso.”.
Entriamo in una casa di tolleranza (alla prostituzione dedicherà in seguito molte pagine esecratrici), la cui tenutaria si chiama Antonetta, una quarantenne parigina che ne dimostra 30: “… gli occhi ti s’infuocavano e la mente ti si annuvolava. La bocca era, in ispezialità, qualche cosa da sedurre un morto.”; “… le parigine sono nate a bella posta per chiacchierare, per far l’amore e per far passare una gran parte della vita nell’ozio.”.
Da Antonetta s’incontra “una scioperata gioventù”.
Antonetta ha in casa una fanciulla molto bella di nome Blandina, che tutti credono sua nipote e nessuno sospetta che sia sua figlia, avuta in gioventù da un certo poeta Arturo Dufaure.
La bambina ha avuto una ottima educazione da una famiglia molto povera, di cui l’autore esalta la virtù, indicandoci che la povertà spesso è la più vicina a Dio.
È già evidente il modo che Mastriani ha scelto per lasciare ai lettori il ricordo dei suoi ammonimenti morali e nello stesso tempo non annoiarlo, se non addirittura infastidirlo. Fa tutto ciò narrandoci storie di personaggi e di famiglie che rappresentano la società napoletana del tempo, così che seguendo quelle storie, in cui si intersecano i suoi interventi illustrativi o ammonitori, il lettore ne riceva insegnamento.
Il romanzo, perciò, si presenta come una summa dei vizi della società e dei contrasti che essi causano al bene della convivenza e al bene richiestoci da Dio.
Vi troveremo di tutto nelle tre piaghe che sono prese ad oggetto e penetreremo le specialità delle cosiddette “classi pericolose”.
Se poi pensiamo alle altre voluminose opere che hanno lo stesso scopo, si deve ammettere che ci troviamo di fronte ad un narratore che considerava una irrinunciabile missione il suo lavoro, il cui punto di vista, ricordiamocelo, muovevasi da un uomo colpito dalla indigenza e sul quale il destino si era accanitamente abbattuto. Solo la complessa e articolata architettura di questa e delle altre opere della trilogia, evidenziano le sue qualità titaniche sostenute da una sontuosa e scorrevolissima scrittura.
Si può dire che in questa scrittura (variegata nei vari campi dell’arte: nel teatro e perfino nella poesia) trovasse il suo rifugio dalla personale spiacevole realtà? Sembrerebbe un paradosso, ma crediamo di sì. Mariani non poteva non scrivere, poiché solo così aveva l’occasione di vivere e ripensare la sua spirituale esistenza. La sua povertà aveva generato la ricchezza della sua arte, con in sovrappiù il prodigio di una efficace contaminazione dei lettori: “A’ corpi deboli, nervosi, linfatici, ha dato un’intelligenza, alacre, sottile: al povero ha dato le gioie; al ricco le noie.”.
La Blandina, la giovane figlia della “snaturata” Antonetta, riassume felicemente, come si vedrà, questa missione sanificatoria e redentrice: “Blandina a diciassette anni era un fiore di bellezza, un angelo di virtù, un amore d’innocenza. Ella era alta, gracile ma non tanto che ne scapitassero in grazia e in armonia le forme del suo corpo, pallida, ma non così che il pallore denunziasse un vizio qualunque dei suoi tessuti. La sua salute non era però un gran che di perfetto.”.
La redenzione vuole la sofferenza: “Blandina era nata di sei mesi e mezzo; la natura non aveva avuto il tempo di dare alla sua fattura la necessaria perfezione; laonde senza che le parti tutte del leggiadro suo corpo difettassero nelle forme, era in esse qualche cosa che annunziava la mancanza della lima. Tutto accusava in lei un certo stento nel meccanismo fisiologico… Senza essere ammalata o sofferente, ella era ‘stanca’, non come chi ha camminato lunga pezza, ma, come chi non ha dormito le ore sufficienti… Questa specie di incomprensibile lassitudine era il carattere proprio di questa creatura…”; “Ma quel che la natura avea di lento in lei nella vita fibrosa e animale, il compensava nella precocità della vita sensibile.”.
Nei suoi primi anni, come si è detto, era stata allevata in una famiglia della cittadina di Dieppe, a cui Antonetta aveva affidato la figlia, composta da Antonio Rouen, pescatore, la moglie Rosa Maria e due figlie, di cui Orsola, la secondogenita, era coetanea di Blandina; il primogenito si chiamava Stefano: “Erano poveri, ma di quella povertà che è una benedizione di Dio, di quella povertà che nodrisce tutte le virtù senza stringere nelle angosce delle più crudeli privazioni.”.
Allorché la madre Antonetta venne a prenderla, quando aveva compiuti i diciassette anni, accompagnata da un signore di 30 anni che poi conosceremo come Alberto B…, un gigolò, Blandina non avrebbe mai voluto lasciare Rosa Maria, non avendole fatta buona impressione colei che le si rivelava come madre vera La quale, invece, riuscì a farle abbandonare quella casa e quella famiglia molto amate, a cui la fanciulla doveva la felicità di quegli anni, e le impose in sovrappiù che la chiamasse non madre, ma zia.
Blandina, dunque, ora vive tristemente nella “casina” di Antonetta, soggetta a sopportare una esistenza triste in un ambiente di corruzione.
Mastriani ci descrive la ‘casina’ tenuta a Posillipo dalla madre, frequentata dai più variegati viziosi del gioco e delle donne. L’amico Augusto gli fa da cicerone: “Osserva attentamente le facce di questi giocatori, disse Augusto: le rosse additano i favoriti dalla fortuna, le pallide i disgraziati, le gialle i disperati. Guarda quel giovinotto che ha innanzi a sé quel monticello di napoleoni; è il figliuolo di un modesto impiegatuccio di dogana, il cui stipendio è di trenta ducati al mese e che ha una numerosa famiglia.”.
Nella prefazione, Mastriani ci ha avvertito che molti dei suoi personaggi sono veri e addirittura viventi e si è limitato a cambiare loro il nome. Nel romanzo troveremo citati anche strade e ritrovi che forse sono rimasti col loro nome e ci consentirebbero di fare una mappa del mondo raffigurato da questo scrupoloso cronista. Ci domandiamo: Esiste ancora la taverna dell”Asso di coppa’ a Posillipo? O il “caffè di Europa”?
Così è per questo usuraio, Don Peppino, reale e non frutto di fantasia, appostato ogni giorno ai tavoli da gioco di Madama Antonetta, pronto a rifornire ad usura il denaro perso dai giocatori sfortunati. Il tanto denaro guadagnato l’aveva reso ricchissimo. Vale la pena riportarne l’impeccabile ritratto: “Tutto il suo oro egli avea conservato in un cassettino di ferro, da lui tenuto nascosto in un ripostiglio nelle vicinanze del cesso. Così Dio avvicinava alle naturali immondizie quello oro immondo, frutto dei più odiosi peccati.
Egli non avea voluto comperare rendite pubbliche perché aveva una paura maledetta della rivoluzione; non avea voluto acquistar palagi o altri stabili per paura di tremuoti ed incendii; né avea voluto in un altro modo qualunque impiegare il suo denaro, parendoglì che tutti gli uomini, e governo e ‘particolari’, dovessero essere così assetati d’oro, come lui, da non poter lui fidarsene. D’altra parte, la costante osservazione ci convince che l’avaro rinunzia al frutto medesimo del suo denaro per la libidine di tenerselo sempre sotto gli occhi. È la vista del suo oro quella che forma il paradiso dell’avaro.
In fatti, Don Peppino si levava ogni mattina allo spuntar del giorno e se ne andava dritto dritto in cucina dove si rinserrava con ogni precauzione. Ivi, dissepolto dal suo mausoleo di sterco il suo schifoso tesoro, Don Peppino sel poneva dinanzi, e, facendo da sé medesimo le dimande e le risposte, così prendeva a ragionare con quell”anima sua’, con quella sua innamorata, con quella sua sposa, con quel suo dio.”
Abbiamo ricordato Alberto, lo sconosciuto che accompagnò Antonetta il giorno che si presentò da Rosa Maria a ritirare, dopo diciassette anni, la figlia. Chi era? Era un gigolò che trovò conveniente farsi procacciatore di donne sfortunate da mettere al servizio della ‘casina’ di Antonetta. Tra queste, Giulia, incontrata a Firenze, che era tenuta in casa insieme con Blandina. Quando Antonetta la vide per la prima volta, ne rimase entusiasta: “Questa sola basterebbe ad accreditare il nostro ‘locale’. Che cosa avremmo fatto se avessimo dovuto limitarci a tenere in casa quella sola ‘Conasse’ [‘giovine onesta’] di Blandina?
Giulia diventò ben presto la calamita della casina. Tutti gli ‘avventori’ rimasero abbagliati da quella incantevole bellezza, di cui ciascuno si disputò la preminenza de’ favori.”.
Anche la lingua che parlava, il toscano, contribuiva ad accrescere la sua sensualità: “Ella aveva per noi altri napoletani un fascino di più, il suo linguaggio terso e gentile, come quella che era nata su quella terra, dove il bello idioma italiano è parlato il più puramente di tutta Italia.”.
Giulia “amava di cuore” Alberto: “Quasi tutte le sciagurate che fanno altrui copia del loro corpo hanno una particolar tendenza o passione che dir si voglia e sempre pel più tristo, pel più libertino, pel più feroce d’indole. D’altra parte, era assai natural cosa che Giulia amasse Alberto. Le donne in generale, e questa specie di donne in particolare, amano nell’uomo la bellezza del corpo e soprattutto la forza fisica, la temerità, l’insolenza, la faccia dura, e, quel che sembrerà assai più strano, queste donne tanto più amano un uomo quanto più egli si mostra loro indifferente e disamorato.”.
E così, infatti, si comportava Alberto, ormai sazio di donne; “D’altra parte, benché assai valido in salute e ancora giovane, pur l’abuso dei muscoli afrodisiaci cominciava a fargli sentire una tal quale stracchezza e certe spezzature di tempo in tempo lungo la teca vertebrale. Erano i primi segni forieri dell’appello al ritiro: gli anni cominciavano a suonare a raccolta. Era dunque suprema necessità di non lasciar venir manco la cuccagna ch’egli godeasi alla casina: era necessità soffrire pazientemente il giogo di Madama Antonietta.”. La quale lo teneva in esercizio, soggiogato ai propri ‘colloqui amorosi’.
Notate il garbo nel trattare la materia incandescente.
Fu Antonietta a stancarsi, ad un certo punto, di lui, che non se l’aspettava: “fino a tanto che, un bel dì, la cassa gli fu chiusa addirittura” e il tapino si trovò nella necessità di procurarsi il sostentamento ai suoi vizi.
E non gli fu difficile, poiché Antonetta s’era innamorata di Giulia, un amore lesbico, dunque, e Alberto non doveva far altro che rinfocolare l’amore che Giulia aveva per lui, così da sfruttarla. A lei avrebbe chiesto aiuto, carpendole quanto questa riusciva ad ottenere da Antonetta.
Pare di essere immerso in una storia di gran libertinaggio, cara a certi autori del Settecento, tra i quali primamente “Le relazioni pericolose” di Pierre de Laclos, del 1782.
Mastriani, accompagnato dall’amico Augusto, è un attento osservatore di ciò che accade nella casina di Madama Antonietta.
Vi osserva una giovane molto carina, ma altrettanto sguaiata, Carolina (qualche volta chiamata Carlottina), napoletana verace, allevata da ragazzina, morti i genitori, da una zia adultera e scandalosa, “la signora di Buonfante”, molto ricca. Leggete questa annotazione: “La voce… Oh! Ecco ciò che tradisce la donna miseramente caduta nella prostituzione… Voi vedete una giovinetta dalle belle sembianze, su cui sembra leggersi l’angelico candore della verginità; vestita con eleganza, con gusto, ed anche con quella semplicità che caratterizza l’innocenza. Tutto spira in essa una certa distinzione: le sue lunghe ciglia sembrano abbassate dalla cara modestia. Voi giurereste che quel fior di fanciulla appartenga alle classi, in cui una squisita educazione fa delle virtù della donna un elemento di distinzione… Ebbene, sentitela a parlare. In un momento, il velo della illusione è caduto; il simulacro della verginità è sparito! Nella gentile e modesta fanciulla voi ritroverete la meretrice. La voce, la sola voce vi additerà a che genere di donne quella fanciulla appartiene.”.
Carolina ha 18 anni, “mezzana statura, capelli castagni, sopracciglia idem, occhi grigi.”.
Attenzione: “Madama Antonetta, la ‘madre’, avea messo questo demone in guarnellino [veste dimessa] a fianco di Blandina, nello intento di ‘depravar la figlia’.”; “Siccome Blandina era battezzata come ‘nipote’ di Madama Antonetta, così Giulia e Carolina erano battezzate come sue ‘cugine’.”; “Carolina, a tredici anni, era già corrotta; già l’alito pestifero di quella gioventù dissoluta l’aveva iniziata in quei misteri, che il solo talamo dovrebbe rivelare ad un’onesta donzella.”; “L’impudica zia, già venuta a quella età in cui la donna si rende più disgustevole agli uomini, concede a Carolina per ‘premio’ a quelli che si fossero acconciati a ‘star’ prima con lei.”.
Dissiperà il ricco patrimonio ereditato e finirà nelle grinfie dell’abile Madama Antonietta, in vena di ricavare denari da quel corpicino ben fatto e sensuale: “Carolina capì che ormai ella dovea abbandonarsi agli uomini per mercede, e che un’altra carpiva i frutti della sua prostituzione.”.
Ecco inquadrate le due compagne messe accanto alla innocente Blandina: Giulia e Carolina, due esempi di procacità e di scandalo.
Antonetta di non si stanca di assaltare l’onore della figlia, mettendole accanto anche giovanotti briosi e impenitenti, esperti nell’arte amorosa.
E Blandina?: “Ci fu un momento in cui la povera giovane si sentì scoppiare il cervello: ella dubitò della realtà di quanto vedeva e sentiva; si credé dominata da un sogno orribile; voleva fuggire, sottrarsi da quell’incubo, da quella fascinazione; ma sentì estinta in lei ogni virtù della volontà; le membra si ricusavano al consueto loro ufficio; ed ella rimaneva al suo posto, immobile, stordita, stralunata.”.
In queste immagini, riportate per dare l’dea dell’ambiente in cui si trovava a vivere la povera Blandina, ritroviamo confermato il convincimento dell’autore, ossia che nella società è dominante il vizio e una onesta persona, specie se donna, fatica a conservare la propria integrità morale. Essa non è tollerata, è malvista, e dunque assalita ai fini del corrompimento.
Blandina è arroccata dai mille assalti a difesa di se stessa e della sua volontà: “Ma la virtù ha il suo coraggio che le vien da Dio.”.
Un giovane ricco e generoso, Teodoro, premia quel coraggio, poiché, attirato da Antonietta verso la figlia onde sedurla, ne scopre l’onestà e le chiede di sposarlo.
Ciò che avviene.
In uno dei capitoli facenti parte della piaga dell’Ozio, vi è un riferimento ai mali dell’umanità che, nonostante il progresso, l’uomo non riesce a vincere, e si perpetuano tali e quali: “Una pruova in questa doppia inalterabile natura delle umane cose puossi avere nel considerare che le pagine di Terenzio, di Plauto e di Giovenale sembrano la più parte scritte a’ tempi nostri e pei nostri costumi, vale a dire che que’ vizî, quelle passioni e quei mali contro cui quegli autori si scagliarono, sono presso a poco gli stessi di che oggi potrebbesi menar lamento.”.
L’esame delle piaghe dell’umanità, esposteci in tanti rivoli che vanno a congiungersi in un fiume impetuoso, dànno modo a Mastriani di inserire molte argomentazioni su un quantità ampia di materie che sarebbe lungo enumerare, ma esse sono il sale dei “Vermi” ed evidenziano che ci troviamo di fronte ad un’opera di ricostruzione morale del nostro vivere comune. È, Mastriani, un operatore del bene, nel mentre ci presenta le facce più orribili della società.
In certi momenti, come quando parla del tempo, che i forti rubano ai deboli, ci pare di leggere “il Giorno” (fine Settecento) dell’abate Giuseppe Parini, e di rivedere il ricco gaudente (“l’illustrissimo”) nelle parti leziose del “giovin signore”.
Apprezzate questa frase che riguarda il giudizio negativo sulla classe dei vagabondi: “Né di rado avviene che per parecchi giorni questi bruti non ritornino a’ loro covili; né le famiglie avvezze alle frequenti assenze de’ loro uomini, s’impacciano un frullo di quel che essi sieno divenuti.”.
Le descrizioni di due vagabondi, Nicola Piretti, detto lu Sciamenco (ossia il Babbeo) e Carmine Esposito, detto Carminiello u Carpecato (il Butterato), sono esemplari e confermano la facilità con cui Mastriani sa muovere la penna. È un’abilità non comune che rimanda alla scrittura di Charles Dickens e alle rotondità del periodo blu e rosa di Picasso.
Leggete, ad esempio, ciò che scrive su lu Sciamenco, il cenciaiolo ubriacone e babbeo che viene indotto a sposare una donna allegra, Filomena, che gli dà due figli non suoi, Luigi e Concetta, bensì dei tanti suoi amanti. Grazie a ciò, gli mette in tasca qualche danaruccio affinché vada a ubriacarsi. Gli confesserà, ormai ridotto a schiavetto il marito, la speciale provenienza di quel denaro, ma il babbeo non se l’ha a male, anzi lascia perdere e si arriva così a questa situazione: “E Nicola, abbrutito dalla maledetta passione del vino, intorpidito dalla ignoranza e dall’ozio, ‘chiuse gli occhi’ per qualche tempo; indi li lasciò aperti addirittura. E, dopo la morte della vecchia madre di Filomena, non rare volte avveniva che in sul lettino, messo a fianco del letto nuziale, e in cui dianzi dormiva la vecchia, mettevasi a riposar la notte il buon marito unitamente alle due creature, Luigi e Concetta, frutti apparenti del felice connubio; e qualcuno degli ‘amici di casa’, che era il più nelle buone grazie della Filomena, occupava nel talamo il posto del marito, scambio che non dispiaceva a nessuno de’ tre.”.
Ammirate questa aggraziata ironia. Precisiamo che fra’ Luigi è il padre vero di Luigi, uno dei figli di Filomena attribuiti a lu Sciamenco: “Un giorno accadde che Fra Luigi si trovasse ad entrare nel ‘basso’ della Filomena nel momento che Caporal Stoppaccio riportava una bella vittoria amorosa…”.
Non si parli poi delle variopinte pagine che dedica ad immortalare la figura del monello napolitano, ossia il “guaglione”: “Ma è proprio pel ‘guaglione’ che Napoli è stata creata. Il Guaglione è il re di Napoli”; “Se vuol prendere i bagni (e questo è un gran divertimento per lui nell’està) se ne va a Santa Lucia, alla Villa o alla Marinella, e, deposta la sua camicia in su la arena, si gitta in mare, e passa la sua mezza giornata nella acqua donde invita i passanti a gittargli una moneta che egli s’impegna di afferrar con la bocca anche quando andasse nel fondo del mare. Se vuol farsi una passeggiata in carrozza, monta sul predellino di dietro della prima carrozza che incontra, e ne scende quando gli garba.”; “Quando i suoi calzoni diventano logori, ei li gitta via, e rimane in camicia; e, quando questa gli cade in cenci di su la persona, ei la gitta parimente e rimane ignudo, finché un”anima benefica’ non gli pone addosso un altro cencio qualunque.”; “Nelle sommosse popolari ognuno di questi figli del popolo può diventare un piccolo Masaniello.” (viene in mente il monello Gavroche descritto da Victor Hugo ne “I miserabili”).
Paiono dei dipinti.
Queste pagine dedicate al guaglione debbono restare immortali, non trovando finora paragoni di altrettanta bellezza.
Filomena continua ad essere personaggio eminente di questa parte della storia. Coi suoi traffici si è perfino arricchita e si attira l’attenzione di un giovane avido di denaro, verso il quale sentiva montare una accesa passione, Angelo Mortella. Accortosene, il giovane, informatosi dei ducati posseduti dalla donna, si industria di accrescerne la passione per arrivare a sposarla e a goderne il patrimonio.
Però, la donna ha marito, quel babbeo de lu Sciamenco che ora è finito in carcere, e, se fosse riuscito ad eliminare il marito, restavano però i due figli Luigi e Concetta, i quali sarebbero stati gli eredi della vedova. Dunque ostativi anche loro al suo “infernale” progetto: “Posto ciò, per isposare quella donna era primamente giuocoforza smorzare il marito, e quindi accortamente sbarazzarsi delle due creature, come meglio fatto venisse.”.
Il lettore si troverà avvinto in questo progetto che Angelo (Angiolillo) condurrà a termine da solo nei confronti dei figli che riesce a far sparire dalla circolazione (sapremo che sono stati uccisi), mentre per il marito carcerato si avvarrà dell’aiuto di un personaggio che abbiamo già incontrato, ossia Carmelo Esposito detto Carminiello u Carpecato (il Butterato).
Trovatello, portava come tutti i suoi consimili sfortunati, un cognome che ne denunciava l’origine, Esposito, che costituiva come un marchio infame per coloro che erano nati da genitori ignoti e affidati alla ruota della Santa Casa dell’Annunziata (l’autore si scaglia contro questa usanza che rende difficile la vita a chi è segnato da questo cognome). Fugge “in età di sette in otto anni” dall’orfanotrofio per vivere in strada: “La popolosa Napoli ricoverò negli anfratti de’ suoi quartieri suburbani e tra i mille e mille suoi ‘vagabondi’ il piccolo Carmine, che visse per qualche tempo su i ciottoli delle vie, dormendo il più delle notti ne’ più immondi covili.”.
Ecco un altro punto in cui ci viene in mente Charles Dickens (1812 – 1870), contemporaneo di Mastriani. Un giovane sconosciuto, di nome Mineco, incontra il ragazzino e lo invita a seguirlo per diventare ‘tamurro’ (primo grado della camorra): “Carmine e la sua guida montarono su per la scura e disastrosa scalinata insino all’ultimo piano: a destra dell’uscio di questo piano era un’altra scaletta che mettea su una specie di terrazza, su la quale Carmine vide una mano di monelli scalzi, luridi, facce di scimmie o di cani; i quali, seduti sul lastrico, a gruppi, giocavano a carte nel massimo silenzio…”.
Pare di vedere Oliver Twist (il romanzo omonimo è del 1837) entrare nel covo di ladruncoli comandati dal terribile e astuto Fagin.
La storia di Carmine ci dà modo di conoscere il codice della camorra e le formalità del giuramento tenuto dall’ascritto (neofita), al quale viene tolto del sangue dal braccio sinistro, il quale è messo in una bacinella: “Si procede quindi alle formalità di rito. Il tamurro immerse la sua mano dritta nel proprio sangue, e giurò su questo di serbarsi fedele al codice della camorra, di obbedire ciecamente agli ordini che gli sarebbero stati imposti e di dare anche la propria vita, ove occorresse, al servigio della ‘Società’.”.
Ben presto Carmine sale gli scalini della carriera e diventa “camorrista proprietario in una delle prime paranze del mercato. Egli vestiva già con quella ricercatezza propria di tal sorta di furfanti; avea le dita carche di anella, una grossa catena d’oro gli pendea dal corpetto; e nell’està portava pressoché sempre i calzoni bianchi che andavano a terminare in ampie palette su gli stivali. Egli si era persuaso di esercitare un mestiero come ogni altro; passava con la fronte alta e col sigaro in bocca dinanzi al posto della guardia urbana alla piazza del Mercato; andava a braccetto coi più reputati birri del suo quartiere e spesso con loro traeva a sbevazzare alle bettole.”.
Siamo nell’ottobre 1855 quando Angelo e u Carpecato s’incontrano per concordare l’omicidio in carcere de lu Sciamenco. Sappiamo che a Napoli si ripresentava il colera, che era già comparso tre volte nel 1836, 1837, 1854: “La città di Napoli era novellamente atterrita da qualche caso di cholera morbus che si riproduceva per la quarta volta sotto questo nostro bel cielo.”.
Viene dato l’incarico dell’assassinio ad un camorrista carcerato, Vitale Esposito.
Il quale non l’uccide, ma lo fa uscire vivo mascherandolo da morto di quel male.
Siccome di colera era morto il suo compagno di cella, detto lo Zoccolone, la cosa fu facile facendo lo scambio dei corpi, così come accade a Edmond Dantès ne “Il conte di Montecristo” di Alexandre Dumas padre, pubblicato nel 1846.
Il tragitto che conduce Nicola Piretti, lu Sciamenco, dalla prigione al camposanto, vivo in mezzo ad altri cadaveri morti di colera, ha echi e accenti che si cercano in questo lavoro, ossia quel gotico che sapientemente Mastriani manovra in tutti i suoi lavori: “Le torture del sepolto vivo non sono paragonabili a quelle che patì il povero Nicola, situato tra due cadaveri di sotto e due di sopra al suo corpo… Volle la buona stella che quel dì i due carceri della Vicaria e di S. Francesco non dessero che 4 morti di cholera; imperciocché, dove un altro cadavere si fosse aggiunto a completar lo spazio di quel cassone, capiente per sei, Nicola non avrebbe potuto sopravvivere che un minuto nell’assoluta mancanza d’aria. Quel cadavere di meno dava tanto di aria a’ polmoni di Nicola che bastava a conservargli la vita; ma quell’aria addivenne sì pestifera, sì morta, sì pregna di carbonio per la presenza di quelle quattro organizzazioni in isfacelo, che, quando il carrettone fu giunto al camposanto e i cinque corpi ne vennero tratti fuori per essere consegnati alla terra, il corpo di Nicola non era men freddo, meno immobile, meno insensitivo degli altri quattro…”.
Succede che quando i due monatti gettano i corpi nella fossa comune e poi li osservano al lume di una lanterna uno ad uno: “Nel momento che dietro la lanterna i quattr’occhi dei due beccamorti erano forse intenti a contemplare la sua faccia, egli fece uno sforzo e si levò ritto all’impiedi!…
i due beccamorti misero un grido di altissimo spavento, gittarono lungi la lanterna, che si spense, la vanga e la zappa che avean nelle mani, e se la diedero a gambe, incespicando tra i mucchi di terreno…”.
Il camorrista aveva così risparmiato la vita a lu Sciamenco e si disse tra la gente che lo Zoccolone era resuscitato e scomparso e lu Sciamenco morto e sepolto.
Il mandante del mancato omicidio, Angelo Montella, grazie a questo equivoco, riesce così a fissare il matrimonio con la bella Filomena, da celebrarsi “la domenica appresso il Natale.”.
Intanto che succede? Non tutto corre liscio per Angelo. Infatti, la sua innamorata Nunziella, gelosa di questo matrimonio, teneva da tempo un segreto rivelatole in punto di morte dalla mamma, Rosaria Sessa, ossia quest’ultima aveva ucciso, con la complicità di Angelo, i due sfortunati figli di Filomena, Luigi e Concetta.
Dunque, Angelo era complice di un assassinio.
La denuncia arriva al punto giusto delle nozze, prima che siano dichiarati i giuramenti e Angelo viene tratto in carcere.
Nicola, lu Sciamenco, intanto, è stato visto da qualcuno e si comincia a mormorare che non sia morto. Egli, però, fa di tutto per non mostrarsi in paese, poiché dubita che ad organizzare il suo omicidio sia stata Filomena (e noi sappiamo invece che fu Angelo, all’insaputa di lei).
Come vedete, nel discorrere delle piaghe della società, Mastriani sa coinvolgerci con illustrazioni di fatti attinenti al vizio, e ce ne mostra gli aspetti più orribili con trame che coinvolgono e appassionano.
La società in generale, e quella napolitana in particolare, sono tagliate col bisturi e le carni e gli organi vitali sono esposti con la sicurezza di chi tratta di cose reali e vive.
Il lettore, intanto, è proiettato in avanti dalla curiosità sull’esito di questo confronto tra l’astuta Filomena e il sempliciotto Nicola.
Vi ricordate Carmine Esposito, l’amico di Angelo Montella, il quale, incaricato da quest’ultimo, aveva commissionato l’omicidio in carcere a Vitale Esposito (che poi non l’aveva eseguito e aveva lasciato in vita lu Sciamenco)? Ebbene, sarà lui a scoprire lu Sciamenco, poiché compagno di lavoro della sua ragazza, Mariannina.
Lo invita ad un incontro a quatt’occhi.
Ma prima Nicola vuole andare a trovare la moglie Filomena per prendersi la sua vendetta, credendola mandante del tentato suo omicidio, e questa, quando lo vede comparire sull’uscio, sviene dalla sorpresa e dal quel malore, aggravato da “febbre tifoidea della più malvagia specie.” da lì a otto giorni se ne andrà a morte. Il suo amante Angelo verrà condannato al carcere a vita da scontare a Nisida, la cui bellezza, non del carcere (che descriverà subito dopo), sibbene dell’isoletta, Mastriani narra doviziosamente: “Sul bellissimo faro posto al lato occidentale di detto porto e munito d’una graziosa balconata non dissimile a quella del faro del Molo di Napoli io mi fermai un giorno a contemplare la magnifica prospettiva d’un tramonto d’autunno sotto un immenso orizzonte che si spiegava sul mio capo senza una ombra, senza una nube, puro leggiero profumato come il velo azzurrino d’una silfide. Il sole, posato sul capo Miseno a modo di un globo di cristallo tirato tutto infuocato dai fornelli d’una vitriera, salutava la bella Napoli con gli estremi baci de’ suoi raggi indorati e parea staccarsi con pena dal nostro cielo. La soave malinconia di quell’addio, i sospiri di quella natura e lo strisciar delle lievi brezze su per le acque si accordavano alle voci lontane e staccate dei forzati che lavoravano alle casse de’ piloni, e formavano una scena per me nuova e commovente.”.
Come non confermare il nostro giudizio sulla scrittura docile e sensibile di questo autore, assurdamente trascurato!
Torniamo alla storia. Sembra che si stia spianando la strada verso la conclusione.
Abbiamo scritto che Mastriani costruisce quest’opera dal vivo, muovendosi per Napoli come un cronista. Le sue storie, di cui il libro è arricchito, nascono dai suoi incontri e dalle sue scoperte, e mai sono slegate tra loro, anche se può parere, poiché è la piaga che sta trattando che le incatena l’una alle altre.
A Nisida, ove ci ha condotto, egli entra a visitare le carceri e vi incontra un giovane triste, Stefano Merli, che interrogato narra la sua disgrazia di omicida.
Accanto a storie più ponderose, a Mastriani piace gettare nel romanzo narrazioni più rapide ma non diverse nella sostanza: ugualmente intensa e avvincente. Quel giovane è condannato a dieci anni di lavori forzati per aver ucciso sua sorella Emilia e il padrone della fabbrica in cui lui stesso lavorava, Giacomo Fiore, divenuti amanti.
Conosceremo la storia di Ignazio cresciuto nell’ozio grazie ad una rendita che il padre D. Ambrogio, ricco e zotico, aveva lasciato ai suoi dodici figli, maschi e femmine, tra le quali quella Carolina che abbiamo incontrato all’inizio del romanzo accanto alla innocente Blandina nella casa di tolleranza gestita dalla madre di quest’ultima, l’abile e astuta Antonetta.
Ignazio sin da ragazzo aveva mostrato la sua crudeltà, accecando le galline del suo pollaio: “Il suo divertimento favorito era quello di accecare quasi tutti i polli che in gran numero erano nel paterno pollaio, giacché la mamma era ghiotta di questa maniera di carne che ella mangiava pressoché in tutti i giorni grassi. Soleva il feroce fanciullo con un ferro infuocato perseguitare quelle povere bestiole, non appena entravano nelle prigioni di D. Caterina, e privarle degli occhi, ad impedire, come egli diceva ridendo, che si azzuffassero, e perché meglio si fossero ingrassate. Spesso egli invitava il babbo o la mamma a godersi di questo truce spettacolo; e i teneri genitori lo incoraggiavano con un sorriso a torturare quegli animali.”.
Finirà nelle mani di una vezzosa fanciulla di nome Teresina che lo condurrà alla rovina e al ladrocinio, per la qual cosa sarà condannato a 15 anni di lavori forzati. Li sconterà nella Petreria di Pozzuoli, dove ritroveremo un altro personaggio, appena appena lasciato, Angelo Montella.
Ma intanto godiamoci questa descrizione dell’uso, da parte dei forzati, della dinamite per frantumare le rocce, le quali sono destinate a finire in fondo al mare per l’edificazione del porticciolo di Nisida: “La mano dell’uomo è impossente a squarciare le costole di tufo dell’arido monte, ovvero sarebbe opera lentissima e lunga. Supplisce a ciò la forza della polvere. È noto che col cavare questa maniera di mine ne’ fianchi del monte si ottiene in piccolissimo tempo un risultato cui non potrebbe sperare un lungo periodo di infaticabile operosità della mano dell’uomo. Enormi pezzi di macigni staccati da’ fianchi rimarrebbero inerti massi se non venissero frantumati colla prodigiosa forza della polvere intromessa nel loro seno con appositi strumenti. È curioso il vedere con quanta facilità e rapidità si esegua da’ forzati la ‘carica’ di questi enormi obici di tufo, che una piccolissima quantità di polvere accesa nello interno mediante una miccia basta a far crepare con sordo scoppio. Bello è il vedere come que’ grandi massi di rupe si fendano in tanti pezzi, come se que’ pezzi fossero stati appena incollati tra loro, mentre nessuna forza umana sarebbe bastata a divellerli. I pezzi frantumati precipitano lungo la schiena del monte e minacciano spesso la vita dell’incauto servo di pena che non è attento a sottrarsi da quelle fattizie ruine.”.
Si riceve l’immagine dello scoppio della mina e della contemporanea frantumazione della roccia che rotola a valle in tanti frammenti.
È giunto ora il tempo di immergerci nella seconda piaga, la Miseria, “la più profonda delle Tre Piaghe dell’umana società”.
Questa specificazione ci conferma che lo scopo principale di Mastriani è quello di indagare sulla società in cui l’uomo, coi suoi pregi e i suoi difetti (che sono abbondantemente rappresentati) è inserito. Un rapporto che diventa simbiosi in virtù dei reciproci trasferimenti dall’una parte all’altra.
Dunque, l’esame dei “vermi”, ossia dei viziosi che animano la società, è allo stesso tempo esame delle sue due componenti inscindibili: il mondo fisico e il mondo morale: “Il marciume, la sordidezza e la morte producono i ‘vermi’ nel mondo fisico, siccome l’Ozio, la Miseria e l’Ignoranza producono i loro ‘vermi’ nel mondo morale.”.
La disamina esposta dall’autore è ampia e ci narra di quanto alcuni eminenti studiosi si siano impegnati per debellare la miseria, senza riuscirci. Il maggior libro che espone i precetti coi quali riuscire nell’impresa è il Vangelo e sono le Sacre Scritture. Ma l’uomo stenta a comprenderne significato e valore: “Vendete i vostri beni, e fatene limosina; fatevi delle borse che non invecchiano; un tesoro in cielo, che non viene giammai meno; ove il ladro non giunge, e dove la tignola non guasta.”; “Non dire al tuo amico, che ti domanda qualche cosa: Va e ritorna; io te lo darò dimani – allorché ce lo potrai dare in quella stessa ora: perché si perde la grazia ed il merito del dono non facendolo più presto che si può.”.
Queste sono le conclusioni di una tale premessa: “Non ci potrà essere su la terra ‘vera civiltà’ finché una creatura di Dio morrà d’inedia.”; “È indubitabile che la società si avvia per gradi insensibili al regno della sua maggiore possibile perfezione. Noi veggiamo nell’avvenire le istituzioni sociali elevarsi al livello delle istituzioni di Cristo Signore.”.
Apprendiamo con piacevole meraviglia che l’autore nel corso della sua vita si è molto prodigato per assistere i poveri e gli ammalati, pur essendo lui stesso povero, nonostante la sua fama.
Ce lo dice quando racconta la misera storia di Francesco Lojodice che egli va visitare con l’assistenza di un medico, onde prestargli soccorso.
Questo sventurato (scopriremo che è un matricolato furfante e impostore) vive in un sottoscala buio e insalubre, dove non si riesce a vedere alcuna cosa se non grazie ad una lucerna: “Colà entro, gittato su poca paglia, era un uomo, coverto appena da cenci fetidi e disgustosi. I capelli e la barba gli erano cresciuti sul capo come ad un selvaggio. Una faccia scarna, livida, del colore della cenigia, si disegnava nell’ombra come sinistra apparizione.
Quell’uomo parea morto, se non fosse stato per un sordo rantolo che risuonava nel cavo del suo petto, e che annunziava tuttavia la vita.”.
È l’occasione per descrivere una Napoli degradata per colpa dei governi tirannici che si sono succeduti: “Riconosciamo in questo difetto di carattere l’opera della tirannide secolare, che si sforzò sempre di corrompere e di abbrutire la generosa natura del nostro popolo, per far di esso una gregge vile e dappoco.”; “Certo, lo spettacolo dei nostri accattoni ha dovuto in ogni tempo ispirare il più gran ribrezzo a’ numerosi forestieri che han visitato la nostra Napoli. Nei loro itinerari, nelle loro impressioni di viaggi, nelle loro lettere essi non parlano che di questa specie novella di peste. Certo, non vi ha paese al mondo che offra un simile miserevole quadro, che noi siamo avvezzi a guardare e che non ci produce più nessuna impressione. Famiglie intere di luridi cenciosi sdraiati al sole, intenti a grattarsi le loro piaghe schifose, colla cui vista cercano di spetrare il cuore de’ passeggieri: donne vecchie e fanciulle, appena ricoperte nelle parti vergognose da stomachevoli stracci, le quali si dànno una certa occupazione nello spidocchiarsi a vicenda. torme di fanciulli pressoché ignudi che si avviticchiano alle gambe dei passanti, pitoccando il tornese con tutta l’arte retorica appresa da’ loro genitori naturali o ‘teatrali’. Ad ogni passo è un mendico che vi chiede la limosina, per questo santo o per quello; e, se voi gli date una moneta, siete assediato da mille altri, che vedrete apparirvi all’intorno, senza sapere donde sieno sbucati. Nel caffè vi assediano come le zanzare e vi numerano i bocconi che prendete: nelle chiese vengono ad ogni tratto ad interrompere le vostre preci: dappertutto, in somma gli accattoni vi sono addosso, colla caccia ostinata ed incessante al vostro borsellino.”.
Bisognerà attendere Curzio Malaparte per ritrovare una descrizione così efficace della miseria di Napoli, in “Kaputt”, del 1944.
Non dimentica, Mastriani, la sua missione: “Si moralizzi, s’ingentilisca e si educhi il popolo fino a fargli sentire la vergogna dello stender la mano; ma in pari tempo gli si dieno i mezzi di non aver bisogno di ricorrere a questa umiliante sfuggita.”.
Dove “sfuggita” è uno dei tanti esempi della felicità creativa della parola di questo fantastico autore.
Ancora un auspicio, una novella redenzione: “Più civile, più colta, più libera e più felice è quella nazione, che più vivamente sente in sé la grandezza dell’uomo e la sua eguaglianza nell’ordine degli spiriti redenti.”.
Un capitolo è dedicato ai letterati (è intitolato “Il letterato”) e chi vive in questo campo, o col pubblicare opere o con lo scrivere sui giornali, farà bene a chiosarlo attentamente, poiché illuminante sulla fatica, che perdura, di questo mestiere. Si intuiscono, nei passaggi sul personaggio Leopoldo, anche esperienze personali dell’autore: “Malgrado li sforzi della più sottile economia cui s’ingegnasse la virtuosa sua consorte, che col lavoro delle proprie mani suppliva a non poche urgenti spese, malgrado la più socratica parsimonia a cui Leopoldo avea avezzi i suoi figliuoli, malgrado che con somma rassegnazione si patissero non poche privazioni in quella costumata famigliuola, pure con una ventina di ducati al mese sarebbe stato a Leopoldo assolutamente impossibile il sostentare la sua famiglia, ove egli pel primo non avesse dato lo esempio de’ più eroici sacrifici per non contrarre altre obbligazioni fuori di quelle che egli puntualmente soddisfacea coll’ammazzarsi di fatiche.”; “Leopoldo usava poche parole, aborriva i modi cortigianeschi, era riservatissimo colle donne, dicea sempre il vero a rischio di spiacere altrui, non capiva la simulazione, avea sempre la cera pallida e smunta per fatiche e per iscarso nutrimento: egli non potea dunque di molto avanzarsi nel mondo. Coloro che gli affidavano la istruzione de’ loro figliuoli prendeano norma, dagli abiti del maestro, per l’onorario da assegnargli.”; “È cosa molto facile e comoda l’essere virtuoso con una rendita di cento piastre al mese. Il paradiso non costerebbe certamente grandi sacrifici. Ma l’essere virtuoso ed onesto quando ogni dì manca nello stomaco la quantità di cibo che è necessaria a sostenersi in piedi, è questo il caso che un uomo si meriti la beatificazione più che qualche monaco ben pasciuto, che, al pari del padre di famiglia povero e onesto, avrà ‘sudato’ per mangiare, colla differenza però che il padre di famiglia ‘suda’ ogni giorno ‘prima di mangiare’, ed il monaco ‘suda dopo’ aver mangiato.”.
Ne esce qui tutta la pena che deve aver sofferto Mastriani nella sua vita di insegnante privato presso le famiglie benestanti.
La presentazione di casi reali che costellano coi loro drammi la società, rende il romanzo sanguinante delle grida di dolore dei ‘miserabili’, inascoltati e sfruttati con il cinismo e l’insensibilità di chi ha avuto i favori del destino.
Mastriani insiste nel ritratto di un letterato: “… il letterato ha un umor diseguale, capriccioso, bizzarro, cade sovente in quegli eccessi in cui cadono quasi tutti gli uomini che per la speciale condizione della loro vita tengono in perpetua tensione il sistema nervoso. Il letterato ama di vedere intorno a sé la franchezza, il buon umore, il sorriso e non le ciglia corrugate; ama la parola graziosa e gentile e non l’aspra e tagliente.”.
Bella questa immagine dei fanciulli che dormono sereni nella loro cameretta: “I cari fanciulli dormono immersi in quel sonno profondo in cui gl’immergono la stanchezza e gli infantili passatempi e l’assenza compiuta di ogni molesta cura. Il loro sonno è sì profondo che neppure l’annunzio di una morte sarebbe capace di ridestarli addirittura. Eglino si sono addormentati nella piena sicurezza di trovare, la dimane, il loro piccolo mondo nello stato in cui il lasciarono la sera…”.
Il lettore continuerà ad apprezzare la sensibilità di Mastriani, il quale gli ricorda, soprattutto se egli è non più giovane, le emozioni che si provano al momento in cui ci ritroviamo a transitare nei luoghi del nostro passato.
Nel leggere queste righe, infatti, ho avvertito anch’io accendersi in me la stessa originaria ispirazione e la stessa originaria commozione di quando ogni volta torno ai luoghi della gioventù. Non è da tutti avere il tocco leggero e sensitivo di questo autore che, grazie al felice dono di una scrittura intima e penetrante, riesce ad esprimere il recondito sentire dell’anima: “Le selci delle strade che noi abbiam tante volte battute co’ nostri piedi segnano ciascuna una rimembranza, una commozione del nostro cuore: le case che vediamo ritte dinanzi a noi ci ricordano gli amici estinti, nella cui gioconda compagnia spendevamo così piacevolmente le ore. Noi sappiamo a memoria gli alberi delle nostre ville, delle nostre campagne. Amiam di rivedere con malinconica gioia le mura della casa dove la nostra cara madre ci diè alla luce, dove passammo i primi anni dell’infanzia: amiam di rivedere le mura della scuola, dove per la prima volta apprendemmo il divino sentimento dell’amicizia: ci piace di visitare le chiese, dove i nostri genitori ci menarono bambini e dove per la prima volta ci sentimmo sotto la misteriosa presenza di Dio. I nostri occhi si fermano lunga pezza umidi di lacrime su i balconi o le finestre di quella casa, donde una donna ci accompagnava con lungo sguardo amoroso fino allo svoltar della strada. La nostra infanzia, la nostra giovinezza vivono ancora nel paese in cui siamo nati e cresciuti. Quando la canizie cade su i nostri capelli, noi siam felici di ritrovare giovane ancora il nostro cuore in mezzo a tutto ciò che abbiamo amato. Gli estinti eziandio rivivono per noi, quando li ritroviamo ne’ siti, in cui secoloro usavamo. E quando la funebre campana, al 2 novembre, ci ricorda che noi abbiamo de’ doveri a compiere verso quei cari estinti, noi ci rechiamo con triste gioia su la terra che accoglie le loro ceneri, e, lasciando cadere un bacio ed una lagrima su la pietra sepolcrale sotto cui dormono il sonno che non ha dimane, ci sembra che rinascano in noi più vivi e più teneri gli antichi affetti.”.
Ecco un altro brano di limpida sensibilità e verità. Alfredo è il figlio malaticcio di Leopoldo, mandato in esilio per le sue idee politiche. La famiglia è rimasta nella miseria più nera, la sorella Cristina sarà costretta ad una vita da strada, e Alfredo a mendicare un lavoro, che nessuno, a causa delle idee del padre, vuole dargli: “Alfredo era timido e riservato come suo padre; al che si aggiungea quella specie di abbattimento morale in cui lo stato malsano del corpo fa cadere un giovine, specialmente quando mancano gli agi e i conforti della vita e quando in quel primo dischiudersi della giovinezza l’espansione naturale dell’animo è bruscamente respinta da una trista è odiosa realtà.”.
Dobbiamo dire che la storia drammatica della famiglia di Leopoldo, composta dalla moglie Rachele e dai figli Alfredo e Cristina è una delle più disperate che si possono raccontare. Qua la miseria è la più tetra ed inesorabile, qua perfino la carità cristiana trova alzata una barriera.
Fino al punto che il lettore non può capacitarsi che davvero siano potute o possano accadere di queste infelicità. Leopoldo è morto in esilio di crepacuore a causa delle disgrazie e degli stenti. Pure di stenti e di malattia muore la vedova Rachele, che ha ai piedi del letto, ammutoliti, i due figli: “La voce di morte era suonata sotto la scura volta di quell’umida stanzaccia, e i due simulacri, che erano stati da vari giorni immobili alle sponde di quel letto, non aveano dato alcun segno di vita o d’intelligenza.
L’immobilità di quei due corpi ancora vivi era assai più solenne e terribile di quella del corpo morto.”.
Ricordate lu Sciamenco e Vitale Esposito, che aveva avuto dalla camorra l’incarico di ucciderlo, e invece lo aveva lasciato vivere aiutandolo ad evadere dal carcere scambiandolo con un morto di colera?
Ebbene, Mastriani non se n’è dimenticato e li raccorda per narrarci altre imprese che i due compiono assieme, mettendosi in banda con un altro consimile, di nome Fustagno. Il redivivo Sciamenco è, intanto, riuscito a mettersi in regola con la sua nuova esistenza da redivivo, mediante un abile avvocato che gli ha spremuto l’intero tesoretto che Sciamenco aveva ereditato dalla defunta moglie Filomena.
Fustagno era stato una spia della polizia, che poi lo aveva licenziato per una sua manchevolezza. Per questo suo vecchio mestiere era inviso al popolo: “Allora il povero Fustagno fu ridotto all’erba; il quartiere lo detestava, i monelli gli scagliavano addietro bucce di cocomeri e di arance e talvolta ciottoli e sassi. Quando egli compariva in un caffè, la gente ne usciva ed il lasciavano colà solo; e quelli che mettevano il piede in su la soglia della bottega ed il vedevano seduto là entro voltavano le spalle e pigliavano altra strada; il che certamente non potea andare a garbo del caffettiere che faceva però certi visi in veggendo entrare quel malanaccio di uomo.”. Oltre al Fustagno, alla banda si unisce un certo Domenico Lepri, detto lo Zoppo di cui viene fatto il ritratto, il che ci ha portato a pensare che ogni volta, grazie alla efficace descrizione che Mastriani fa dei suoi ‘vermi’, subito li innalza a personaggi e a protagonisti. Noi riusciamo a vedere i loro occhi, i dimessi abiti che indossano, i loro movimenti e, se li sentiamo parlare, la loro anima. E a proposito del loro modo di parlare, vi è da annotare che si riscontra sempre una affinità tra il loro sembiante e il loro linguaggio. I ‘vermi’ di Mastriani sono personaggi della società la cui apparenza è sostanza. Lui, artefice e burattinaio, sa muoverli con sapiente destrezza.
Lo Zoppo aveva fatto anche il taverniere: “Egli lavava cinque o sei volte le carni a mezzo putrefatte e le imbottiva di forti aromi; schiacciava sotto la pestarola le polpette già apparecchiate parecchi giorni innanzi e le ritritava e ci ficcava entro e pepe e cannella e menta peperita ed agli; riscaldava a fuoco violento le brode già levate dinanzi a coloro che aveano mangiato il giorno avanti; non si facea scrupolo di spacciare i funghi a gran cappello di pericolosa natura, i quali egli sapea rendere stuzzicanti per via di oli bruciati, di cipolle e di spezie piccanti; apparecchiava con equivoci grasci le minestre di radicchi e di cavoli cappucci; rimpinzava di ciccioli di diverse carni già fradice certe frittelle saporitissime ma nemiche ai succhi gastrici dello stomaco; dava per insalate certe ortaglie ch’ei raccoglieva nelle vicine campagne; in cui non di rado frammischiavasi qualche erba velenosa che cagionava allo stomaco e agli intestini i più dolorosi tormini.”. E alla fine di tutto questo rimescolio ripugnante, che toccava anche alla preparazione dei pesci: “aggiugnea la sfacciataggine di calcar la mano su la cifra dello scotto.”.
Non possiamo dire quante delle voci popolari di che Mastriani rimpinza le sue opere, siano autentiche o frutto della sua inventiva lessicale, ma è da dire che sono tutte geniali e saporose. Come pure certe espressioni colorite, quali, ad esempio: “Parla, bestione, che ti possa scendere l’ernia.”.
Dunque, quattro ‘ vermi’ si sono incontrati e messi assieme. Vedremo a quali imprese il Mastriani li consegnerà.
Intanto ci delizia con storielle di furfanterie e imbrogli combinati da furbacchioni che si approfittano dei gonzi ai quali riescono a sottrarre denaro con l’inganno. Vi è tra essi una donna, l’abile Artemisia, di cui Mastriani non traccia il volto, lasciando a noi di lavorare di fantasia, disegnandola a nostro piacere. Sono quadretti atti ad illustrare in quanti modi i ‘vermi’ della società s’industriano per campare, approfittando della loro furbizia messa a confronto con chi ha la sventura di averne di meno. Se ne ricava un manualetto di birbanterie da collezionare al modo che si usa per le divertenti barzellette.
Vi si incontra un’altra delle qualità di Mastriani, versata in maniera garbata e sottile, quasi sussurrata, l’ironia.
Di Artemisia sappiamo solo come finì la sua arte: “Ma, qualche anno prima del 1860, l’Artemisia fu veduta accovacciata, tra le altre luride figlie della miseria, alle porte del monastero de’ Gerolomini, aspettando la sua porzione di minestra che que’ frati solevano far distribuire ogni dì a’ poverelli del quartiere.”.
Che è un altro monito esplicito diretto a chi immagini di praticare la via del male.
Ricordate la bella storia di Blandina che fu messa al centro dell’avvio del romanzo? Ora compare un’altra protagonista, Lucia, a cui il destino riserverà un trattamento speciale. Nata da un adulterio e partorita segretamente dalla madre che aveva dato incarico ad una casuale levatrice, Pasqualina, moglie di un mandriano, Geremia Chiari, di soffocarla, essa si era per miracolo salvata ed era stata accolta in casa da Pasqualina e da Geremia.
Annotiamo il nome dei veri genitori, i baroni Ernestina e Berardo von Kaufern, “di Baviera”. Di Ernestina, di origine italiana, figlia di un ricco proprietario terreno, fanatico del re Ferdinando IV e dei tedeschi, conosceremo la storia verso il finale del romanzo.
Non è iniziata bene la vita di Lucia, né proseguirà meglio. Il mandriano, che ella crede suo padre, nemmeno la guarda, assorbito dal suo lavoro e sacrificato dalla stanchezza, e Pasqualina, creduta sua madre, faceva ancora peggio: “L’infelice creatura era battuta cinque o sei volte al giorno allorché non adempiva in tutto al faticoso compito che erale assegnato da colei ch’ella estimava sua genitrice.
Lucia era addetta alle fatiche più dure, alle gite più disastrose sulle montagne o giù nelle valli: essa era che quasi ogni dì si recava a Roccaraso per piccoli servigi, mentre la Pasqualina nulla più faceva in casa di quel che pur solea fare per l’addietro, e stavasene tutto il dì colle gambe aperte in sulla braciera a discorrere con un’altra pessima femmina dei dintorni.”.
Ci viene in mente la povera Cenerentola protagonista della celebre fiaba omonima, raccolta dall’antico e passata per le penne di tanti autori, tra i quali Giambattista Basile (“La gatta Cenerentola”, scritta in napoletano) e successivamente Charles Perrault e i fratelli Grimm.
Vi sarete accorti che siamo usciti da Napoli e ci troviamo in Abruzzo, un passo fuori dai confini entro cui finora ci siamo mossi; il che vuol anche farci intendere la estensione universale dei fatti che sono narrati. La miseria morale e materiale non è patrimonio di una sola città, ma è radicata anche altrove, ed è sempre feroce.
In Abruzzo prende le mosse la figura radiosa di un prete leale al Vangelo, un “prete modello”, ammirevole per virtù e abnegazione in favore dei deboli, di nome Andrea de Vigilis.
Incontra Lucia che, stremata dalla fatica per adempiere ad un incarico affidatole dalla madre putativa Pasqualina, s’era inerpicata su di un erto colle, e affranta si era accasciata ai piedi di una cappelletta da dove se ne esce padre Andrea e la vede.
Il lettore troverà interessante come per strade tortuose, e camminando questo sacerdote a risanare il vizio, egli ritrovasse infine Lucia, perduta nella buca della perdizione.
Dall’Abruzzo si ritorna a Napoli, che di nuovo riprende la sua centralità. Pasqualina inganna la figlia mandandola quivi a lavorare in una casa equivoca promettendole che vi avrebbe trascorso una vita migliore: “… l’innocente fanciulla credé daddovero esser giunto, la Dio mercé, il termine delle sue sofferenze; e seco medesima ammiravasì che lo staccarsi, bensì per poco tempo come essa pensava, dalla mamma, non le cagionasse quella gran pena che avrìa dovuto cagionarle.”.
Il lettore ha già capito che si ripeterà la situazione di pericolo in cui fu posta Blandina, la quale riuscì a superarla, e spera che la medesima cosa accada a Lucia.
La donna che ha convinto, con estrema facilità e col denaro a supporto, la cattiva madre è una tenutaria di Campobasso, che si chiama -si noti l’ironia del destino – Coscienza e a cui Mastriani affibbia l’epiteto di “pezzo di carnaccia”.
Quando questa donna si presenta per ritirare la fanciulla, la ripulì dei miseri abiti e le fece indossare quelli più piacenti ed eleganti che aveva portato con sé: “Come i suoi occhi sfavillarono di gioia! come le sue guance arrossarono! come si gonfiò il nascente suo seno! E quanto non rifulse quella angelica bellezza sotto il candido mussolo! La figlia d’Eva si mostrò per la prima volta in quella creatura.”.
Si è già detto della capacità ammirevole di Mastriani di dare rotondità e leggiadria alla scrittura, e ciò avviene anche nell’uso magistrale di lemmi e frasi che paiono ricercate, ma sono senza alcun dubbio il frutto di una dimestichezza tanto con la parola quanto con la società in cui si trova immerso.
Leggete questa frase, che è un altro dei molti esempi già rappresentati. L’autore sta dando notizia del grado di diffusione in Napoli della prostituzione (ogni tanto troviamo pagine illustrative della condizione generale e particolare di Napoli, che fanno di questo lavoro una invidiabile ‘summa’ di valore statistico e storico): “Un altro dato statistico di grande importanza nella disgraziata rubrica di cui tentiam parola è la facilità che certi mestieri donneschi porgono alla prostituzione.”.
Non v’è dubbio che quel “tentiam parola” è una perla di locuzione.
Lucia è condotta in un postribolo di Napoli, gestito da Donna Maria. Vi giunge ignara dei pericoli che sta correndo: “Bench’ella non potesse comprendere ancora in quale orribile luogo si trovasse ed in quale abisso la scellerata mamma l’avesse scagliata, pure qualche cosa di sinistro era in tutto ciò che le si appresentava allo aspetto; onde alla misera si strignea dolorosamente il cuore, e però ella non si fidava di andare a sedersi a fianco della così detta ‘Signora’.”.
Ma, stordita, soccombe: “Nello spazio di tre ore otto uomini eransi gittati su quella vittima inerte e istupidita a disfogare i loro bestiali appetiti.”.
I dialoghi che Mastriani ci offre svolgentisi in quella casa sono tutti godibili per coloritura e realismo, in specie quello tra Rosina e il marito che si presenta a riscuotere, da becco, la sua mercede, che la moglie non vuole più dargli.
Leggete la descrizione di questo becco: “Uomo d’ignobilissimo aspetto, divorato dal vaiolo e dall’erpete, con viso lungo, stirato e pallido, collo scheletro di un cappello bianco in testa, vestito con un palettò ingrassato fino a’ rovesci delle tasche”.
Il degrado in cui a poco a poco cade la giovane Lucia è allucinante. I gradi di perdizione sono attraversati come in un sogno, con l’impalpabilità dell’immateriale e dello stupefacente: “Bastarono quindici giorni di ‘servizio’ nel postribolo al Vico Duchesca per far di Lucia una prostituta come tutte le altre.”. Rimaneva conturbante la sua bellezza: “Il suo occhio era quello della più bella tra le figlie della terra che innamorarono i figli del cielo, gli angioli. Il suo malinconico sorriso era irresistibile.”.
Un giorno che si trova in strada, una carrozza le si avvicina e una tenutaria di lusso le propone di trasferirsi da lei, dove avrebbe condotto una vita piacevole e agiata.
Accetta con entusiasmo e meraviglia. Non immaginava che, facendo quel mestiere, si potesse godere di una qualche benevolenza del destino.
Si trasforma in una figura elegante e leggiadra che sa attirare molti uomini. La soprannominano “la signorina”, per suoi modi non volgari: “Le altre donnine, tranne la Claudina, guardavano Lucia con un senso d’incomprensibile scoraggiamento, perciòcché la bellezza di lei era sì evidente, sì manifesta, sì incontrastabile da schiacciare i comenti e la critica più maligna.”.
Molti ricchi frequentatori del bordello di lusso se la contendevano per averla tutta per sé, e nella disfida a vincere fu un inglese, Edmondo Y., il quale le offerse “… un grazioso appartamento in via Riviera di Chiaja, un phaeton de’ più eleganti con due pariglie di cavalli di sangue andaluso, una cameriera toscana, un cuoco francese, un fantino inglese e un portinaio tedesco, e un assegno di cinquecento ghinee al mese.”.
Una sistemazione da regina, come si vede, per il solo fatto di essere una prostituta ambita: “Era incredibile la matta prodigalità con cui Lucia gittava l’oro a piene mani.”.
Ma un tale lusso (dimorerà anche in Inghilterra e in Francia, dove a Parigi incontrerà “un giovine lucchese di rara bellezza”, di nome Adolfo, di famiglia patrizia, che le regalerà “un oriuoletto d’oro”) produsse in lei un profondo cambiamento: “Lucia odiava l’uomo e disprezzava la donna al cui sesso ella stessa apparteneva.
Ella si estimava felice ogni qual volta potea procacciare una tortura ad un uomo ed una umiliazione ad una donna.
Questi sentimenti di odio presero tali proporzioni gigantesche nell’animo suo che divennero ben presto calcoli della più fredda ferocia.”.
Presto, pei suoi eccessi, si ammalerà di tisi, come la celebre Margherita Gauthier, la protagonista de “La signora delle camelie”, il romanzo di Alexandre Dumas figlio, del 1848, alla quale era stata, peraltro, paragonata: “La terribile e mortal malattia che colpì la infelice ne ebbe tosto distrutte o in gran parte menomate le veneri del volto e del corpo.”.
Ma vedremo che Mastriani, facendone strumento pei suoi obiettivi, le consentirà di percorrere la via della redenzione, che avrà ancora, tuttavia, prima di compiersi, vendette e risentimenti: “… la prostituta farà la guerra alla donna onesta, le strapperà la comoda beatitudine della pace domestica, usurperà l’affetto del marito e avvelenerà forse per sempre le sorgenti della vita de’ figli.”.
Annotiamo come i vari riferimenti qui e altrove fatti ogni tanto a rilevanti opere contemporanee, dimostrino l’assoluto inserimento di Mastriani nel panorama letterario del suo tempo.
Egli, inoltre, riesce a fare delle sue storie pedine di didattica e di filosofia: “La corruttela de’ costumi è il più forte ostacolo alla libertà ed alla indipendenza de’ popoli.”.
La storia dell’amore del patrizio lucchese Adolfo verso Lucia è il momento in cui si avvicinano le trame di due donne, Lucia, divenuta l’amante di Adolfo, e Gabriella, la sua giovane moglie, di famiglia patrizia, le quali hanno tra loro una straordinaria somiglianza.
Ricordate i coniugi Ernestina e il barone Berardo von Kaufern? Sappiate che quest’ultimo, subito dopo il matrimonio, nella stessa prima notte, si era dichiarato impotente alla moglie, la quale, dunque, aveva generato Lucia in adulterio (sapremo anche il nome dell’adultero, un giovane patrizio francese).
Bene, si è detto già anche troppo, e aspettatevi la sorpresa, che forse già immaginerete.
Lasciate, però, annotare che il confronto a cui assisterete tra la madre di Gabriella e Lucia è condotto con un ritmo magistrale e coinvolgente, laddove, accanto a qualche eccesso teatrale, si trovano perle di originale saggezza. Si legga ciò che Lucia dice alla madre di Gabriella: “Io non invidio la felicità di Gabriella perché posseditrice del cuore di Adolfo, ma bensì perché amata da voi.”.
Leggete anche qui. Gabriella trova un ritratto di Lucia: “Però quanto più ella fissava gli occhi su quelle sembianze tantomeno ella sentiva quel senso di avversione che la vista di quella donna avrebbe dovuto ispirarle. La giovine e casta moglie non sapeva risolversi a staccare il suo sguardo da quella immagine fotografica.”.
Intanto padre Andrea de Vigilis, il prete che aveva dissetato la povera Lucia quand’era fuggita dalla casa della matrigna Pasqualina, ritrova finalmente, dopo averla cercata con tanta ostinazione, Lucia, che vive nell’appartamento fittato dal Conte Adolfo, la quale non spera più di redimersi. Confessa al sacerdote questo suo modo di intendere Dio e la vita umana: “… io credo in Dio; ma quello che voi chiamate Dio io lo chiamo ‘fato’ o ‘destino’. Io credo al ‘fato’. Gli uomini sono spinti quaggiù nel mondo da un turbine inevitabile che li muove in senso opposto; altri sorvola, altri li affanga. Atomi di sabbia agitati dal vento, essi si urtano, si confondono, salgono, scendono, brillano al sole o all’ombra, finché il ‘simone’ o la ‘morte’ li sperde nella immensità del deserto, dove ad altre modificazioni dell’esser loro vanno soggetti.”.
Ci troviamo di fronte a una confessione importante, poiché mostra quanto il cammino doloroso e feroce di Lucia l’abbia sempre impegnata a domandarsi di Dio e delle ragioni dell’esistenza umana.
È una nuova Lucia che si manifesta al lettore, il quale mai avrebbe pensato che in quella vita dissoluta si fosse inserita una tale luce, la quale, se è deludente per il prete, è segno, invece, della grande forza dell’anima, nascosta e pulsante in ciascuno di noi, la quale mai si acquieta sulle ragioni del vivere.
Lasceremo al lettore il discoprire l’esito della storia di Lucia, che è confermativa dei propositi morali di Mastriani.
Invece ci dirigiamo a prendere conoscenza dell’ultima piaga, la terza, marcata dall’autore come marcescenza della società, l’Ignoranza, che prenderà, qui come nel romanzo, breve spazio, intenso e ricco di storia.
Ci basti, intanto, notare quanto scrive l’autore: “Un popolo ignorante è un popolo barbaro, corrotto, depravato, abbietto, superstizioso e schiavo per conseguenza. I despoti della terra fondarono sull’ignoranza il loro dominio.”; “Il dispotismo fece in ogni tempo aspra guerra alla istruzione universale, imperciocché il dispotismo non regna che su gli uomini bruti.”.
Emerge pure la particolare religiosità di Mastriani, il quale nel credere e valorizzare le Sacre Scritture, ed in specie il Vangelo, marca la sua lontananza dal potere temporale della Chiesa, la quale egli spregia come dispotica sul popolo e nociva alla sua crescita materiale e perfino spirituale: “Ma a fronte della potenza del genio italiano, una gran piaga ne eclissava gli splendori e ne paralizzava l’influenza universale: questa gran piaga era il papato temporale, regalatoci da quelli che sempre furono i più pericolosi nemici d’Italia, i Francesi. In ogni tempo l’ambizione pretile, disposatasi a’ tirannelli d’Italia, fece aspra guerra al pensiero ed alla istruzione popolare. Che cosa non sarebbe stato questo semenzaio di geni che dicesi Italia, senza questa vecchia fistola del papato temporale? Per essa i popoli della penisola furono sempre agitati da interne fazioni; per essa furono innalzate le sterminate barriere che si opposero alla unificazione politica d’Italia; per essa una setta prepotente s’impadronì delle deboli coscienze ed evirò il pensiero nelle pastoie di una tirannica censura; per essa il volgo giacque nell’ignoranza.”; “L’istruzione era affidata a’ vescovi ed ai preti, ed era il privilegio esclusivo d’una decima parte della popolazione. Grave delitto di stato avrebbe commesso chi avesse pensato di spendere un poco di coltura nel popolo, il quale dovea rimanere nelle tenebre più fitte.”.
È la proclamazione di una corruttela che ha allontanato la Chiesa dalle fonti originarie del cristianesimo. Mastriani fu per questo uno scrittore cristiano? Noi propendiamo per la sua laicità, che seppe tenere distinte severamente le due sfere: “Al sentimento di equità universale si era sostituita l’idea che l’umanità fosse tutta composta di ciuchi, di cui i soli preti sapessero menar la cavezza, e però ai preti doversi obbedienza cieca, infinita, illimitata; al salutare timor di Dio, principio di ogni sapienza, si era sostituito invece il timore del diavolo, il quale rappresentava una delle primarie parti governative nel secolo decimosettimo, e che partiva coi prelati la cuccagna di S. Chiesa.”.
Si annoti la terribile filippica che l’autore rivolge all’Inquisizione e ai tentativi, sempre respinti, di introdurla a Napoli. Così pure le imprecazioni rivolte a Papi e imperatori (specie spagnoli: “Due terzi delle rendite napolitane se ne andavano a ingrassare i maiali della corte spagnuola.”) che fecero del XVI secolo “quello che più si oppose alla civiltà della nostra penisola ed in ispezial modo di Napoli.”.
L’ignoranza regna sovrana anche su Napoli, schernita da “i nostri fratelli delle altre parti d’Italia”. Questo, al modo di Dante, è il grido di dolore di Mastriani: “Povera Napoli! Generosa, benevola, confidente, dopo di essere stata saccheggiata e sgozzata da’ soldati di Belisario, e quindi affamata da Totila, essa accoglieva SETTE DINASTIE straniere, le quali per lo spazio di SETTECENTOTRENTA anni ne disseccarono tutte le sorgenti di vita, la spogliarono, l’ammiserirono, l’avvilirono, la conculcarono, l’imbavagliarono, la trattarono da prostituta, da schiava e peggio. Per 730 anni le straniere signorie fecero di noi il più aspro governo.” (le maiuscole sono nell’originale).
Una triplice censura era stabilita nel Regno delle Due Sicilie, due di natura civile e una ecclesiastica: “Una doppia censura era stabilita nel regno, ma di cui era capo il Presidente della Pubblica Istruzione la cui carica venne per molti anni affidata ad un asino perfetto, e l’altra era affidata ad un censore dipendente dal Ministero di Polizia. Entrambe queste censure gareggiavano in rigore. La prima aveva l’incarico di rivedere le opere di oltre a 10 fogli di stampa che si pubblicavano nel regno; e l’altra di rivedere gli opuscoli ed i giornali. Verso gli ultimi tempi, oltre di queste due censure preventive, fuvvene stabilita un’altra dipendente dalla Curia Arcivescovile, sindacato di quelle della Pubblica Istruzione e della Polizia. Senza il ‘nihil obstat’ della Curia, nessun libro poteva pubblicarsi, ancorché la censura della Pubblica Istruzione o del Ministero avesse dato il suo favorevole parere.”.
Segnaliamo questa notizia, che pochi conosceranno: “Non dimentichiamo di dire che nel breve periodo della Repubblica partenopea pubblicavasi il ‘Monitore Napolitano’ di cui era compilatrice l’illustre dama Eleonora Pimentel, morta dal carnefice al ritorno della monarchia.”.
Ecco un’altra notizia, questa volta una diceria: “Vuolsi che uno dei nostri principi avesse detto che egli avrebbe dato la metà dei suoi domini se avesse potuto ottenere che tutta l’alta ufficialità, da maggiore in su, fosse stata analfabeta.”.
E ancora: “Fino a’ giorni nostri si sono conservate su le porte di certi luoghi di pubblico traffico alcune iscrizioni che diceano: ‘È vietato l’ingresso alle meretrici, agli studenti e ad altre persone infami’.”. Gli studenti, dunque, banditi al pari delle prostitute e degli infami.
Le cose cambiano con l’unità d’Italia e Mastriani ne gioisce: “Dal 1861 in qua grandi passi si sono fatti per invitare al banchetto della sapienza le classi de’ popolani.”.
Si legga questo auspicio di grande patriottismo: “E noi speriamo che non lontano sia il giorno in cui non vi saranno più queste meschine gare municipali, di che tanto per lo addietro si valsero i tiranni d’Italia per ismembrarla, ingelosirla, corromperla ed avvilirla.”.
Fu un convinto sostenitore dell’Italia unificata, ed ebbe sempre il coraggio delle sue idee: “Sette dinastie e 30 sovrani di Napoli in Napoli non hanno fatto che risospingere sempre più nella corruzione questo disgraziato paese.”.
Possiamo dire, a conclusione, che nel mettere in superficie i vizi e le impurità maturate nei secoli all’interno di un tale feroce assolutismo, Mastriani celebra la grandezza del Sud, e di Napoli in particolare, alla cui provata resistenza e alla cui naturale forza affida il più ottimistico destino.
Mastriani è senza dubbio tra i più lodevoli cantori e tra i più fiduciosi aruspici del destino della sua terra: “Noi accogliamo la speranza, per non dire la certezza, che tra dieci anni il nostro popolo non sarà secondo ad altri in Europa.”.
Vengono in mente le quattro giornate di Napoli dell’ultima guerra mondiale (tra il 27 e il 30 settembre 1943).
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