LETTERATURA: I MAESTRI: Arrigo Benedetti. Un caso tragico31 Dicembre 2015 di Cesare Garboli ARRIGO BENEDETTI Al terzo romanzo dopo II passo dei longobardi, che è del 1964, e dopo L’e splosione, appena di due anni fa, è do veroso chiedersi in primo luogo chi siano i destinatari della prolifica, im provvisa e crescente attività di roman ziere di Arrigo Benedetti. In passato, ai suoi esordi giovanili, prima di dedi carsi al giornalismo d’opinione e di di ventare un maestro autorevole e uni versalmente riconosciuto, col romanzo Benedetti non si era cimentato mai. Erano anni diversi, il gusto della scrit tura, intorno al ’40, sdegnava la prosa e la realtà dei fatti, infliggere storie era cattivo slancio. Ma potrà sembrare strano che lo scrittore si misuri pro prio adesso con un genere dal quale tutti nuovamente si allontanano. E’ che il romanzo, l’incontro col romanzo ha tutta l’aria di essere stato per Be nedetti un istinto coperto e maschera to negli anni, calcolato come un even to sempre rinviato, assaporato e previ sto. Gusto della storia, noia e insoddi sfazione della letteratura: la lunga pa rentesi giornalistica era dunque un’in cubazione. « Romanzi storici » sono stati defini ti Il passo dei longobardi e L’esplosio ne: ma si tratta di un cartellino che si vorrebbe riempire in fretta d’altri ap punti. La scrittura di Benedetti è an cora la stessa, anzi i suoi caratteri si vanno precisando sempre più: una gof faggine o innata o voluta, una sempli cità che svolta con naturalezza nell’ar tificio e nel ghirigoro, un fare distratto e sbadato, schizzinoso nel nominare le cose. L’ambizione è di una prosa im palpabile, « flou », che riempia il qua dro di tante minuzie, svogliatamente, a un modo retrattile che non è nem meno descrittivo, nemmeno impressio nistico. Più che mai, oggi come un quarto di secolo fa, Benedetti inorridi rebbe alla sola idea di « raccontare ». Pena la volgarità, qualsiasi struttura romanzesca è impensabile, i fatti non si possono riferire. Si possono insinua re, evocare, suggerire. Narrare è met tersi in un punto privilegiato, innalza re un’antenna e aspettare le vibrazio ni. Così Benedetti si avvicina alla sto ria: lo scrittore ha bisogno di finzioni vere, spiando le quali si possa sentire protetto dalla realtà senza per questo darle il minimo credito. Se si fosse limitato a coltivare en artiste il suo « ascolto » degli avveni menti della storia d’Italia, che fanno ancora la cronaca di ieri, probabilmen te ci troveremmo di fronte a un isola to artigiano attento alla decorazione di un’epoca, maestro di una privata fabbrica, di motivi ornamentali. Ma con la sua prosa « atmosferica », allu siva, ricca di risonanze e di ammicchi, Benedetti mira piuttosto a restituire il secondo « passo » della storia, il ritmo dei fatti che avvengono da sempre e per sempre e non accadono mai, l’eter na, concentrica spirale per cui tutto muta e ritorna incessantemente al me desimo punto d’origine. La sua voca zione si complica, si richiama a una terra precisa, si immerge nel mistero, amoreggia con la saga. Fatti e perso ne, avvenimenti pubblici e privati s’intrecciano ritrovandosi sempre nel lo stesso luogo, ripetendo una vicenda che scorre sotterranea da secoli. Epicentro di questo universo le mu ra di Lucca, i monti e le selve che accerchiano la piccola città impenetrabi le, la regione tra il Serchio e l’Appennino coi suoi stretti valichi che furono un tempo crocevia del mondo, transito coi Paesi del nord, impervio rifugio di eretici e di mercanti, avara gente di denaro e di fede. Qui la storia passa e ripassa senza che niente trapeli, notti interminabili avvolgono la vicenda del mondo, la ricoprono di un soprannatu rale mantello-fantasma che rende im probabili, incerte e precarie le inter mittenti luci del giorno. La storia sprofonda in quelle valli, cammina con un suono di terra smossa, frane si susseguono ma l’aspetto del paesaggio non cambia, la realtà è un insieme di dissolvenze, niente possiede contorni netti e certi. Che parte può recitare la storia, in questo universo dalle archi tetture indefinite, in questa terra to scana che tutte le ha viste? La storia, insinua Benedetti, è una leggenda che si ripete da sempre, un’invenzione del diavolo, un’iscrizione ricoperta dal muschio delle cose che crediamo vi venti. Quello che aiuta i viandanti smarriti nel fitto buio delle parvenze è il bene della cultura, prima ancora dell’ambiguo dono dell’arte. Osservati tenendo conto del cammi no dello scrittore, questi romanzi ci raccontano tutti un’autobiografia: la storia di un narratore « ermetico », di inquiete sensazioni chimeriche, il qua le si libera a poco a poco delle sue ori gini, passa ad altre esperienze, esce dall’orto della provincia e si persuade dell’esistenza di una élite culturale na zionale, italiana. C’è stata qualcosa co me una contaminazione, l’ermetismo fiorentino si ribella a se stesso, chiari sce la propria fisionomia antifascista, sposa lo storicismo e Croce. Le pre messe restano identiche: l’aristocrazia del sapere, il luogo magico dove si presume che la cultura e il potere pos sano reciprocamente e illuminatamente scambiarsi i ruoli. La storia appartie ne a pochi, ebbi occasione di osservare a proposito dell‘Esplosione, è per Be nedetti un privilegio, una conquista, una grazia. Oggi potrei aggiungere che la riduzione della storia alla mon danità di se stessa, alla sua funzione, alla sua vernice pubblica, è diventata per lo scrittore un’ossessione, il suo vero idolo. Il feticcio che egli adora, come uomo di cultura esperto dei se greti del mondo, e al quale oscura mente si ribella, dal fondo della sua provincia, come lucchese radicato alla terra e al suo sangue. Ignoro se un’élite culturale esista, se sia mai esistita, e se uno scrittore pos sa nel suo lavoro inventarne o suppor ne l’esistenza. Fatto sta che questo è il pubblico per il quale Benedetti par la e scrive. Udienza non tanto di pala ti fini, ma appunto di orecchie sensibi li, pronte a registrare il non detto, a di scuterlo, a confrontare le note recon dite. E qui avviene una seconda conta minazione, un patrimonio di misteri: lo scrittore ritornato alle origini ritro va antichi maestri d’incertezza, vecchi dèi locali, numi tutelari dei boschi: Pa scoli, innanzi tutto, l’universo come « baratro frondoso » e indistinto, come rustico vaso mistico, e un « notturno » di gusto non dannunziano, ma pucciniano, il mondo come lattiginosa alba perpetua, stagno di ore morte e inter medie, evanescente tragicommedia di larve. Non si parla mai, nei romanzi di Benedetti, ma si sussurra, si mor mora, le voci forse non sono voci, ma pensieri, comunque sconfinano in so spiri, o, per usare il verbo più caro al lo scrittore, svaniscono, si perdono nel niente. Tutto è forse, tutto è « chis sà ». Emergono correlativi montaliani, oggetti improvvisamente cer tificanti, rumori nel silenzio, fruscii: stoviglie che risplendono, imposte che sbattono, spari nella campagna. Sem bra che i personaggi di Benedetti fac ciano fatica ad esistere senza il soste gno dei fatti appartenenti alla pubbli ca memoria, senza una garanzia socia le, uno stemma mondano. Così lo scrit tore chiede aiuto alla storia. Ieri, nel- l‘Esplosione, il giovane figlio di uno squadrista partiva da Lucca per ucci dere Mussolini, e il proposito dell’at tentato era un modo di esistere. Oggi nel Ballo angelico, un noto uomo di musica si rintana tra i suoi monti natii, cerca la solitudine « non per stanchez za, o per momentaneo disgusto del mondo, bensì soltanto per capriccio ». Siamo negli anni della guerra ’14-’18, in una villa dei dintorni di Lucca: Il musicista, Michele, uomo di sentimenti teneri, ma incline di malavoglia al sadismo, compone di notte, diffonden do le melodie per le valli e spostando si continuamente, seduto su uno sga bello girevole, tra il pianoforte e il ta volo ingombro di carte. Va a caccia, adora il gioco di uccidere. Ama le bat tute volgari, gli scherzi, si di verte , ad accendere tutte le luci dell’assurdo pa lazzo tra i monti proiettando sul prato antistante i tanti riquadri delle fine stre splendenti. Piace alle donne, ami ci e visitatrici non lo lasciano in pace. Ha una moglie gelosa. Odia la guerra, nutre coperti sentimenti filo-germani ci. E’ superiore a tutto ciò che lo circon da, sa che la sua felicità pesa a quelli che vivono con lui. Usa piegare il col lo sulla spalla destra, un vezzo che si accentua davanti all’obiettivo. Credo sia superfluo insistere nell’identificazione, tanto più che Donna Elvira, la moglie tormentosa, porta nel ro manzo il nome di Floria. La giovane domestica di casa Puccini, invece, Doria Manfredi, suicida nel gennaio del 1909, sciagurata protagonista di una tragedia che sconvolse la vita del com positore e aggravò la sua già penosa si tuazione coniugale, è diventata Lucia, muta, piccola ombra contadina dagli occhi spaventati e vuoti. Lo scrittore altera i tempi e i luoghi: da Massaciuccoli saliamo verso i monti, mentre vie ne spostata di qualche anno in avanti, in piena guerra mondiale, la data del tragico caso. Che cosa Benedetti si è ripromesso affrontando questa più triste che dan nata materia, a parte le implicazioni storiche che ho cercato di definire fino ra? Forse interessava allo scrittore co gliere il demonio di una vita pubblica, spiare il male della gloria. E il diavo lo, misteriosamente atteggiato come « il signore dal piede forcuto », recita certamente una parte nel romanzo. Ma Benedetti si mantiene volutamen te al di qua di interessi, per così dire, thomasmanniani: il « ritratto dell’arti sta », nel senso di un’indagine del mi stero creativo, non lo tocca per niente. Se c’è una cosa che tace, nel Ballo an gelico, è la musica. E appunto perché qualcuno di essi è riprodotto fedel mente, i connotati di Puccini vengono scomposti, e sta bene: il protagonista, Michele, è visto dall’esterno, studiato nei suoi gesti, accanitamente ridotto a segno esteriore di un’epoca. Ma nello stesso tempo si ha l’impressione inversa, che lo scrittore stinga in modo prepotente e interiore sul personaggio. Così torna difficile non tanto districare il momento della storia da quello dell’invenzione, quan to distinguere tra il versante romanze sco della vicenda e quello di una in corporea, leggera, eppure greve autobiografia di umori e sensazioni.
Letto 1381 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||