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LETTERATURA: I MAESTRI: Arrigo Benedetti. Un caso tragico

31 Dicembre 2015

di Cesare Garboli
[da “La fiera letteraria”, numero 13, giovedì, 28 marzo 1968]

ARRIGO BENEDETTI
Il ballo angelico
Mondadori, pagine 297, lire 2500.

Al terzo romanzo dopo II passo dei longobardi, che è del 1964, e dopo L’e ­splosione, appena di due anni fa, è do ­veroso chiedersi in primo luogo chi siano i destinatari della prolifica, im ­provvisa e crescente attività di roman ­ziere di Arrigo Benedetti. In passato, ai suoi esordi giovanili, prima di dedi ­carsi al giornalismo d’opinione e di di ­ventare un maestro autorevole e uni ­versalmente riconosciuto, col romanzo Benedetti non si era cimentato mai. Erano anni diversi, il gusto della scrit ­tura, intorno al ’40, sdegnava la prosa e la realtà dei fatti, infliggere storie era cattivo slancio. Ma potrà sembrare strano che lo scrittore si misuri pro ­prio adesso con un genere dal quale tutti nuovamente si allontanano. E’ che il romanzo, l’incontro col romanzo ha tutta l’aria di essere stato per Be ­nedetti un istinto coperto e maschera ­to negli anni, calcolato come un even ­to sempre rinviato, assaporato e previ ­sto. Gusto della storia, noia e insoddi ­sfazione della letteratura: la lunga pa ­rentesi giornalistica era dunque un’in ­cubazione.

« Romanzi storici » sono stati defini ­ti Il passo dei longobardi e L’esplosio ­ne: ma si tratta di un cartellino che si vorrebbe riempire in fretta d’altri ap ­punti. La scrittura di Benedetti è an ­cora la stessa, anzi i suoi caratteri si vanno precisando sempre più: una gof ­faggine o innata o voluta, una sempli ­cità che svolta con naturalezza nell’ar ­tificio e nel ghirigoro, un fare distratto e sbadato, schizzinoso nel nominare le cose. L’ambizione è di una prosa im ­palpabile, « flou », che riempia il qua ­dro di tante minuzie, svogliatamente, a un modo retrattile che non è nem ­meno descrittivo, nemmeno impressio ­nistico. Più che mai, oggi come un quarto di secolo fa, Benedetti inorridi ­rebbe alla sola idea di « raccontare ». Pena la volgarità, qualsiasi struttura romanzesca è impensabile, i fatti non si possono riferire. Si possono insinua ­re, evocare, suggerire. Narrare è met ­tersi in un punto privilegiato, innalza ­re un’antenna e aspettare le vibrazio ­ni. Così Benedetti si avvicina alla sto ­ria: lo scrittore ha bisogno di finzioni vere, spiando le quali si possa sentire protetto dalla realtà senza per questo darle il minimo credito.

Se si fosse limitato a coltivare en artiste il suo « ascolto » degli avveni ­menti della storia d’Italia, che fanno ancora la cronaca di ieri, probabilmen ­te ci troveremmo di fronte a un isola ­to artigiano attento alla decorazione di un’epoca, maestro di una privata fabbrica, di motivi ornamentali. Ma con la sua prosa « atmosferica », allu ­siva, ricca di risonanze e di ammicchi, Benedetti mira piuttosto a restituire il secondo « passo » della storia, il ritmo dei fatti che avvengono da sempre e per sempre e non accadono mai, l’eter ­na, concentrica spirale per cui tutto muta e ritorna incessantemente al me ­desimo punto d’origine. La sua voca ­zione si complica, si richiama a una terra precisa, si immerge nel mistero, amoreggia con la saga. Fatti e perso ­ne, avvenimenti pubblici e privati s’intrecciano ritrovandosi sempre nel ­lo stesso luogo, ripetendo una vicenda che scorre sotterranea da secoli.

Epicentro di questo universo le mu ­ra di Lucca, i monti e le selve che accerchiano la piccola città impenetrabi ­le, la regione tra il Serchio e l’Appennino coi suoi stretti valichi che furono un tempo crocevia del mondo, transito coi Paesi del nord, impervio rifugio di eretici e di mercanti, avara gente di denaro e di fede. Qui la storia passa e ripassa senza che niente trapeli, notti interminabili avvolgono la vicenda del mondo, la ricoprono di un soprannatu ­rale mantello-fantasma che rende im ­probabili, incerte e precarie le inter ­mittenti luci del giorno. La storia sprofonda in quelle valli, cammina con un suono di terra smossa, frane si susseguono ma l’aspetto del paesaggio non cambia, la realtà è un insieme di dissolvenze, niente possiede contorni netti e certi. Che parte può recitare la storia, in questo universo dalle archi ­tetture indefinite, in questa terra to ­scana che tutte le ha viste? La storia, insinua Benedetti, è una leggenda che si ripete da sempre, un’invenzione del diavolo, un’iscrizione ricoperta dal muschio delle cose che crediamo vi ­venti. Quello che aiuta i viandanti smarriti nel fitto buio delle parvenze è il bene della cultura, prima ancora dell’ambiguo dono dell’arte.

Osservati tenendo conto del cammi ­no dello scrittore, questi romanzi ci raccontano tutti un’autobiografia: la storia di un narratore « ermetico », di inquiete sensazioni chimeriche, il qua ­le si libera a poco a poco delle sue ori ­gini, passa ad altre esperienze, esce dall’orto della provincia e si persuade dell’esistenza di una élite culturale na ­zionale, italiana. C’è stata qualcosa co ­me una contaminazione, l’ermetismo fiorentino si ribella a se stesso, chiari ­sce la propria fisionomia antifascista, sposa lo storicismo e Croce. Le pre ­messe restano identiche: l’aristocrazia del sapere, il luogo magico dove si presume che la cultura e il potere pos ­sano reciprocamente e illuminatamente scambiarsi i ruoli. La storia appartie ­ne a pochi, ebbi occasione di osservare a proposito dell‘Esplosione, è per Be ­nedetti un privilegio, una conquista, una grazia. Oggi potrei aggiungere che la riduzione della storia alla mon ­danità di se stessa, alla sua funzione, alla sua vernice pubblica, è diventata per lo scrittore un’ossessione, il suo vero idolo. Il feticcio che egli adora, come uomo di cultura esperto dei se ­greti del mondo, e al quale oscura ­mente si ribella, dal fondo della sua provincia, come lucchese radicato alla terra e al suo sangue.

Ignoro se un’élite culturale esista, se sia mai esistita, e se uno scrittore pos ­sa nel suo lavoro inventarne o suppor ­ne l’esistenza. Fatto sta che questo è il pubblico per il quale Benedetti par ­la e scrive. Udienza non tanto di pala ­ti fini, ma appunto di orecchie sensibi ­li, pronte a registrare il non detto, a di ­scuterlo, a confrontare le note recon ­dite. E qui avviene una seconda conta ­minazione, un patrimonio di misteri: lo scrittore ritornato alle origini ritro ­va antichi maestri d’incertezza, vecchi dèi locali, numi tutelari dei boschi: Pa ­scoli, innanzi tutto, l’universo come « baratro frondoso » e indistinto, come rustico vaso mistico, e un « notturno » di gusto non dannunziano, ma pucciniano, il mondo come lattiginosa alba perpetua, stagno di ore morte e inter ­medie, evanescente tragicommedia di larve. Non si parla mai, nei romanzi di Benedetti, ma si sussurra, si mor ­mora, le voci forse non sono voci, ma pensieri, comunque sconfinano in so ­spiri, o, per usare il verbo più caro al ­lo scrittore, svaniscono, si perdono nel niente. Tutto è forse, tutto è « chis ­sà ». Emergono correlativi montaliani, oggetti improvvisamente cer ­tificanti, rumori nel silenzio, fruscii: stoviglie che risplendono, imposte che sbattono, spari nella campagna. Sem ­bra che i personaggi di Benedetti fac ­ciano fatica ad esistere senza il soste ­gno dei fatti appartenenti alla pubbli ­ca memoria, senza una garanzia socia ­le, uno stemma mondano. Così lo scrit ­tore chiede aiuto alla storia. Ieri, nel- l‘Esplosione, il giovane figlio di uno squadrista partiva da Lucca per ucci ­dere Mussolini, e il proposito dell’at ­tentato era un modo di esistere. Oggi nel Ballo angelico, un noto uomo di musica si rintana tra i suoi monti natii, cerca la solitudine « non per stanchez ­za, o per momentaneo disgusto del mondo, bensì soltanto per capriccio ».

Siamo negli anni della guerra ’14-’18, in una villa dei dintorni di Lucca: Il musicista, Michele, uomo di sentimenti teneri, ma incline di malavoglia al sadismo, compone di notte, diffonden ­do le melodie per le valli e spostando ­si continuamente, seduto su uno sga ­bello girevole, tra il pianoforte e il ta ­volo ingombro di carte. Va a caccia, adora il gioco di uccidere. Ama le bat ­tute volgari, gli scherzi, si di verte , ad accendere tutte le luci dell’assurdo pa ­lazzo tra i monti proiettando sul prato antistante i tanti riquadri delle fine ­stre splendenti. Piace alle donne, ami ­ci e visitatrici non lo lasciano in pace. Ha una moglie gelosa. Odia la guerra, nutre coperti sentimenti filo-germani ­ci. E’ superiore a tutto ciò che lo circon ­da, sa che la sua felicità pesa a quelli che vivono con lui. Usa piegare il col ­lo sulla spalla destra, un vezzo che si accentua davanti all’obiettivo. Credo sia superfluo insistere nell’identificazione, tanto più che Donna Elvira, la moglie tormentosa, porta nel ro ­manzo il nome di Floria. La giovane domestica di casa Puccini, invece, Doria Manfredi, suicida nel gennaio del 1909, sciagurata protagonista di una tragedia che sconvolse la vita del com ­positore e aggravò la sua già penosa si ­tuazione coniugale, è diventata Lucia, muta, piccola ombra contadina dagli occhi spaventati e vuoti. Lo scrittore altera i tempi e i luoghi: da Massaciuccoli saliamo verso i monti, mentre vie ­ne spostata di qualche anno in avanti, in piena guerra mondiale, la data del tragico caso.

Che cosa Benedetti si è ripromesso affrontando questa più triste che dan ­nata materia, a parte le implicazioni storiche che ho cercato di definire fino ­ra? Forse interessava allo scrittore co ­gliere il demonio di una vita pubblica, spiare il male della gloria. E il diavo ­lo, misteriosamente atteggiato come « il signore dal piede forcuto », recita certamente una parte nel romanzo. Ma Benedetti si mantiene volutamen ­te al di qua di interessi, per così dire, thomasmanniani: il « ritratto dell’arti ­sta », nel senso di un’indagine del mi ­stero creativo, non lo tocca per niente. Se c’è una cosa che tace, nel Ballo an ­gelico, è la musica. E appunto perché qualcuno di essi è riprodotto fedel ­mente, i connotati di Puccini vengono scomposti, e sta bene: il protagonista, Michele, è visto dall’esterno, studiato nei suoi gesti, accanitamente ridotto a segno esteriore di un’epoca.

Ma nello stesso tempo si ha l’impressione inversa, che lo scrittore stinga in modo prepotente e interiore sul personaggio. Così torna difficile non tanto districare il momento della storia da quello dell’invenzione, quan ­to distinguere tra il versante romanze ­sco della vicenda e quello di una in ­corporea, leggera, eppure greve autobiografia di umori e sensazioni.

 


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Bart