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LETTERATURA: I MAESTRI: Giorgio Bassani. Quando l’airone chiude le ali

29 Dicembre 2015

di Cesare Garboli
[da “La fiera letteraria”, numero 44, giovedì, 31 ottobre 1968]

GIORGIO BASSANI
L’airone
Mondadori, pagine 210, lire 2000

Basta gettare uno sguardo anche soltanto sui titoli della produzione narrativa di Giorgio Bassani, perché salti agli occhi un gusto funerario di tale naturalezza da non lasciare nem ­meno sorpresi. Lo si direbbe un’osses ­sione, la spia di un fatto tecnico, un gusto che, cresciuto, arriverebbe pre ­sto alla natura morta olandese con tanto di bicchieri, clessidre e selvaggi ­na se lo scrittore ne apparisse voglio ­so e consapevole. E’ qualcosa di più, invece, e di meno. Oggi può essere una scelta, ma ieri era un tic: Gli ulti ­mi anni di Clelia Trotti, Una lapide in via Mazzini, Una notte del ’43…

Ma anche La passeggiata prima di cena, Gli occhiali d’oro e perfino quel primo titolo che ripete un semplice nome e cognome, Lida Mantovani (che nome senza scampo!), anche que ­sti erano titoli luttuosi. Il freddo ri ­flesso metallico della cerchiatura delle lenti, e le lenti stesse, il vetro, il cri ­stallo, palesi emblemi di un’eterna cu ­stodia di cose morte, e la passeggiata rituale, quadro figé, bloccato dall’ester ­no: eterna cerimonia dei quattro passi nel crepuscolo sceso sui bastioni de ­serti o sulla via principale, prima che ci si raccolga nel bozzolo di luce del desco di famiglia, attorniati dalla tene ­bra, pronti per il rito delle stoviglie luccicanti, per un’altra funzione morta prima di essere consumata.

Esiste in Bassani, come in tutti gli scrittori cresciuti alla scuola delle arti figurative, un gusto particolare della « luce ». Figlio di Montale in letteratu ­ra, nella « composizione », nella sensi ­bilità alle distanze, ai rapporti, agli spazi, Bassani è figlio di Morandi. La sua « luce », lo sguardo che egli lascia cadere sulle cose non è mai crepusco ­lare, ignora le dolcezze, l’intimità, il tenero naufragio nel sentimento, di ogni romantica accensione vespertina. Bassani è un lirico, ma dannato a un occhio impoetico di arido osservatore positivista. Prima di tutto il suo occhio « valuta ». E la sua è una luce da mu ­seo, una luce, se si potesse dire, insie ­me struggente e « anatomica », mor ­tuaria e dorata, da camposanto o da parco gentilizio rasserenati da fiori e prati discreti, illustrati con lapidi ar ­gentate da uno strato di polvere digni ­tosamente composta. E’ la luce palli ­da, perfetta, supremamente signorile, della vita finalmente immune da se stessa (che cos’altro è il lutto?), con ­trita di esistere, e dunque finalmente sacra, finalmente veneranda.

Storie che sanno di musica

Per oggetti morti, scrittura morta. Sempre di più Bassani ambisce a rac ­contarci le sue storie con un piatto linguaggio da rogito notarile e da scar ­toffia burocratica. Non un linguaggio defunto (il vecchio « discorso indiretto libero »), ma addirittura la copia, l’i ­mitazione, il calco di una lingua mor ­ta. Non sempre la copia è ironica, en artiste: la scrittura di Bassani è pro ­prio la scrittura di Bassani, tenuta in ­sieme da quei famosi e irritanti « me ­no che niente », « in breve », « in prati ­ca », « tutto sommato »… Lo scrittore non saprebbe inventarsene un’altra. Ci troviamo davanti a un linguaggio assolutamente medio, curiale, e assolu ­tamente irreale quanto sapiente di ac ­cordi, clausole, « cursus ». Storie che sanno di musica, scritte con l’orecchio. Se Bassani è oggi uno dei pochi « crea ­tori » di resistenti e autonomi universi d’arte, lo si deve al fatto che le sue « creazioni » narrative sono organizza ­te secondo retorica, costruite artificial ­mente, attraversate da un’implicita, incorporea vocazione critica, sottile come una pellicola o una lente a con ­tatto. Mai s’era visto un tale elementa ­re matrimonio di virgolette e di espressione diretta, di falsetto manie ­ristico e di linguaggio che è tutto un rituale di luoghi comuni.

Senza la protezione di questi scher ­mi mortuari, senza questo nero scudo orlato di ori « lirici », Bassani non sa ­rebbe riuscito a raggiungere nessuna delle sue rappresentazioni. La sua ar ­te presuppone i bruni altipiani dell’a ­sfodelo. Perfino tecnicamente assomi ­glia al contrastato sciogliersi di una sclerosi. Nella Passeggiata prima di ce ­na, la prospettiva ferrarese di corso Giovecca è messa sotto vetro, visualiz ­zata nella decrepita immobilità di una fotografia « ingiallita dal tempo, mac ­chiata d’umidità » dentro la quale s’i ­scrive la storia. Geo Josz, il personag ­gio fantasma di Una lapide in via Mazzini, è un deportato redivivo, un morto che cammina; e con perfetta aderenza al tema, la vicenda di Clelia Trotti comincia e finisce in un campo ­santo. Ma Gli occhiali d’oro ci offrono addirittura quest’incipit: « Il tempo ha cominciato a diradarli, eppure non si può ancora dire che siano pochi, a Ferrara, quelli che ricordano il dottor Fadigati: Athos Fadigati, l’otorinola ­ringoiatra… ». La morte viene cercata, tallonata, se ne comincia a sentire la vicinanza, l’alito, comincia a coincide ­re con un vicino passato da esplorare.

Sarà superfluo ricordare da dove prendano le mosse i Finzi-Contini: la gita alle necropoli etrusche, i popoli sommersi, l’avvio del primo capitolo: « La tomba era grande, massiccia, pro ­prio imponente: una specie di tempio vagamente antico e vagamente orien ­tale… ». Le scadenze del gusto mortua ­rio di Bassani osservano un ritmo davvero impressionante. Ma che cosa spinge lo scrittore verso il mostruoso mausoleo dell’antica famiglia ferrare ­se, che cosa lo attrae? La morte, si sa, santifica il passato perché lo oblia, perché lo seppellisce, perché fa presto a dimenticarsi come e quanto era sta ­to, quel passato, anch’esso uno stupi ­do, inesistente inferno di vita. Conti ­nui pure, la vita, « la famosa vita » (come dirà nell‘Airone Edgardo Li ­mentani) a scarabocchiare i suoi lazzi triviali, le sue chiassose volgarità, a imbrattare di parole oscene il superbo, incorruttibile marmo del Niente. Ma ­dre sollecita e servizievole, invisibile serva e padrona, la morte lava, pulisce quei segni volgari, ma non li distrug ­ge. Li conserva, li iscrive nel suo illeg ­gibile libro dai cento significati invio ­labili, li trasforma in certezze e valori, fa tutto lei, la morte: memorizza e di ­mentica, inghiotte e consacra, dice la verità e la nasconde. Nel suo puro esi ­stere, possiede tutta la bellezza indete ­riorabile che non ci compete. E dun ­que ha gli stessi caratteri immobili e vivi, la stessa muta, magica sicurezza dell’arte. Soltanto la morte è « esteti ­ca »…

Una domenica di caccia in botte

Mentre Bassani lavora su elementi morti, li contesta con tutto se stesso, si ribella, si dibatte nel suo stesso ven ­tre: il pigro ventre di Edgardo Limen ­tani. E’ probabile che lo scrittore ab ­bia preso coscienza della natura singo ­lare del proprio « flaubertismo » negli Occhiali d’oro, nel momento in cui l’imprendibile narratore delle Storie ferraresi, nascosto tra le pieghe del racconto, emergeva dal limbo del non ­essere come un « io » vivente, esibiva il suo biglietto da visita, diceva « chi era » senza per questo riconoscersi co ­me « personaggio ».

Bassani segue Flaubert fin tanto che il grande maestro lo guida per i sentieri dell’oggettività indirettamente lirica, tragica e oratoria. Ma volta le spalle al « flaubertismo » nel punto in cui gli strumenti dell’oggettività di ­ventano negativi e simbolici. Bassani non può « mortificare » oggetti già morti, lavora su cadaveri, con procedimento analogo e opposto a quello di un imbalsamatore. Quest’operazione lo candida a rappresentare oggigiorno una figura di scrittore, una funzione poetica estremamente contemporanea e inattuale. Bassani nega i suoi truc ­chi mentre ci si danna sopra, mira ad afferrare se stesso « al di fuori » del ­l’arte. Bassani si « serve » dell’arte, la « adopera ».

Il mistero intrigante dei suoi compi ­ti narrativi è tutto qui. Si avverte, nei libri di Bassani, la presenza portante di una persona che non smette di al ­lungare in quelle forme chiuse l’om ­bra del suo vivo cordone viscerale. La si avverte con l’imbarazzante disagio che nasce da un cibo appetitoso che ci aggredisce. Bassani ci dà sempre da mangiare qualcosa. E nel momento in cui un « io » ansioso d’esistere, di « de ­terminarsi » si defilava contro le glo ­rie magiche del « pio passato », contro la mistica della morte, nascevano i Finzi-Continì. Bisognava restituire il museo, la sclerosi alla vita. E’ vero: il romanzo di Bassani coincideva con le prime luci del centro-sinistra, col mi ­racolo, con la piccola-borghesia delle utilitarie. L’arte è astuta per definizio ­ne. Del resto, Bassani era il primo a conoscersi. In Dietro la porta, la sola opera di Bassani che non ospiti riferi ­menti funerari, l’io narrante, corazza ­to di sprezzante risentimento verso un compagno di studi, si riconosceva « in ­capace d’amare », si autodefiniva « il solito piccolo, impotente sicario di sempre ». In quella pagina tra le più inconsce dello scrittore, l’io-artista di Bassani affermava e negava se stesso, percepiva le proprie difese, raggiunge ­va la vergognosa, morta origine del suo futuro destino di poeta.

Storia non di un suicidio, ma di una rivelazione e contemplazione della morte, L’airone è scritto in terza per ­sona. Riconosciuta un’impotenza di vi ­ta, libero da se stesso, Bassani ha im ­parato a trasporsi, a raccontare. Ora può guardare in faccia l’antico, mor ­tuario idolo materno, stanare la bestia odiata e adorata. Della morte sente il fiato di animale agonizzante a pochi centimetri da lui. Può scrutarla, osser ­varla, studiarla, « leggerla ». E può de ­cifrarne il profondo, sublime meccani ­smo compensatorio.

Nello spazio di una domenica di cac ­cia in botte, nelle valli tra Codigoro e Pomposa, Edgardo Limentani, pro ­prietario terriero, conquista la trava ­gliata consapevolezza di essere morto « dentro ». Come certi uccelli che il fu ­cile disdegna, come gli aironi, può fare il suo bell’effetto soltanto se impaglia ­to. La gita in valle, la giornata di cac ­cia è una ricerca e una fuga: Limenta ­ni scappa non appena fiuta odore di diversità, di « vita ». Scappa dalla vi ­sta della figlia, dalla vecchia portine ­ria, dal contatto telefonico con un al ­loggio rumoroso. Fuggire lo delude, ma lo sveglia e lo stranisce, lo eccita. E’ chiamato dalla morte, le corre in ­contro. Ma quando se la sente addos ­so, vicina in un airone ferito, il povero Limentani non ha scampo, scende una pazza scala di compensazioni precipi ­tose. Mangia, beve, dorme, sogna, deli ­ra. Prende coscienza di tutta la sua goffa, grottesca solitudine di grossa mummia ingombrante. E nello stesso momento, nella piazza di Codigoro, tra un alto caseggiato INA e l’ex-casa del Fascio, davanti a una vetrina di ani ­mali impagliati, sorta di stregonesca camera delle meraviglie, scoppia in lui la cognizione ilare, improvvisa, della vertiginosa felicità della morte.

L’airone può leggersi a tanti livelli, possiede diverse scritture. E’ allegoria del processo creativo (la meticolosa ossessione con cui Limentani misura tempi, spazi, qualità e simmetrie delle cose). E’ novella percorsa da una cre ­scente comicità, da un rire baudelairiano per la coincidenza di tragedia, assurdo e stupidità ( « La cocorita? Co ­sa c’entra la cocorita? »). Può darsi che alterni pagine perfette (la vetrina, il volo delle anitre, la stanza dei custo ­di, il colloquio con la madre) ad altre che lo sono meno. Ma questi giochi d’arte più e d’arte meno poco s’adatta ­no a un libro come questo. In un mon ­do che non vuole più saperne di vivere, nel suo grandioso « trionfo » la morte non poteva imbattersi in un antagoni ­sta, in un dissidente di più cocciute, resistenti armi laiche.

 


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