LETTERATURA: I MAESTRI: Calvino. Giù negli abissi del mondo2 Gennaio 2016 di Cesare Garboli ITALO CALVINO Ho sempre pensato che per Italo Calvino, il quale passa per essere uno storicista e un illuminista, critico e saggista di fiera ispirazione militante e impegnata, agguerrito ideologo del la letteratura, e, oggi, della « crisi », i fatti umani e storici siano stati infini tamente meno importanti dei fatti in consci. Sotto la vernice del rigorismo intellettuale di area piemontese, gram sciana e pavesiana, sotto la precisione, la lucidità impeccabile del segno, e dietro lo schermo delle sue invenzio ni romanzesche, delle sue favole e al legorie, dei suoi « contes philosophiques », ho sempre avvertito in lui una presenza diversa, la spinta di un ine spresso ordine di emozioni che sareb be improprio definire irrazionali: qual cosa di rimosso, certamente, ma an che di immaturo, di vitale, di insof ferente, come è dei corpi femminei quando si agitano irrequieti tra le co perte â— se la similitudine è lecita â— irritati da un ingombro o da una im potenza, così da esprimere la propria scontentezza ora con una serietà e im mobilità di troppo, ora con una gra zia capricciosa, volubile, allusiva di tutto ciò che è impossibile comunica re. Questa materia oscura ma incan descente, viva ma incomunicabile, pro fondamente contraddittoria, era desti no che Calvino si decidesse, un gior no, a verbalizzarla. E’ quello che ha fatto non con le Cosmicomiche, due anni fa, ma col recente T con zero. Come è avvenuto che il fantasioso in ventore de I nostri antenati si è de ciso a dirci, forse per la prima vol ta, uscendo dalla brillante fortezza di se stesso, qualche cosa di lui? Costruito con uno sforzo, e anche con un piacere, di dolorosa sofistiche- ria, di ardua capziosità, T con zero è un libro ossessionato dal passato. « Ciò che i genitori mi hanno detto di esse re in principio, questo io sono: e nient’altro… Quello che veramente ognu no di noi è ed ha, è il passato; tutto quello che siamo e abbiamo è il catalogo delle possibilità non fallite… Non esiste un presente, procediamo ciechi verso il fuori e il dopo, svilup pando un programma stabilito con ma teriali che ci fabbrichiamo sempre uguali. Non tendiamo a nessun futu ro, non c’è niente che ci aspetta, sia mo chiusi tra gli ingranaggi di una memoria che non prevede altro lavo ro che il ricordare se stessa. Quello che ora porta Priscilla e me a cer carci non è una spinta verso il dopo: è l’ultimo atto del passato che si com pie attraverso di noi ». Figli di un passato che costituisce una serie di « prove pronte a ripetersi », non sia mo che vuoto, separazione e attesa: « Crediamo di andare verso le nostre nozze e sono ancora le nozze dei pa dri e delle madri che si compiono at traverso la nostra attesa e il nostro desiderio ». La libertà d’agire, l’indivi dualità s’iscrive soffocata in un siste ma di segno zero: « Alle volta mi pren de l’incertezza se io sono veramente la somma dei caratteri dominanti del passato, il risultato d’una serie di ope razioni che davano sempre un nume ro maggiore di zero, o se invece la mia vera essenza non piuttosto quel la che discende dalla successione dei caratteri sconfitti, il totale dei termi ni col segno meno, di tutto ciò che nell’albero delle derivazioni è rima sto escluso soffocato interrotto: il pe so di quello che non è stato m’incom be addosso non meno schiacciante di ciò che è stato e non poteva non es sere ». Viviamo, insomma, prigionieri di una fortezza, inchiodati allo spazio tempo di un universo che è ciclo di perpetua e mutevole immobilità. Per il fatto di essere ignota a noi che ten tiamo di evaderne, la fortezza-univer so ci si configura come un labirinto, ma nello stesso tempo non possiamo pensarla che come una struttura. « La vorando di ipotesi riesco alle volte a costruirmi un’immagine della fortezza talmente persuasiva e minuziosa da potermici muovere a tutto mio agio col pensiero; mentre gli elementi che ricavo da ciò che vedo e ciò che sento sono disordinati, lacunosi e sempre più contraddittori… Partendo dal di sordine di questi dati, vedo in ogni ostacolo isolato l’indizio d’un siste ma di ostacoli, sviluppo ogni segmen to in una figura regolare, saldo que ste figure come facce di un solido, po liedro o iperpoliedro, iscrivo questi poliedri in sfere o in ipersfere, e co sì più chiudo la forma della fortezza più la semplifico, definendola in un rapporto numerico o in una formula algebrica ». La fortezza-universo in cui viviamo, più che una struttura, ne è dunque solamente il perenne proget to, la realtà è un insieme di probabi li: « Viviamo, noi non liberi, circon dati di libertà, spinti, agiti da quest’on da continua che è la combinazione dei casi possibili e che passa attraverso quei punti dello spazio e del tempo in cui la raggera dei passati si salda alla raggera dei futuri ». In tanta se rie di combinazioni, quello che vera mente appare impossibile è fuggire: « Se la prigione è circondata dal mio fuori, quel fuori mi riporterebbe den tro ogni volta che riuscissi a raggiun gerlo: il fuori non è altro che il pas sato ». Dentro questo universo simile a una immensa, cifrata tomba parmenidea, è una domanda oziosa chiedersi quale parte sia assegnata all’uomo. Possia mo essere, a volta a volta, murati nella sfera delle cose (vivere è far parte di una struttura), o navigare nel vasto buio, rincorrendoci, separan doci, lasciando alle spalle scie di mes saggi, liberati finalmente dallo spes sore ingombrante delle nostre perso ne, voci, stati d’animo: « Ciò che con ta è ridurre noi stessi a comunica zione essenziale, a segnale luminoso che si muove in una data direzione, abolendo la complessità delle nostre persone e situazioni ed espressioni facciali, lasciandole nella scatola d’om bra che i fari si portano dietro e na scondono ». E’ qui, dicevo, che Calvi no ci confida qualche cosa di sé: la sua impotenza a esistere, che si tra sforma nell’idea vittoriosa, nella con sapevolezza trionfante e dolorosa di esistere soltanto nella propria scrit tura. E’ probabile, anzi è certo, che sotto la coincidenza di essere e scri vere, ipertrofizzata nella figura della realtà come sistema di segni, del l’universo come libro e progetto, agi sca una complicata somma di inte ressi intellettuali, e una vocazione che si sta orientando sul modello di Bor ges. Ma la piega letteraria di T con zero â—un insieme di tre parti di di verso voltaggio emotivo, obbediente a una pluralità eccitante di maniere (nel paragrafo dal titolo Morte c’è un suono, un lento da freddo delirio volponiano) â— conta assai meno rispetto alla prontezza con la quale lo scritto re ha risolto la propria costituziona le ambivalenza, rinunciando una volta per tutte a inseguire realisticamente la « complessità della propria per sona ». E’ sempre esistita, si sa, una dop pia natura in Calvino: un volto ilare, spensierato, innamorato della vita, e, dietro, un nero ceffo che occhieggia. Il curioso è che in questa faccia nes suno dei due profili sembra prendere l’altro sul serio. Tra i due sguardi non c’è solo conflitto, ma addirittura dileg gio reciproco. Anche se i centri della fantasia calviniana parevano, qualche volta, perfino severi (Calvino non scri ve mai per gioco), la vena del suo in chiostro si sarebbe detta, fin dalle ori gini, incapace di resistere alla serie tà. E allo stesso modo, il suo approc cio con la realtà è sempre stato sem plicissimo, diretto, dotato di immedia ta forza d’urto, eppure lo scrittore la sciava spesso intendere che attraverso la precisione, il colore, egli stava inseguendo piuttosto il sentimento intellettuale della complicazione. E’ che in Calvino esiste una specie di ottica della vecchiaia, una saggezza spunta in un organismo del tutto re stio alla maturità: mentre la natura dello scrittore è portata infantilmente a comporre tutto in armonia, la sua struttura intellettuale non fa invece che avvertire contrasti, che coesistere come insieme di contraddizioni. Sul la prosa, si avverte un’increspatura, un fare paterno, è la scrittura che vezzeggia se stessa. Oppure, a inter rompere il flusso di una scrittura che ha sempre mirato a costruire se stes sa in solitudine, prima con procedi menti gotici e figurativi, oggi in un gusto astratto e geometrico, da espres sione algebrica con le sue parentesi e le sue radici quadrate, soccorreva una disposizione che bisognerà pur chiamare « umoristica ». La categoria del buffo, il gusto ariostesco della vi ta, mentre lo scrittore era sul punto di fuggire tra mille ghirigori, diven tava il veicolo più serio perché egli potesse ritornare coi piedi per terra. Questo ambiguo rapporto tra senso della realtà e percezione della sua essenza « meravigliosa » e sofistica, tra limpidezza di segno e mistero, è riuscito a Calvino finché egli si è ci mentato con la fiaba. Autentico « fi glio », per esprimersi Calvino aveva bisogno nei confronti delle cose e del le persone, e anche nei confronti di se stesso, di uno schermo, di un rap porto da finto padre. Così ha condot to il gioco fin che ha potuto. Ma die tro lo smalto delle sue invenzioni, die tro quello schermo, si sentiva anche un’avidità di essere, un bisogno di identificarsi. E’ vero, l’identità dello scrittore coincideva con lo stile, ma lo stile, a sua volta, era piuttosto una mimica totalità di. doti, la tastiera di un virtuoso che congiurava contro la diretta espressione di chi suonava. E, per anni, Calvino ha cercato se stesso dal suo lato mancino, misuran dosi e impegnandosi con la storia, con tutto ciò in cui non crede. A scaden ze che non erano certo occasionali, di segnava la sua autobiografia: perce zione della propria ambivalenza (Vi sconte dimezzato), sublimazione iro nica del proprio problema (Barone rampante), sofferenza di non consiste re, di non esistere proprio quando gio strava (Cavaliere inesistente). Oggi, compiuta la sua discesa verso la preistoria e gli abissi del mondo, regredito allo sguardo della cellula, ri tuffatosi nel suo vivo e spazioso ele mento, un’infinita infanzia originaria, fuori da tutto ciò che egli sente stu pidamente e convenzionalmente adul to, Calvino può finalmente respirare l’aria che gli è più congeniale. Libero da falsi modelli interni, si offre per quello che è: un enigma inconscio, che cerca di decifrare le ragioni del la propria lunga prigionia. Con una scrittura che assomiglia a proiezioni di solidi che non esistono, o allo spar tito di una musica che non c’è, alma nacca, arzigogola, rimugina. « Ora che, passati gli anni, ho smesso d’arrovellarmi sulla catena d’infamie e di fatalità che ha provocato la mia de tenzione, una cosa ha compreso: che l’unico modo di sfuggire alla condi zione di prigioniero è capire come è fatta la prigione ».
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