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LETTERATURA: I MAESTRI: Calvino. Giù negli abissi del mondo

2 Gennaio 2016

di Cesare Garboli
[da “La fiera letteraria”, numero 49, giovedì, 7 dicembre 1967]

ITALO CALVINO
T con zero
Einaudi, pagine 167, lire 1500.

Ho sempre pensato che per Italo Calvino, il quale passa per essere uno storicista e un illuminista, critico e saggista di fiera ispirazione militante e impegnata, agguerrito ideologo del ­la letteratura, e, oggi, della « crisi », i fatti umani e storici siano stati infini ­tamente meno importanti dei fatti in ­consci. Sotto la vernice del rigorismo intellettuale di area piemontese, gram ­sciana e pavesiana, sotto la precisione, la lucidità impeccabile del segno, e dietro lo schermo delle sue invenzio ­ni romanzesche, delle sue favole e al ­legorie, dei suoi « contes philosophiques », ho sempre avvertito in lui una presenza diversa, la spinta di un ine ­spresso ordine di emozioni che sareb ­be improprio definire irrazionali: qual ­cosa di rimosso, certamente, ma an ­che di immaturo, di vitale, di insof ­ferente, come è dei corpi femminei quando si agitano irrequieti tra le co ­perte â— se la similitudine è lecita â— irritati da un ingombro o da una im ­potenza, così da esprimere la propria scontentezza ora con una serietà e im ­mobilità di troppo, ora con una gra ­zia capricciosa, volubile, allusiva di tutto ciò che è impossibile comunica ­re. Questa materia oscura ma incan ­descente, viva ma incomunicabile, pro ­fondamente contraddittoria, era desti ­no che Calvino si decidesse, un gior ­no, a verbalizzarla. E’ quello che ha fatto non con le Cosmicomiche, due anni fa, ma col recente T con zero. Come è avvenuto che il fantasioso in ­ventore de I nostri antenati si è de ­ciso a dirci, forse per la prima vol ­ta, uscendo dalla brillante fortezza di se stesso, qualche cosa di lui?

Costruito con uno sforzo, e anche con un piacere, di dolorosa sofistiche- ria, di ardua capziosità, T con zero è un libro ossessionato dal passato. « Ciò che i genitori mi hanno detto di esse ­re in principio, questo io sono: e nient’altro… Quello che veramente ognu ­no di noi è ed ha, è il passato; tutto quello che siamo e abbiamo è il catalogo delle possibilità non fallite… Non esiste un presente, procediamo ciechi verso il fuori e il dopo, svilup ­pando un programma stabilito con ma ­teriali che ci fabbrichiamo sempre uguali. Non tendiamo a nessun futu ­ro, non c’è niente che ci aspetta, sia ­mo chiusi tra gli ingranaggi di una memoria che non prevede altro lavo ­ro che il ricordare se stessa. Quello che ora porta Priscilla e me a cer ­carci non è una spinta verso il dopo: è l’ultimo atto del passato che si com ­pie attraverso di noi ». Figli di un passato che costituisce una serie di « prove pronte a ripetersi », non sia ­mo che vuoto, separazione e attesa: « Crediamo di andare verso le nostre nozze e sono ancora le nozze dei pa ­dri e delle madri che si compiono at ­traverso la nostra attesa e il nostro desiderio ». La libertà d’agire, l’indivi ­dualità s’iscrive soffocata in un siste ­ma di segno zero: « Alle volta mi pren ­de l’incertezza se io sono veramente la somma dei caratteri dominanti del passato, il risultato d’una serie di ope ­razioni che davano sempre un nume ­ro maggiore di zero, o se invece la mia vera essenza non piuttosto quel ­la che discende dalla successione dei caratteri sconfitti, il totale dei termi ­ni col segno meno, di tutto ciò che nell’albero delle derivazioni è rima ­sto escluso soffocato interrotto: il pe ­so di quello che non è stato m’incom ­be addosso non meno schiacciante di ciò che è stato e non poteva non es ­sere ».

Viviamo, insomma, prigionieri di una fortezza, inchiodati allo spazio ­tempo di un universo che è ciclo di perpetua e mutevole immobilità. Per il fatto di essere ignota a noi che ten ­tiamo di evaderne, la fortezza-univer ­so ci si configura come un labirinto, ma nello stesso tempo non possiamo pensarla che come una struttura. « La ­vorando di ipotesi riesco alle volte a costruirmi un’immagine della fortezza talmente persuasiva e minuziosa da potermici muovere a tutto mio agio col pensiero; mentre gli elementi che ricavo da ciò che vedo e ciò che sento sono disordinati, lacunosi e sempre più contraddittori… Partendo dal di ­sordine di questi dati, vedo in ogni ostacolo isolato l’indizio d’un siste ­ma di ostacoli, sviluppo ogni segmen ­to in una figura regolare, saldo que ­ste figure come facce di un solido, po ­liedro o iperpoliedro, iscrivo questi poliedri in sfere o in ipersfere, e co ­sì più chiudo la forma della fortezza più la semplifico, definendola in un rapporto numerico o in una formula algebrica ». La fortezza-universo in cui viviamo, più che una struttura, ne è dunque solamente il perenne proget ­to, la realtà è un insieme di probabi ­li: « Viviamo, noi non liberi, circon ­dati di libertà, spinti, agiti da quest’on ­da continua che è la combinazione dei casi possibili e che passa attraverso quei punti dello spazio e del tempo in cui la raggera dei passati si salda alla raggera dei futuri ». In tanta se ­rie di combinazioni, quello che vera ­mente appare impossibile è fuggire: « Se la prigione è circondata dal mio fuori, quel fuori mi riporterebbe den ­tro ogni volta che riuscissi a raggiun ­gerlo: il fuori non è altro che il pas ­sato ».

Dentro questo universo simile a una immensa, cifrata tomba parmenidea, è una domanda oziosa chiedersi quale parte sia assegnata all’uomo. Possia ­mo essere, a volta a volta, murati nella sfera delle cose (vivere è far parte di una struttura), o navigare nel vasto buio, rincorrendoci, separan ­doci, lasciando alle spalle scie di mes ­saggi, liberati finalmente dallo spes ­sore ingombrante delle nostre perso ­ne, voci, stati d’animo: « Ciò che con ­ta è ridurre noi stessi a comunica ­zione essenziale, a segnale luminoso che si muove in una data direzione, abolendo la complessità delle nostre persone e situazioni ed espressioni facciali, lasciandole nella scatola d’om ­bra che i fari si portano dietro e na ­scondono ». E’ qui, dicevo, che Calvi ­no ci confida qualche cosa di sé: la sua impotenza a esistere, che si tra ­sforma nell’idea vittoriosa, nella con ­sapevolezza trionfante e dolorosa di esistere soltanto nella propria scrit ­tura. E’ probabile, anzi è certo, che sotto la coincidenza di essere e scri ­vere, ipertrofizzata nella figura della realtà come sistema di segni, del ­l’universo come libro e progetto, agi ­sca una complicata somma di inte ­ressi intellettuali, e una vocazione che si sta orientando sul modello di Bor ­ges. Ma la piega letteraria di T con zero â—un insieme di tre parti di di ­verso voltaggio emotivo, obbediente a una pluralità eccitante di maniere (nel paragrafo dal titolo Morte c’è un suono, un lento da freddo delirio volponiano) â— conta assai meno rispetto alla prontezza con la quale lo scritto ­re ha risolto la propria costituziona ­le ambivalenza, rinunciando una volta per tutte a inseguire realisticamente la « complessità della propria per ­sona ».

E’ sempre esistita, si sa, una dop ­pia natura in Calvino: un volto ilare, spensierato, innamorato della vita, e, dietro, un nero ceffo che occhieggia. Il curioso è che in questa faccia nes ­suno dei due profili sembra prendere l’altro sul serio. Tra i due sguardi non c’è solo conflitto, ma addirittura dileg ­gio reciproco. Anche se i centri della fantasia calviniana parevano, qualche volta, perfino severi (Calvino non scri ­ve mai per gioco), la vena del suo in ­chiostro si sarebbe detta, fin dalle ori ­gini, incapace di resistere alla serie ­tà. E allo stesso modo, il suo approc ­cio con la realtà è sempre stato sem ­plicissimo, diretto, dotato di immedia ­ta forza d’urto, eppure lo scrittore la ­sciava spesso intendere che attraverso la precisione, il colore, egli stava inseguendo piuttosto il sentimento intellettuale della complicazione.

E’ che in Calvino esiste una specie di ottica della vecchiaia, una saggezza spunta in un organismo del tutto re ­stio alla maturità: mentre la natura dello scrittore è portata infantilmente a comporre tutto in armonia, la sua struttura intellettuale non fa invece che avvertire contrasti, che coesistere come insieme di contraddizioni. Sul ­la prosa, si avverte un’increspatura, un fare paterno, è la scrittura che vezzeggia se stessa. Oppure, a inter ­rompere il flusso di una scrittura che ha sempre mirato a costruire se stes ­sa in solitudine, prima con procedi ­menti gotici e figurativi, oggi in un gusto astratto e geometrico, da espres ­sione algebrica con le sue parentesi e le sue radici quadrate, soccorreva una disposizione che bisognerà pur chiamare « umoristica ». La categoria del buffo, il gusto ariostesco della vi ­ta, mentre lo scrittore era sul punto di fuggire tra mille ghirigori, diven ­tava il veicolo più serio perché egli potesse ritornare coi piedi per terra.

Questo ambiguo rapporto tra senso della realtà e percezione della sua essenza « meravigliosa » e sofistica, tra limpidezza di segno e mistero, è riuscito a Calvino finché egli si è ci ­mentato con la fiaba. Autentico « fi ­glio », per esprimersi Calvino aveva bisogno nei confronti delle cose e del ­le persone, e anche nei confronti di se stesso, di uno schermo, di un rap ­porto da finto padre. Così ha condot ­to il gioco fin che ha potuto. Ma die ­tro lo smalto delle sue invenzioni, die ­tro quello schermo, si sentiva anche un’avidità di essere, un bisogno di identificarsi. E’ vero, l’identità dello scrittore coincideva con lo stile, ma lo stile, a sua volta, era piuttosto una mimica totalità di. doti, la tastiera di un virtuoso che congiurava contro la diretta espressione di chi suonava. E, per anni, Calvino ha cercato se stesso dal suo lato mancino, misuran ­dosi e impegnandosi con la storia, con tutto ciò in cui non crede. A scaden ­ze che non erano certo occasionali, di ­segnava la sua autobiografia: perce ­zione della propria ambivalenza (Vi ­sconte dimezzato), sublimazione iro ­nica del proprio problema (Barone rampante), sofferenza di non consiste ­re, di non esistere proprio quando gio ­strava (Cavaliere inesistente).

Oggi, compiuta la sua discesa verso la preistoria e gli abissi del mondo, regredito allo sguardo della cellula, ri ­tuffatosi nel suo vivo e spazioso ele ­mento, un’infinita infanzia originaria, fuori da tutto ciò che egli sente stu ­pidamente e convenzionalmente adul ­to, Calvino può finalmente respirare l’aria che gli è più congeniale. Libero da falsi modelli interni, si offre per quello che è: un enigma inconscio, che cerca di decifrare le ragioni del ­la propria lunga prigionia. Con una scrittura che assomiglia a proiezioni di solidi che non esistono, o allo spar ­tito di una musica che non c’è, alma ­nacca, arzigogola, rimugina. « Ora che, passati gli anni, ho smesso d’arrovellarmi sulla catena d’infamie e di fatalità che ha provocato la mia de ­tenzione, una cosa ha compreso: che l’unico modo di sfuggire alla condi ­zione di prigioniero è capire come è fatta la prigione ».

 


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