LETTERATURA: I MAESTRI: Arrigo Benedetti20 Dicembre 2016 di Cesare Garboli Al terzo romanzo dopo Il passo dei longobardi, che è del 1964, e dopo L’esplosione, appena di due anni fa, è dove roso chiedersi in primo luogo chi siano i destinatari della prolifica, improvvisa e crescente attività di romanziere di Arrigo Benedetti. In passato, ai suoi esordi giovanili, prima di dedicarsi al giornalismo d’opinione e di diventarne un maestro autorevole e universalmente riconosciuto, col ro manzo Benedetti non si era cimentato mai. Erano anni di versi, il gusto della scrittura, intorno al ’40, sdegnava la prosa e la realtà dei fatti, infliggere storie era cattivo slan cio. Ma potrà sembrare strano che lo scrittore si misuri proprio adesso con un genere dal quale tutti nuovamente si allontanano. È che il romanzo, l’incontro col romanzo ha tutta l’aria di essere stato per Benedetti un istinto co perto e mascherato negli anni, calcolato come un evento sempre rinviato, assaporato e previsto. Gusto della storia, noia e insoddisfazione della letteratura: la lunga parentesi giornalistica era dunque un’incubazione. « Romanzi storici » sono stati definiti Il passo dei longo bardi e L’esplosione ma si tratta di un cartellino che si vorrebbe riempire in fretta d’altri appunti. La scrittura di Benedetti è ancora la stessa, anzi i suoi caratteri si vanno precisando sempre di più: una goffaggine o innata o voluta, una semplicità che svolta con naturalezza nell’artificio e nel ghirigoro, un fare distratto e sbadato, schizzinoso nel nomi nare le cose. L’ambizione è di una prosa impalpabile, « flou », che riempia il quadro di tante minuzie, svogliatamente, a un modo retrattile che non è nemmeno descrit tivo, nemmeno impressionistico. Più che mai, oggi come un quarto di secolo fa, Benedetti inorridirebbe alla sola idea di « raccontare ». Pena la volgarità, qualsiasi struttura ro manzesca è impensabile, i fatti non si possono riferire. Si possono insinuare, evocare, suggerire. Narrare è mettersi in un punto privilegiato, innalzare un’antenna e aspettare le vibrazioni. Così Benedetti si avvicina alla Storia: lo scrittore ha bisogno di finzioni vere, spiando le quali si possa sentire protetto dalla realtà senza per questo darle il minimo cre dito. Se si fosse limitato a coltivare en artiste il suo « ascol to » degli avvenimenti della storia d’Italia, che fanno an cora la cronaca di ieri, probabilmente ci troveremmo di fronte a un insolito artigiano attento alla decorazione di un’epoca, maestro di una privata fabbrica di motivi orna mentali. Ma con la sua prosa « atmosferica », allusiva, ric ca di risonanze e di ammicchi, Benedetti mira piuttosto a restituire il secondo « passo » della storia, il ritmo dei fatti che avvengono da sempre e per sempre e non accadono mai, l’eterna, concentrica spirale per cui tutto muta e ritor na incessantemente al medesimo punto d’origine. La sua vocazione si complica, si richiama a una terra precisa, si immerge nel mistero, amoreggia con la saga. Fatti e perso ne, avvenimenti pubblici e privati s’intrecciano ritrovandosi sempre nello stesso luogo, ripetendo una vicenda che scorre sotterranea da secoli. Epicentro di questo universo le mura di Lucca, i monti e le selve che accerchiano la piccola città impenetrabile, la regione tra il Serchio e l’Appennino coi suoi stretti valichi che furono un tempo crocevia del mondo, transito coi paesi del nord, impervio rifugio di eretici e di mercanti, avara gente di denaro e di fede. Qui la storia passa e ripassa senza che niente trapeli, notti interminabili avvolgono la vicenda del mondo, la ricoprono di un sopran naturale mantello-fantasma che rende improbabili, incerte e precarie le intermittenti luci del giorno. La storia spro fonda in quelle valli, cammina con un suono di terra smos sa, frane si susseguono ma l’aspetto del paesaggio non cambia, la realtà è un insieme di dissolvenze, niente possiede contorni netti e certi. Che parte può recitare la storia, in questo universo dalle architetture indefinite, in questa terra toscana che tutte le ha viste? La storia, insinua Benedetti, è una leggenda che si ripete da sempre, un’invenzione del diavolo, un’iscrizione ricoperta dal muschio delle cose che crediamo viventi. Quello che aiuta i viandanti smarriti nel fitto buio delle parvenze è il bene della cultura, prima ancora dell’ambiguo dono dell’arte. Osservati tenendo conto del cammino dello scrittore, que sti romanzi ci raccontano tutti un’autobiografia: la storia di un narratore « ermetico », di inquiete sensazioni chimeriche, il quale si libera a poco a poco delle sue origini, passa ad altre esperienze, esce dall’orto della provincia e si per suade dell’esistenza di una élite culturale nazionale, italia na. C’è stato qualcosa come una contaminazione, l’ermeti smo fiorentino si ribella a se stesso, chiarisce la propria fi sionomia antifascista, sposa lo storicismo e Croce. Le pre messe restano identiche: l’aristocrazia del sapere, il luogo magico dove si presume che la cultura e il potere possano reciprocamente e illuminatamente scambiarsi i ruoli. La Storia appartiene a pochi, ebbi occasione di osservare a pro posito dell’Esplosione, è per Benedetti un privilegio, una conquista, una grazia. Oggi potrei aggiungere che la ridu zione della storia alla mondanità di se stessa, alla sua fun zione, alla sua vernice pubblica, è diventata per lo scrittore un’ossessione, il suo vero idolo. Il feticcio che egli adora, come uomo di cultura esperto dei segreti del mondo, e al quale oscuramente si ribella, dal fondo della sua provincia, come lucchese radicato alla terra e al suo sangue. Ignoro se un’elite culturale esista, se sia mai esistita, e se uno scrittore possa nel suo lavoro inventarne o supporne l’esistenza. Fatto sta che questo è il pubblico per il quale Benedetti parla e scrive. Udienza non tanto di palati fini, ma appunto di orecchie sensibili, pronte a registrare il non detto, a discuterlo, a confrontare le note recondite. E qui avviene una seconda contaminazione, un matrimonio di mi steri: lo scrittore ritornato alle origini ritrova antichi maestri d’incertezza, vecchi dèi locali, numi tutelari dei boschi: Pascoli, innanzi tutto, l’universo come « baratro frondoso » e indistinto, come rustico vaso mistico, e un « notturno » di gusto non dannunziano, ma pucciniano, il mondo come lattiginosa alba perpetua, stagno di ore morte e intermedie, evanescente tragicommedia di larve. Non si parla mai, nei romanzi di Benedetti, ma si sussurra, si mormora, le voci forse non sono voci, ma pensieri, comunque sconfinano in sospiri, o, per usare il verbo più caro allo scrittore, svani scono, si perdono nel niente. Tutto è « forse », tutto è « chis sà ». Emergono correlativi montaliani, oggetti improvvisa mente certificanti, rumori nel silenzio, fruscii: stoviglie che risplendono, imposte che sbattono, spari nella campagna. Sembra che i personaggi di Benedetti facciano fatica ad esi stere senza il sostegno dei fatti appartenenti alla pubblica memoria, senza una garanzia sociale, uno stemma mondano. Così lo scrittore chiede aiuto alla Storia. Ieri, nell‘Esplosione, il giovane figlio di uno squadrista partiva da Lucca per uccidere Mussolini, e il proposito dell’attentato era un modo di esistere. Oggi, nel Ballo angelico, un noto uomo di musi ca si rintana tra i suoi monti natii, cerca la solitudine « non per stanchezza, o per momentaneo disgusto del mondo, ben sì soltanto per capriccio ». Siamo negli anni della guerra ’14-’18, in una villa dei dintorni di Lucca. Il musicista, Michele, uomo di sentimenti teneri, ma incline di malavoglia al sadismo, compone di not te, diffondendo le melodie per le valli e spostandosi conti nuamente, seduto su uno sgabello girevole, tra il pianoforte e il tavolo ingombro di carte. Va a caccia, adora il gioco di uccidere. Ama le battute volgari, gli scherzi, si diverte ad accendere tutte le luci dell’assurdo palazzo tra i monti pro iettando sul prato antistante i tanti riquadri delle finestre splendenti. Piace alle donne, amici e visitatrici non lo la sciano in pace. Ha una moglie gelosa. Odia la guerra, nutre coperti sentimenti filo-germanici. È superiore a tutto ciò che lo circonda, sa che la sua felicità pesa a quelli che vi vono con lui. Usa piegare il collo sulla spalla destra, un vezzo che si accentua davanti all’obbiettivo. Credo sia superfluo insistere nell’identifìcazione, tanto più che Donna Elvira, la moglie tormentosa, porta nel romanzo il nome di Floria. La giovane domestica di casa Puccini, invece, Doria Manfredi, suicida nel gennaio del 1909, sciagurata protagonista di una tragedia che sconvolse la vita del compo sitore e aggravò la sua già penosa situazione coniugale, è diventata Lucia, muta, piccola ombra contadina dagli occhi spaventati e vuoti. Lo scrittore altera i tempi e i luoghi: da Massacciuccoli saliamo verso i monti, mentre viene spo stata di qualche anno in avanti, in piena guerra mondiale, la data del tragico caso. Che cosa Benedetti si è ripromesso affrontando questa più triste che dannata materia, a parte le implicazioni storiche che ho cercato di definire finora? Forse interessava allo scrittore cogliere il demonio di una vita pubblica, spiare il male della gloria. E il diavolo, misteriosamente atteg giato come « il signore dal piede forcuto », recita certamente una parte nel romanzo. Ma Benedetti si mantiene volutamente al di qua di interessi, per così dire, thomasmanniani: il « ritratto dell’artista », nel senso di un’indagine del mistero creativo, non lo tocca per niente. Se c’è una cosa che tace, nel Ballo angelico, è la musica. E appunto perché qualcuno di essi è riprodotto fedelmente, i connotati di Puccini vengono stravolti, e sta bene: il protagonista, Mi chele, è visto dall’esterno, studiato nei suoi gesti, accanitamente ridotto a segno esteriore di un’epoca. Ma nello stesso tempo si ha l’impressione inversa, che lo scrittore stinga in modo prepotente e interiore sul personaggio. Così torna difficile non tanto districare il momento della storia da quello dell’invenzione, quanto distinguere tra il versante romanzesco della vicenda e quello di una incorporea, leg gera, eppure greve autobiografìa di umori e sensazioni. (1968)
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