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LETTERATURA: I MAESTRI: Identità di Calvino

22 Dicembre 2016

di Cesare Garboli
[da: “La stanza separata”, Mondadori, 1969]

Ho sempre pensato che per Italo Calvino, il quale passa per essere uno storicista e un illuminista, critico e saggista di fiera ispirazione militante e impegnata, agguerrito ideologo della letteratura, e, oggi, della « crisi », i fatti umani e sto ­rici siano stati infinitamente meno importanti dei fatti in ­consci. Sotto la vernice del rigorismo intellettuale di area piemontese, gramsciana e pavesiana, sotto la precisione, la lucidità impeccabile (Lei segno, e dietro lo schermo delle sue invenzioni romanzesche, delle sue favole e allegorie, dei suoi « contes philosophiques », ho sempre avvertito in lui una presenza diversa… la spinta di un inespresso ordine di emozioni che sarebbe improprio definire irrazionali: qual ­cosa di rimosso, certamente, ma anche di immaturo, di vi ­tale, di insofferente, come è dei corpi femminei quando si agitano irrequieti tra le coperte – se la similitudine è leci ­ta – irritati da un ingombro o da un’impotenza, così da esprimere la propria scontentezza ora con una serietà e immobilità di troppo, ora con una grazia capricciosa, volu ­bile, allusiva di tutto ciò che è impossibile comunicare. Questa materia oscura ma incandescente, viva ma incomu ­nicabile, profondamele contraddittoria, era destino che Calvino si decidesse, un giorno, a verbalizzarla. È quello che ha fatto non con le Cosmicomiche, due anni fa, ma col recente T con zero. Come è avvenuto che il fantasioso inventore de I nostri antenati si è deciso a dirci, forse per la prima volta, uscendo dalla brillante fortezza di se stesso, qualche cosa di lui?

Costruito con uno sforzo, e anche con un piacere, dolorosa sofisticheria, di ardua capziosità, T con zero è libro ossessionato dal passato. « Ciò che i genitori m’hanno detto di essere in principio, questo io sono:   e nient’altro… Quello che veramente ognuno di noi è ed ha, è il passato; tutto quello che siamo e abbiamo è il catalogo delle possibilità non fallite… Non esiste un presente, procediamo ciechi verso il fuori e il dopo, sviluppando un programma stabilito con materiali che ci fabbrichiamo sempre uguali. Non tendiamo a nessun futuro, non c’è niente che ci aspetti, siamo chiusi tra gli ingranaggi di una memoria che non prevede altro lavoro che il ricordare se stessa. Quello che ora porta Priscilla e me a cercarci non è una spinta verso il dopo: è l’ultimo atto del passato che si compie attraverso di noi. » Figli di un passato che costituisce una serie di « prove pronte a ripetersi », non siamo che vuoto, separazione e attesa:   « crediamo di andare verso le nostre nozze e sono ancora le nozze dei padri e delle madri che si compiono attraverso la nostra attesa e il nostro desiderio ». La libertà d’agire, l’individualità s’iscrive soffocata in un sistema di segno zero:   « alle volte mi prende l’incertezza se io sono veramente la somma dei caratteri dominanti del passato, il risultato d’una serie di operazioni che davano sempre un numero maggiore di zero, o se invece la mia vera essenza non è piuttosto quella che discende dalla successione dei caratteri sconfitti, il totale dei termini col segno meno, di tutto ciò che nell’albero delle derivazioni è rimasto escluso soffocato interrotto: il peso di quello che non è stato m’incombe addosso non meno schiacciante di ciò che è stato e non poteva non essere ».

Viviamo, insomma, prigionieri       di una fortezza, inchio ­dati allo spazio-tempo di un universo che è ciclo di perpe ­tua e mutevole immobilità. Per il     fatto di essere ignota a noi che tentiamo di evaderne, la fortezza-universo ci si con ­figura come un labirinto, ma nello     stesso tempo non possia ­mo pensarla che come una struttura. « Lavorando d’ipotesi riesco alle volte a costruirmi un’immagine della fortezza talmente persuasiva e minuziosa       da potermici muovere a tutto mio agio col pensiero; mentre gli elementi che ricavo da ciò che vedo e ciò che sento sono disordinati, lacunosi e sempre più contraddittori… Partendo dal disordine di que ­sti dati, vedo in ogni ostacolo isolato l’indizio d’un sistema di ostacoli, sviluppo ogni segmento in una figura regolare, saldo queste figure come facce di un solido, poliedro o iperpoliedro, iscrivo questi poliedri in     sfere o in ipersfere, e così più chiudo la forma della fortezza più la semplifico, defi ­nendola in un rapporto numerico o in una formula alge ­brica. » La fortezza-universo in cui viviamo, più che una struttura, ne è dunque solamente il perenne progetto, la realtà è un insieme di probabili:     -« viviamo, noi non liberi, circondati di libertà, spinti, agiti da quest’onda continua che è la combinazione dei casi possibili e che passa attra ­verso quei punti dello spazio e del tempo in cui la raggera dei passati si salda alla raggera dei futuri ». In tanta serie di combinazioni, quello che veramente appare impossibile è fuggire:   « se la prigione è circondata dal mio fuori, quel fuori mi riporterebbe dentro ogni     volta che riuscissi a rag ­giungerlo:   il fuori non è altro che il passato ».

Dentro questo universo simile a un’immensa, cifrata tom ­ba parmenidea, è una domanda odiosa chiedersi quale parte sia assegnata all’uomo. Possiamo essere, a volta a volta, mu ­rati nella sfera delle cose (vivere è far parte di una strut ­tura), o navigare nel vasto buio, rincorrendoci, separandoci, lasciando alle spalle scie di messaggi, liberati finalmente dallo spessore ingombrante delle nostre persone, voci, stati d’animo: « ciò che conta è ridurre noi stessi a comunica ­zione essenziale, a segnale luminoso che si muove in una data direzione, abolendo la complessità delle nostre perso ­ne e situazioni ed espressioni facciali, lasciandole nella sca ­tola d’ombra che i fari si portano dietro e nascondono ». È qui, dicevo, che Calvino ci confida qualche cosa di sé: la sua impotenza a esistere, che si trasforma nell’idea vitto ­riosa, nella consapevolezza trionfante e dolorosa di esistere soltanto nella propria scrittura. È probabile, anzi è certo, che sotto la coincidenza di essere e scrivere, ipertrofizzata nella figura della realtà come sistema di segni, dell’universo come libro e progetto, agisca una complicata somma di in ­teressi intellettuali, e una vocazione che si sta orientando sul modello di Borges. Ma la piega letteraria di T con zero un insieme di tre parti di diverso voltaggio emotivo, ob ­bediente a una pluralità eccitante di maniere (nel paragrafo dal titolo Morte c’è un suono, un lento da freddo delirio volponiano) – conta assai meno rispetto alla prontezza con la quale lo scrittore ha risolto la propria costituzionale ambi ­valenza, rinunciando una volta per tutte a inseguire reali ­sticamente la « complessità della propria persona ».

È sempre esistita, si sa, una doppia natura in Calvino. Un volto ilare, spensierato, innamorato della vita, e, dietro, un nero ceffo che occhieggia. Il curioso è che in questa fac ­cia nessuno dei due profili sembra prendere l’altro sul se ­rio. Tra i due sguardi non c’è solo conflitto, ma addirittura dileggio reciproco. Anche se i centri della fantasia calvi ­niana parevano, qualche volta, perfino severi (Calvino non scrive mai per gioco), la vena del suo inchiostro si sarebbe detta, fin dalle origini, incapace di resistere alla tempera ­tura della serietà. E allo stesso modo, il suo approccio con la realtà è sempre stato semplicissimo, diretto, dotato di immediata forza d’urto, eppure lo scrittore lasciava spesso intendere che attraverso la precisione, la freschezza, il co ­lore, egli stava inseguendo piuttosto il sentimento intellet ­tuale della complicazione. È che in Calvino esiste una spe ­cie di ottica della vecchiaia, la saggezza impronta di sé un organismo del tutto restio alla maturità: mentre la natura dello scrittore è portata infantilmente a comporre tutto in armonia, la sua struttura intellettuale non fa invece che avvertire contrasti, che esistere come insieme di contraddi ­zioni. Sulla prosa, si avverte un’increspatura, un fare pa ­terno, è la scrittura che “vezzeggia se stessa. Oppure, a inter ­rompere il flusso di una scrittura che ha sempre mirato a costruire se stessa in solitudine, prima con procedimenti gotici e figurativi, oggi i n un gusto astratto e geometrico, da espressione algebrica con le sue parentesi e le sue radici quadrate, soccorreva una disposizione che bisognerà pur chiamare « umoristica ». La categoria del buffo, il gusto ariostesco della vita, mentre lo scrittore era sul punto di fuggire tra mille ghirigori, diventava il veicolo più serio perché egli potesse ritornare coi piedi per terra.

Questo ambiguo rapporto tra senso della realtà e perce ­zione della sua essenza « meravigliosa » o sofistica, tra lim ­pidezza di segno e mistero, è riuscito a Calvino finché egli si è cimentato con la fiaba. Autentico « figlio », per espri ­mersi Calvino aveva bisogno nei confronti delle cose e delle persone, e anche nei confronti di se stesso, di uno schermo, di un rapporto da finto padre. Così ha condotto il gioco fin che ha potuto. Ma dietro lo smalto delle sue invenzioni, dietro quello schermo, si sentiva anche un’avidità di essere, un bisogno di identificarsi. È vero, l’identità dello scrittore coincideva con lo stile, ma lo stile, a sua volta, era piutto ­sto una mimica totalità di doti, la tastiera di un virtuoso che congiurava contro la diretta espressione di chi suonava. E, per anni, Calvino ha cercato se stesso dal suo lato man ­cino, misurandosi e impegnandosi con la storia, con tutto ciò in cui non erede. A scadenze che non erano certo occa ­sionali, disegnava la sua autobiografia: percezione della propria ambivalenza (Visconte dimezzato), sublimazione ironica del proprio problema (Barone rampante), sofferenza di non consistere, di non esistere proprio quando giostrava in mischia (Cavaliere inesistente).

Oggi, compiuta la sua discesa verso la preistoria e gli abissi del mondo, regredito allo sguardo della cellula, rituf ­fatosi nel suo vivo e spazioso elemento, un’infinita infanzia originaria, fuori da tutto ciò che egli sente stupidamente e convenzionalmente adulto, Calvino può finalmente respirare l’aria che gli è più congeniale. Libero da falsi modelli in ­terni, si offre per quello che è: un enigma inconscio, che cerca di decifrare le ragioni della propria lunga prigionia. Con una scrittura che assomiglia a proiezioni di solidi che non esistono, o allo spartito di una musica che non c’è, almanacca, arzigogola, rimugina. « Ora che, passati gli an ­ni, ho smesso d’arrovellarmi sulla catena d’infamie e di fatalità che ha provocato la mia detenzione, una cosa ho compreso: che l’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigione. »

(1967)

 

 


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Bart