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LETTERATURA: I MAESTRI: Ricordo di Bassani

17 Dicembre 2016

Cesare Garboli
[da: “Pianura proibita”, Adelphi, 2002]

Erano molti, moltissimi anni che non incontravo più Giorgio Bassani. Avevo di lui notizie indirette e saltuarie, e la sua morte non mi ha certo colto di sorpresa. Sapevo che era afflitto da una malattia che gli aveva fatto perdere la memoria. Era scesa la not ­te. Bertolucci mi diceva che si risvegliava dal torpo ­re a tratti, a intermittenza, dando a volte l’impres ­sione che il lume dell’intelletto, sotto tutta quella cenere, non si fosse completamente spento. Mi con ­solavo dicendo che succede a tutti, prima o poi. La vecchiaia ha di buono che non da spiegazioni, non si fa domande, e aiuta a dimenticarci. Non si sa mai a che cosa pensino, i vecchi, e che cosa sentano.

Anche l’eco della sua voce si era persa nei fondi dove la memoria non ha più voglia di frugare. Quando il tempo della gioventù è scivolato lontano, quando il gusto, la curiosità, il furore di riconoscer ­si amici sono passati, ci si rivede e ci si ritrova non senza imbarazzo. I ricordi si mummificano, più si ­mili a un’idea coatta e ripetitiva che a un pensiero felice. Perduta la linfa, anche gli affetti s’irrigidiscono, s’induriscono, gelano come i rami nel cuore dell’inverno, fragili e secchi sotto il peso della neve.

Lo avevo incontrato più di mezzo secolo fa a Ro ­ma, in un caffè di via Due Macelli che oggi non esiste più. Nel 1948, non ricordo se prima o dopo il 18 aprile, o forse era il ’49. Entrò nel caffè interrom ­pendo la conversazione un po’ sonnifera di un grup ­po di amici romani tra i quali Memo Petroni, Gior ­gio Petrocchi, Vicari, Niccolo Gallo, l’immigrato Frassineti, non ricordo chi altri. Il più giovane, il so ­lo per età a tenermi compagnia, era Pasquale Festa Campanile. Entrò portandosi dietro qualche goccia di pioggia e un po’ di nordica nebbia ferrarese. In ­dossava un cappottino di gabardine abbottonato fino al collo, di gusto militaresco, contraddetto da una sciarpetta di lana bianco-rosso-blu. In testa, un feltro marrone. Salutò ma non si sedette. Rimase a chiacchierare qualche minuto in piedi, occupando con naturalezza il proscenio. Quando uscì, Gallo mi chiese che impressione mi avesse fatto. Lo guardai sparire nel crepuscolo di piazza di Spagna. « Un sor ­nione ». Volevo intendere che non mi sembrava uo ­mo che si scoprisse volentieri.

Diventammo amici più tardi, tra i Cinquanta e i Sessanta. Prima di allora i nostri rapporti erano sempre passati attraverso casa Gallo, in piazza Un ­gheria. Bassani abitava allora con la famiglia a Mon ­te Sacro, ma teneva studio dalle parti di via Manfre ­di, in un angolo dei Parioli. Raggiungeva lo studio in bicicletta, tagliava Roma con la sete di conquista e il cuore pieno di futuro di un ragazzo. A quel tem ­po aveva già pubblicato qualche plaquette in versi e in prosa ( Te lucis ante, Storie di poveri amanti), e soprattutto aveva già scritto Lida Mantovani, il bel rac ­conto che apre le Storie ferraresi. La prima versione porta il titolo Storia di Debora, e un’altra, se ben ri ­cordo, Storia d’amore. Bassani era un variantista incontentabile, si riscriveva senza mai sosta. Era in ­stancabile, nel correggersi, e quasi maniacale.

Lida Mantovani è un racconto d’impianto tradi ­zionale, classico, scritto con l’occhio puntato su Flaubert. S’intravedono due o tre direttrici retori ­che che si manterranno poi sempre invariate fino a trovare la loro consacrazione e il loro trionfo nel ­l’Airone. Una può sembrare insignificante, mentre nasce da una strategia costruttiva: i capoversi. Bassa ­ni s’ispira a Flaubert, a quei famosi fendenti, mira ­coli di concentrazione, che calano sulla narrazione e la spostano con una spallata, cambiando di colpo orizzonte e aprendo spazi inaspettati («II voyagea », «Reconnut Sénécal »), ma ammorbidendoli, ba ­gnandoli di fraseggio manzoniano, dando loro una profondità e una solennità da pianoforte: «Finché visse, Lida Mantovani ricordò sempre… », «A defi ­nirlo consolante, il vasto complesso architettonico del Camposanto Comunale… », e simili.

All’ordito ritmico – come se raccontare fosse dare il tempo, facendo entrare i legni e i fiati al momen ­to giusto – si aggiunge, grande protagonista, il senso delle distanze, il calcolo delle misure da imporre ai diversi sipari e siparietti del racconto. Nella segmentazione narrativa, strenuamente calcolata e preme ­ditata, Bassani si è rivelato subito un maestro. Era invece un allievo. Aveva alle sue spalle non la musi ­ca, ma la pittura: il ricordo delle lezioni di Longhi, la geometria di Piero e i colori-valori di Morandi. Con grande istinto, Bassani sovrimpresse la visione prospettica di Longhi alla topografia di Ferrara, senza mai spingere i suoi passi lontano da corso Giovecca o da piazza della Certosa, da via Salinguerra o dall’Ospedale Comunale, fino a fare dei tetti e dei bastioni della sua città una sorprendente città di Dite, una rossa fortezza cubista.

Ma la geometria ce l’aveva nel sangue. Non era un narratore nato, un Tusitala, una Shéhérazade, tutt’altro. Lavorava come un sarto, col gessetto. Tracciava i segni e aveva già in testa come far cadere la giacca. Lo aiutava il tennis. Era, come si vede dai Finzi-Contini, un ottimo, eccellente giocatore. Grande scelta di tempo, e sempre incontro alla palla: cer ­cava gli angoli e la spediva a pulire le righe. Un giorno un bello spirito, in un crocchio di villeggian ­ti, sorrise nel vederlo con la racchetta e i pantaloncini. Lo guardò palleggiare e sentenziò: «Ah!, se giocasse a tennis come scrive! ». Lo vide poi scende ­re a rete due, tre volte, e si corresse: «Ah!, se scrives ­se come gioca a tennis! ».

Col tempo, dentro i bastioni di Ferrara, lungo i quali la povera Lida Mantovani si era lasciata incan ­tare dal suo giovane seduttore, si produsse qualcosa di simile a un terremoto invisibile e silenzioso. Emi ­grato a Roma, Bassani decise di far tremare la sua città, di sventrarla lasciandone gocciolare le viscere. Un sepuku, ma senza spargimento di sangue: una scommessa impraticabile. La tematica dei poveri amanti non gli bastava più, in gioco era ben altro. A Flaubert si sostituì un altro modello, Henry James. Le Storie ferraresi nacquero mettendo insieme dei pezzi sanguinanti di storia ebraica e antifascista se ­polti nelle segrete della città, riportati a galla e rior ­ganizzati con grande perizia inquisitoria, ma senza mai sacrificare alla banalità del poliziesco. Un ri ­morso inspiegabile, simile a un ghigno, mette in essere un’esperienza civile e letteraria assolutamente unica, ironica, derisoria, tinta di nero gusto cimite ­riale e cerimoniale, divisa tra il principio d’accusa e la funebre rassegnazione assolutoria. Nelle Storie ferraresi regna il buio. Ma vi regna anche un’ostinazio ­ne insieme occhiuta e cieca, il bisogno di trovare un bandolo, un sentiero riconoscibile e percorribile nella tenebra.

A Pasolini scappò detto una volta che Bassani usa, in questi racconti, «degli Indiretti Liberi classici », con la stessa cura con la quale sono citate « classiche allocuzioni, classici modi lessicali, classici giri sintat ­tici molto parentetici, attribuiti dalla nostalgia a una ideale società colta » (la piccola borghesia professio ­nistica ferrarese ebrea). Le frequenti citazioni di «parlato » formerebbero «un continuo reticolato di lampeggianti indiretti che interseca ossessivamente il tessuto del libro ». Ma lo stile indiretto libero, nel ­le Storie ferraresi, è molto di più: è la matrice stessa del racconto, un’acrobazia, un sesto grado. Siamo molto lontani dagli effati nominali, esclamativi o in ­terrogativi, galleggianti nelle pagine di Verga o Pirandello. Teso al controllo delle parole, ignaro del felice oblio che presiede alla vena del narratore ot ­tocentesco «prima di Flaubert », Bassani era osses ­sionato dalla moltiplicazione dei punti di vista del Narratore, dall’ubicazione, dal luogo dove si situa, in ogni narrazione, la voce narrante («chi è che rac ­conta? », gli ho tante volte sentito apostrofare i gio ­vani aspiranti scrittori). A volte questa voce viene prestata a personaggi privilegiati, narratori interni come il Bruno Lattes di Clelia Trotti, ma più spesso essa coincide con una voce-fantasma, un testimone oculare e vicario. Coincide coi pensieri che si tac ­ciono e si esprimono in ogni chiacchiera cittadina, conformista, pettegola, petulante. Questa voce è un coro che commenta delle tragedie che non si posso ­no raccontare. Nelle sue litanie epico-didattiche, esprime una straziata immedesimazione con la pro ­pria città, e un non meno straziato straniamento (Bassani come Brecht).

Il turgore angoscioso delle Storie ferraresi si am ­mansì e si semplificò negli Occhiali d’oro, quando la diversità ebraica si tradusse, e si nascose, in quella omosessuale. Che cosa non può l’amicizia! Si sente negli Occhiali d’oro il passaggio, incidentale, di un terzo maestro: Soldati, la limpidezza di Soldati, la sua magistrale capacità di dire «io ». È il preludio

dei Finzi-Contini, dove la tragedia ebraica cambia di segno nel momento più impensato, più commemo ­rativo, trasformandosi in una dialettica di classe, l’occhio tutto rivolto alla diversa conformità ideolo ­gica dei ceti sociali. Sui Finzi-Contini si sono dette molte sciocchezze (per pura invidia); la più macroscopica, quella che ne ha fatto un romanzo di me ­moria, un compianto sentimentale. Figurarsi. Nes ­suno scrittore più di Bassani è stato attento e sensi ­bile a tutto ciò che cambiava, più capace di fiutare il nuovo e di dare forma al futuro. I Finzi-Contini furo ­no il best-seller del miracolo italiano, segnarono i tempi del boom e decretarono, insieme alla svolta del centro-sinistra, la fine delle ideologie «esteti ­che ». Ma era un romanzo astuto e difficile, scritto non da un narratore ma da un lirico assistito da una fortissima vocazione critica. Bassani scriveva solo sotto ispirazione, e per questo faceva di tutto per mascherarla, per nasconderla con abili interiezioni di lingua notarile, burocratica, con espressioni piat ­te del tipo «si divertiva un mondo », o con certi «in ­somma » e certi « in pratica » che fanno rabbrividire (lo scopo era infatti quello di abbassare la tempera ­tura) .

La nascita dell’io, dopo Gli occhiali d’oro, produsse col tempo quella saga cittadina che Bassani chia ­merà Il romanzo di Ferrara. Non sono mai stato soli ­dale con questo titolo «poematico ». Anzi, speravo che l’autore di due autentici capolavori come Dietro la porta e L’airone non si distogliesse dal misurarsi ancora con se stesso, o meglio con la propria inco ­gnita, dando forma a certi progetti di cui forse esi ­stono, da qualche parte, dei testimoni autografi. Un racconto ambientato a Napoli, in un convento di frati, un altro a Venezia (il ghetto e il cimitero ebrai ­co), e un terzo, la storia di un giovane partigiano idealista che si lascia corrompere dal sesso, durante la prigionia, grazie all’astuzia degli aguzzini fascisti.

Bassani preferì un’altra strada, le poesie inaugurate con Epitaffio. Chiamava questa produzione poetica la sua «estate di San Martino ». Ma come può esser ­ci un’estate di San Martino se prima non c’è mai sta ­ta un’estate ma un inverno rigido, laborioso, fatico ­so, l’inverno pieno di spine che è stata la gloria, la vera e grande gloria del mio vecchio amico? Fu allo ­ra che le nostre strade si divisero, e per sempre.

Ma vorrei concludere questo articolo in termini tutt’altro che letterari. Ultimamente, in diverse oc ­casioni, sono state versate molte lacrime di pietà e commiserazione sulle penose vicende che avrebbe ­ro accompagnato la vecchiaia e la malattia di Bassa ­ni. Più di un’espressione di sdegno si è levata contro la richiesta d’interdizione dello scrittore avanzata dai figli, Paola e Enrico, preoccupati che un padre ormai incapace di amministrare il patrimonio fami ­gliare potesse prendere delle decisioni ingiuste e af ­frettate. Non vedo niente di efferato in una simile richiesta. Mi piacerebbe invece che nel nostro pae ­se, così sensibile alla pietà famigliare, si cominciasse ad ammettere, una buona volta, che il sangue è dena ­ro, e che il sangue è denaro per la semplice ragione che solo i soldi possono tacitare il rimorso di avere fatto venire al mondo chi non ne aveva nessuna vo ­glia, ed era certo ben lontano da un così folle pen ­siero. È buona regola non mettere il dito tra moglie e marito. Lo stesso vale per i genitori e i figli, nelle vene dei quali il denaro scorre insieme al sangue, e il sangue insieme al denaro.

 

 


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