LETTERATURA: I MAESTRI: Autoantipatia4 Settembre 2018 di Roberto Ridolfi Mi sono diventato antipa tico. L’ho scoperto stamani tutt’a un tratto mentre mi fa cevo la barba, tempo di me ditazioni profonde e di pen samenti. Non è stata la mia immagine riflessa dallo spec chio a suscitare in me questo sentimento o a farmene ac corto: nello specchio, da tem po immemorabile, mi vedo ma non mi guardo; o piut tosto mi guardo ma non mi vedo: ho sempre preferito ve dere e guardare qualcosa di meglio. Eppoi l’antipatia che sento per me stesso e che mi s’è rivelata così, all’improvviso, non è fisica, ma, quel che è molto peggio, morale. O Dio, chissà quanti e da quanto tempo mi avranno preceduto in questo sentimento tutt’altro che affettuoso verso la mia persona; anzi, se una cattiva coscienza non mi faceva pren dere lucciole per lanterne, a molti l’antipatia mi è parso di leggerla nel viso o fra le righe delle lettere che mi scri vevano. Così solitario e schi vo, scontroso, poco converse vole, m’avranno giudicato su perbo (e non lo sono), orgoglioso (e di che mai dovrei esserlo?), attaccabrighe, iro so, rissoso (e nessuno più di me, in fondo all’anima, ama la pace), tagliente fino all’in sopportabile di lingua e di penna (questo sì, però senza malevolenza, per mero amor di motteggi: sono toscano). Mi piace tirare di scherma, ecco, non sbudello mica nes suno; ma intanto i nemici me li faccio lo stesso. A un’avversione del genere m’ero rassegnato da tempo, e non ci facevo gran caso, anzi, a dire la verità, mi ci diver tivo un mondo: il terribile è stato accorgermi che anch’io, perfino io, sia pure per altre e purtroppo più fondate ra gioni, mi sono finalmente as sociato a quella altrui anti patia. * Lì per lì, la scoperta m’ha quasi sconvolto: non è mica una cosa da nulla. E pensare che fino a poco tempo fa mi piacevo, mi compiacevo di me e di quel poco che ho fatto; stavo volentieri in mia com pagnia, mi volevo un bene dell’anima, m’ero simpatico; apprezzavo certe mie qualità, che mi parevano buone, e scu savo con sottili cavilli certe altre che riconoscevo catti ve; compativo benevolmente i miei difetti, ero pieno d’in dulgenza per gli eccessi e le scapataggini che commettevo; non mi dispiacevano neppure taluni miei vizi. I guai devono essere co minciati quando, col passare degli anni, sono venute fuori le prime magagne, le prime debolezze; insomma, i primi capelli bianchi spirituali: gli altri, non metaforici, erano già spuntati da un pezzo. Al lora, tra me e me, mi veni vano fatti dei paragoni tutt’altro che lusinghieri con quello che ero stato e con quello che ero. Ero coraggioso, intrepido, temerario. Ricordo che in guerra, ufficiale di collega mento, per recarmi dalla trin cea dei fanti, dov’era l’osser vatorio, al vicino comando di battaglione, piuttosto che an dar gobboni in un cammina mento motoso e infangarmi gli stivali e passar poi la notte coi piedi bagnati, preferivo camminare allo scoperto so pra un argine battuto quasi di continuo dal fuoco nemi co. Questo, forse, lo rifarei anch’oggi, giudicando un ma le molto minore la morte che gli incomodi e le malattie. Ma ora ogni tanto m’accorgo di aver paura. Paura di arri schiarmi a nuoto in un mare corrucciato, che era un tem po la mia delizia: mi piaceva affrontare le onde, le risac che, le correnti più impetuose, lottar seco a lungo gagliardamente; paura di attraver sare una strada corsa da mac chine impazzite, col pericolo di far la fine del mio amico Giorgio Pasquali; paura di tante piccole cose, paura della miseria. Ero intrepido anche nella fatica; per quanto grande e lunga mi si presentasse, non la temevo, anzi l’aggredivo con una impazienza spavalda che faceva contrasto con la mia naturale indolenza: ma forse proprio lì stava il me rito maggiore, com’è quello di portarsi da bravo avendo pau ra. Ora, invece, le grosse im prese dello studio mi sgomen tano: ci penso, ci ripenso e finisco col non farne di nulla. Sulle prime, dicevo a me stes so che dipendeva da una su periore saggezza, da una con sapevolezza alfine raggiunta della inutilità degli studi, inu tilità di questa mia dotta igno ranza, inutilità di tutto. Era invece una paura fisica degli strapazzi, diurni e notturni. Ero generoso, largo nello spendere. Lo sarei ancora, ma un tempo lo ero fino all’ultimo soldo che mi fossi trovato nelle tasche; ora, prima di arrivare al penultimo, divento d’un tratto avarissimo: è ancora la paura, questa senile e vile paura che si riaffaccia. Ero goloso, lussurioso, gran mangiatore, gran bevitore, femminacciolo quanto altri mai. Ed ero (Dio mi perdoni) contento di esserlo, pieno come mi sentivo di sangue gio vane, caldo di vita. Ora m’av vio ad esserlo meno, ma non per mio merito, sebbene per una corporal decadenza, for se perfino per un poco di vi gliaccheria. Ero sdegnoso d’ogni patteg giamento, d’ogni calcolo di utilità propria, d’ogni calco lata prudenza, d’ogni arzigo golo, d’ogni meschina ambi zione. E ora, che dovrei es sere per l’età più che mai di staccato da tutto, indifferente, mi trovo qualche volta incli nato al compromesso, alla cautela, se v’intraveda qual che vantaggio, se mi eviti un danno, o soltanto mi scansi qualche fastidio. * La conoscenza di questo de terioramento dev’essersi fatta strada nella mia coscienza con grande ritardo e lentamente, a poco a poco, giorno per giorno; ma era una consape volezza che mi si depositava nelle parti più inesplorate del l’anima, senza che io potessi tutta insieme considerare e misurare la mia decadenza. Soltanto stamani, ecco, mi s’è rivelata intiera d’un tratto e vi assicuro che non è stata una scoperta piacevole. Una persona mutata in peggio a tal punto non può certo riu scirmi attraente o simpatica; per lei posso provare tutt’al più compassione, ma mescola ta insieme a una buona quan tità di disprezzo. Comincio a capire l’insof ferenza sfoggiata dai nostri giovani contestatori contro chi giovane non è più: ci chia mano, in lor linguaggio, « ma tusa » o « marimba » o « pron ti per il crisantemo »; ma for se nel frattempo avranno in ventato qualche altro e più piacevole vezzeggiativo del ge nere. Comincio a capirla proprio per questa insofferenza, per questa antipatia che ho sco perto in me verso me stesso, come sono divenuto da vec chio. E quasi ne sarei indot to a credere che un’antipatia così fatta, e in apparenza co sì singolare, sia ancora un guizzo dell’indomita giovinez za che fino a ieri non dava segno di abbandonarmi, simile a un fuoco sotto le ce neri: sotto queste mie ceneri grige. Già, perché d’invecchiare non m’accorgevo e non mi pareva che invecchiare un giorno potessi, come se in questo fossi diverso da tutti gli altri. Soltanto per vezzo, e proprio perché non mi sen tivo di esserlo, mi dicevo qual che volta, affettuosamente: « Povero vecchio! ». Oggi scan so più che posso la mia com pagnia e la mia conversazione, ma se dovessi ancora aver da fare a trattar con me stes so (Dio me ne guardi!), cre do che mi apostroferei in tutt’altro modo; direi: « Va’ là, brutto vecchiaccio ».
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