LETTERATURA: I MAESTRI: Bibbiena, il figlio ilare del Rinascimento11 Gennaio 2012 di Vittore Branca Nel meriggio del nostro Rinascimento, fra scrittori e po litici di Firenze e di Roma, è difficile incontrare un perso naggio più elegante e avvedu to e insieme più cordiale e motteggevole di Bernardo Dovizi, detto il Bibbiena. L’Ariosto, che di corti e di poesia se ne intendeva assai, già proclamava nel suo Orlando (XXVI) che se per i loro sommi artisti erano famose Firenze e Siena, dal solo Bernardo sarebbe sta ta resa illustre nei secoli la cittadina casentinese di Bib biena. La quale conclude so lennemente domani le varie manifestazioni promosse per celebrare il quinto centenario della nascita di questo perso naggio veramente emblematico della nostra civiltà rinascimen tale nel suo momento solare e nel pieno della crisi delle li bertà d’Italia. Cancelliere del Magnifico, fedelissimo ai Me dici anche nei tristi anni dopo la cacciata da Firenze e nelle corti di Urbino e di Mantova, fattivo promotore dell’elezione di Giovanni de’ Medici a Pon tefice col nome di Leone X, Cardinale Ministro di Stato, tanto autorevole da esser sti mato « alter papa », legato pon tificio abilissimo, quando morì il 9 novembre del 1520 (e si parlò di veleno) risuonò spon taneo, nei distici latini del Boccarino Aretino, il lamento ge nerale: «Perduto è il dolce stil tronca la fede, Le facezie e i bei motti: ora si cambia Il riso in pianto ». I maggiori e più geniali uo mini dei tempo avevano guar dato a lui come a un campione di finezza e di eleganza uma na. « Facezioso e discreto » lo esaltava il Machiavelli, che ne ammirava la vis comica; « de licato e gentile e sottile » il Bembo, che amava carteggiare festevolmente con lui: « veggiamo il vostro aspetto esser gratissimo e piacere ad ognu no… tien del virile e pur è gra zioso: di tal sorte voglio che sia l’aspetto del nostro Cortegiano » scriveva il Castiglione lo dandone anche l’« acuta pron tezza d’ingegno » e presentan dolo come raffinato inventore di burle piacevoli. Ma il Bib biena commentava umorescamente: « La grazia e il volto bellissimo penso per certo che in me sia » (e lo pensava anche l’amicissimo Raffaello che lo ritrasse con un sorriso di indo mabile acutezza). « E perciò in terviene che tante donne, quante sapete, ardano dell’amor mio: ma della forma del corpo sto io alquanto dubbioso e mas simamente per queste mie gam be che invero non mi paiono atte come io vorrei ». Erano infatti « magre e lun ghe assai »: sicché quando a Isabella Gonzaga zoppicante egli si offriva « per bastone soggiungeva: « e per tal posso ben esser usato, si secco sono ». E con estro caricaturale firma va « El secco », « El moccico ne » (cioè, il balordo, il moc cioso) le missive agli amici fossero principi o prelati, dame innamorate o artisti illustri. Come ha rivelato la silloge pub blicata accuratamente dal Moncallero presso Olschki fra il ’55 e il ’65, sono lettere sciolte e familiari, ilari e argute come le più felici del Machiavelli e del Guicciardini. Tendono spes so a risolversi in dialogo o in novella: come quelle tenere e scherzose a Isabella, o quelle compagnevoli e ammiccanti al Castiglione e al Bembo, o quel le vogliosamente femminiere punteggiate di vezzosi nomigno li (Aurora, Topazio, Cimba, Maggio); e soprattutto quella giocondamente salace sulle ero tiche venture del duca di Ca labria con la Caterina. IlBib biena vi fa campeggiare una figuretta di messaggero d’amo re che espone la sua « commis sione » come si trattasse d’un grave affare di stato. E’ forse un’altra caricatura di quel se stesso che per i suoi Medici sa peva farsi a volta a volta con discendente segretario galante e versuto mediatore politico. Erano funzioni, queste, con naturali al suo fascino fisico e intellettuale, da altissimo charvieur. Ed egli le svolse, da gran signore e da umoroso interme diario fra cultura latina e sol lecitazioni volgari, anche nella rigogliosa letteratura del tem po con quel capolavoro che è la Calandria, rappresentata per la prima volta a Urbino nel 1513 e poi per centinaia di volte in tutta Europa fino alla smaglian te ripresa nel 1966 da parte del la compagnia De Lullo-Falk-Valli (è ristampata ora elegan temente da Mardersteig, su ini ziativa del Comitato per le ono ranze al Bibbiena, in un testo critico esemplare, che rivendi ca all’autore il prologo già at tribuito al Castiglione, e con un vivace e penetrante saggio dovuti entrambi a Giorgio Padoan, il più vigoroso e rinno vatore studioso, oggi, del nostro teatro rinascimentale). Dopo le povere esperienze latine del Quattrocento, le due prime prove dell’Ariosto sem bravano avere avviato risolu tamente la commedia in ita liano sui binari morti dell’imi tazione di Plauto e di Teren zio. Il Bibbiena col suo na tivo estro novellistico, col suo avvertito gusto per il lato co mico della realtà quotidiana (« l’uomo è un animal risibi le ») interviene con piglio riso luto e scanzonato in questa si tuazione chiusa. Punta genial mente sull’esempio di un altro e più nostro ‘teatro del mon do’, di un’altra e vivacissima ‘commedia dell’uomo’, cioè sul Decameron. E alla suggestione di questo esempio ubbidiscono subito l’Ariosto stesso, il Ma chiavelli, l’Aretino e persino per qualche aspetto il Ruzante. Ma come ben rivela il Padoan, il boccaccismo del Bib biena non è solo contenutistico e linguistico. Del Decameron la Calandria ha fatto proprio la tematica delle tre grandi forze che dominano il mondo:la Fortuna che crea le situazioni più impensate e più comica mente equivoche, l’Amore ma lattia naturale che toglie ogni tranquillità e dispensa gioie e tormenti incredibili. L’Ingegno. Per questa carica autobio grafica, filtrata attraverso un aristocratico distacco ironico, nel tessuto beffardo e ridan ciano della Calandria scoccano sentenze sottili e pensose, da moralista attivo, quasi da Guic ciardini avant lettre (e guicciardiniana è l’invitta sottigliez za del bibbienesco trattatello di diplomazia). « Chi in questo mondo sempre si sta, ha il vi ver morto »; oppure â— con espressione boccacciana, che proprio il Machiavelli poco dopo fece sua â— « egli è me glio fare e pentirsi che starsi e pentirsi ». Non a caso l’amico più congeniale, il Castiglione, fa dire nel Cortegiano al Bib biena: « Avete ancora a sapere che… donde si cavan motti da ridere si posson medesimamente cavare sentenze gravi ». Letto 1579 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||