LETTERATURA: I MAESTRI: Carlo Cassola. Quando passa un treno5 Gennaio 2016 di Cesare Garboli CARLO CASSOLA E’ impressionante come si vada accentuando nello stile di Cassola, di esperimento in esperimento, la ten denza sempre più ostinata, sempre più rigorosa, a costruire il discorso narra tivo attraverso la coordinazione a ca tena dei membri sintattici. Un tempo quest’attitudine la si poteva considera re un vezzo, un tic, uno stilema ricor rente ma occasionale, ispirato al gusto di quella semplicità estrema, di quella povertà di sintassi che il narratore ha sempre inseguito di proposito, non mancando mai di sottolinearla. Si sa del resto che come tutte le nature ca paci di dire di no, di escludere tutto ciò che a loro non interessa, Cassola conosce come pochi altri il segreto di provocare senza muoversi. Ma oggi, grazie a Ferrovia locale, siamo finalmente in grado di cogliere quanto c’era di ossessivo, non di pole mico e marginale, in un tic che ha finito per invadere tutta la vocazione dell’ar tista. Ci troviamo, con Ferrovia locale, al vertice di una « poetica », passata quella soglia oltre la quale una matu rità d’arte comincia a sconfinare irre sistibilmente nello spettacolo e nell’or gia di se stessa. Nel suo ultimo roman zo, Cassola è giunto a vietarsi anche il più piccolo arbitrio fantastico, anche la più piccola soluzione di continuità nell’ordine del racconto: raccontare è allineare, limitarsi a dare spazio a oggetti che formino una serie spontanea li addendi, lasciare che una composi zione cresca e si sviluppi unicamente da se stessa, appoggiandosi all’obietti- a, ovvia virtualità associativa degli elementi che concorrono a costituirla, gli elementi possono, anzi debbono, ri dursi a uno, a due, a tre: mentre il nu mero dei segni è limitato, tanto più la loro combinazione è infinita. E quanto più la combinazione degli elementi è ovvia ed elementare, tanto più l’insieme dei pochi segni verrà crescendo su stesso come un insieme organico, come un aggregato di inspiegabile for mazione naturale. Un doppione della vita, un perfetto equivalente esisten ziale. Raccontare è dunque « copiare », mettendo insieme una rappresenta zione di oggetti tutti assolutamente contigui, che si riproducono incessan temente uno dall’altro, diversi quel tanto che basta a illudere che non si tratta sempre della stessa storia. Nella loro monotonia, stipati in quella che si definirebbe volentieri una quintessenziale prigione del vero, gli oggetti di Cassola ci ripeteranno fino all’esauri mento che la vita è sempre la stessa. Eppure, compiuto il loro arido giro vi tale, riassunti in una storia che non lo è, essi troveranno modo, alla fine, di dimostrarci che niente è più avventu roso e più insolito del puro ritmo di esistere. Apriamo Ferrovia locale, a caso. Prendiamo le prime pagine. Un treno merci è fermo in attesa dell’ordine di partenza appena fuori di una stazione. Un giovane ferroviere, Dino, osserva il misero paesaggio circostante: la pe riferia cittadina, il muraglione della ferrovia, gli ultimi piani dei casamenti popolari. Una ragazza affacciata alla finestra entra nel riquadro della visua le. Il treno si muove, il giovane ferro viere apre il giornale, davanti ai suoi occhi sfilano velocemente le ultime ca se dei sobborghi, poi gli orti e i campi. Gradatamente il convoglio scompare dalla pagina. A questo punto, senza soluzione di continuità, la macchina del narratore torna a « girare » lo stes so paesaggio, dove il treno ha sostato, attraverso gli occhi della ragazza, An na, affacciata alla finestra. Ora vedia mo quello che non potevamo vedere prima; o lo vediamo in prospettiva di versa: stessa stazione, stesso muraglio ne, stesso cavalcavia, e insieme una strada in salita, un ciclista scende di sella e prosegue a piedi, un altro vola giù senza mani, da una vetreria uscirà fra poco un gruppo di operai. La vista di Anna è identica e diversa da quella di Dino. Tutto si muove, e, nello stes so tempo, tutto sta fermo. E’ stato Cassola a dichiarare di ave re inventato, lui per primo, il « nouveau roman », la tecnica dello sguar do. In realtà quello che interessa a Cassola, come si dice in altra parte di Ferrovia locale, è che nel tessuto del l’esistenza non ci sono vuoti, nella vi ta « non c’è nulla che vada perduto ». Quel treno merci passato per un istan te sotto la specola distratta degli occhi di Anna, umile apparizione del quoti diano, squisito « non-fatto », è già de stinato a entrare nell’orbita delle cose perenni, appartiene ormai a una cate goria di enti privilegiati. E’ la prima, nella successione del romanzo, di una serie di epifanie di cui si compone la vita. Proseguiamo nella lettura. Anna sta va asciugandosi i capelli al davanzale, un po’ intontita dal sole. « Ormai pote va venir via dalla finestra, i capelli erano quasi asciutti ». L’obiettivo del narratore si sposta verso l’interno del casamento, seguendo l’oziare della ra gazza in attesa del rientro del padre, un operaio. Anna si sdraia sul suo di vano-letto, fa merenda, esce sul piane rottolo, fruga nella stanza da lavoro della madre. Fantastica, fa progetti per il futuro. E’ un pomeriggio d’esta te, in uno qualsiasi degli Anni Trenta. Simili ad altrettante azioni futili e vi ve, i pensieri della ragazza non vanno al di là della registrazione dell’ovvio. Immagina, si distrae, e così non si accorge che il padre, nel frattempo, è rientrato. Torna alla finestra: « i lam pioni erano accesi, ma facevano poca luce. Sul marciapiede davanti al porto ne si vedevano i segni tracciati col gesso per giocare a campana. Anna ci aveva giocato fino all’anno prima Un tempo stava più volentieri coi maschi che con le altre bambine. Ora non sta va più con nessuno. La domenica usci va con la mamma e il fratellino. Lei avrebbe preferito uscir col babbo. Da piccina il babbo la portava sulla canna della bicicletta. Anna aveva il vago ri cordo di una strada polverosa, di un podere, di una fila di pioppi lungo l’ar gine. Ora il babbo aveva smesso di an dare a pesca. La bicicletta l’adoperava solo per andare al lavoro. La teneva nel cortile e la puliva tutte le domeni che. Dopo si faceva la barba e si cam biava. Nel pomeriggio passava a chia marlo un amico. Gli fischiava dal cor tile; non era mai salito in casa. A vol te Anna fantasticava su un improvvi so colpo di fortuna, un’eredità dall’A merica, una grossa vincita al lotto: in questo modo il babbo non avrebbe più avuto bisogno di lavorare. « Anna! » fece la voce della mamma dalla cuci na… E così di seguito. Confesso che questo modo di conca tenare insieme gli elementi interni ed esterni di una rappresentazione mi ri corda il gioco del domino: il soggetto di ogni periodo si tira dietro il predi cato, ma a sua volta il predicato di venta il soggetto di una proposizione contigua, secondo una serie infinita di combinazioni. Allo scrittore non resta che fidarsi del proprio orecchio, che compiere una suprema e difficile ope razione selettiva. Dato un segno, è na turale che intorno a esso debba dira marsi un universo perfettamente rea le, neppure una spilla fuori dal vero. Quello che sta fuori, infatti, dal siste ma, dalla riduzione sistematica delle cose alla loro « verità », non può esse re che teatralità e « romanzesco », fal sità e convenzione. Un altro specimen: « Ada la mattina si metteva in costume, ma il bagno non lo faceva. Il costume erano anda te a comprarlo a Cecina. La mamma sapeva di un negozio gestito da un compaesano, ma non era riuscita a spiegarsi, o forse era passato in altre mani. Il pomeriggio la mamma si por tava il lavoro. Si metteva seduta con le gambe stese, e non cambiava più posizione. Ada stava con le gambe ri piegate… », ecc. Come si può definire questo tipo di narrazione, nella quale la realtà è prosciugata in un disegno immobile, distrutta a vantaggio del ve ro, e il vero, a sua volta, incredibil mente armonizzato con l’« aria » e l’a strazione? Così Cassola ha sempre costruito i suoi libri. Ma in questa direzione Fer rovia locale ci appare come un tentativo-limite, assai più arduo e ambizioso che non fossero i precedenti romanzi. Ha ragione Pampaloni, quando parla di un Cassola « sperimentale ». Il pro cedimento a catena si sottrae alla giu risdizione dello stile, invade la costru zione fantastica, diventa il principio tecnico del narrare. E’ il meccanismo stesso della fantasia cassoliana che si comporta a catena, organizzando una struttura di epifanie: niente che sia comparso casualmente nella serie ano nima dei non-fatti che ci vengono rac contati, verrà mai più abbandonato. « Nella vita, non c’è nulla che vada perduto ». Cassola insegue, adesso, i suoi enti privilegiati. Un tempo si sarebbe con tentato di rivelarceli. Oggi cerca di « leggere » nelle sue epifanie, si chiede di che cosa sia fatta quella loro natura ineffabile. Così se passerà un merci, il narratore lo seguirà di pagina in pagi na, lo ritroverà, ricreando di volta in volta quelle compatte, magiche impli cazioni di realtà e poesia, di quotidia no e metaforico, che abbiamo già visto prodursi alla stazione di Pisa. Cassola sa che dietro le sue epifanie non c’è niente, e c’è tutto. Mentre finge di os servare dal di dentro la vita, intrec ciando lungo le rotaie della Toscana costiera, da Pisa a Grosseto, a Saline, a Cecina, a Orciano, al casello di Lorenzana, a Marina, umili storie di gen te del popolo, manovali, ferrovieri, commercianti, un capostazione, un maresciallo, un medico-condotto, stu denti, spose, vedove, in realtà mette insieme un labirinto privilegiato (Il dottor Zivago), organizza una mappa metaforica della vita: un’epifania delle epifanie, il solo « romanzo » possibile. Tra Cecina e Capalbio, insomma, « i luoghi santi », benedetti dal vero. E’ stato detto che nella complessa orchestrazione del racconto la più vi va invenzione poetica è la ferrovia. E’ rilievo forse troppo vero per esserlo. Chiaro che il tema figura un movi mento illusorio in un sistema ispirato all’immobilità. Ma se torniamo al no stro esempio, quando Anna era affac ciata alla finestra, e si asciugava i ca pelli, c’era il sole. Poi la ragazza rien trava in casa, oziava in pensieri e fac cende. Quando Anna torna alla fine stra, « i lampioni erano accesi, ma fa cevano poca luce ». Mentre Cassola raccontava, il tempo si è mosso, ha camminato, la sera è scesa senza che ce ne siamo accorti. E’ con questi pro cedimenti indiretti, col senso del tem po che è composto Ferrovia locale. Il romanzo avrebbe potuto intitolarsi In verno: l’intreccio delle storie disegna un arco tra un’estate e il principio di un’altra, e Cassola supera se stesso, in arte, nello spostare gli ultimi blocchi narrativi, senza parere, da Pisa e Collesalvetti, da Cecina e Saline verso Marina, dall’entroterra verso la spiag gia e il mare. La vita si libera, la nar razione « respira ». E ora mi chiedo che cosa avverta di tanto provocatorio, in Cassola, la cul tura contemporanea. Potrei spiegarmi il fenomeno col fatto che nessuno scrittore più di Cassola appare estra neo allo spirito del Novecento, nel senso per cui il Novecento è portato a identificare lo « spirito », appunto, l’« intelligenza », la « ricerca » e la cul tura con la « poesia ». Ovunque arrivi l’intelligenza, per Cassola arriva la morte. Si direbbe che il narratore muova da un presupposto montaliano, esattamente rovesciato: comincia a de gnare di racconto le cose, soltanto a un grado zero di depressione creativa. Il « non-volere », il « non-essere », invece di confinarlo in una condizione di pri gionia e di impotenza, sono per lui la sola salute. Del resto a chi serve l’in telligenza, sembra dirci continuamen te questo scrittore, se non a chi non capisce?
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