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LETTERATURA: I MAESTRI: Carlo Cassola. Quando passa un treno

5 Gennaio 2016

di Cesare Garboli
[da “La fiera letteraria”, numero 17, giovedì 25 aprile 1968]

CARLO CASSOLA
Ferrovia locale
Einaudi, pagine 210, lire 2000.

E’ impressionante come si vada accentuando nello stile di Cassola, di esperimento in esperimento, la ten ­denza sempre più ostinata, sempre più rigorosa, a costruire il discorso narra ­tivo attraverso la coordinazione a ca ­tena dei membri sintattici. Un tempo quest’attitudine la si poteva considera ­re un vezzo, un tic, uno stilema ricor ­rente ma occasionale, ispirato al gusto di quella semplicità estrema, di quella povertà di sintassi che il narratore ha sempre inseguito di proposito, non mancando mai di sottolinearla. Si sa del resto che come tutte le nature ca ­paci di dire di no, di escludere tutto ciò che a loro non interessa, Cassola conosce come pochi altri il segreto di provocare senza muoversi.

Ma oggi, grazie a Ferrovia locale, siamo finalmente in grado di cogliere quanto c’era di ossessivo, non di pole ­mico e marginale, in un tic che ha finito per invadere tutta la vocazione dell’ar ­tista. Ci troviamo, con Ferrovia locale, al vertice di una « poetica », passata quella soglia oltre la quale una matu ­rità d’arte comincia a sconfinare irre ­sistibilmente nello spettacolo e nell’or ­gia di se stessa. Nel suo ultimo roman ­zo, Cassola è giunto a vietarsi anche il più piccolo arbitrio fantastico, anche la più piccola soluzione di continuità nell’ordine del racconto: raccontare è allineare, limitarsi a dare spazio a oggetti che formino una serie spontanea li addendi, lasciare che una composi ­zione cresca e si sviluppi unicamente da se stessa, appoggiandosi all’obietti- a, ovvia virtualità associativa degli elementi che concorrono a costituirla, gli elementi possono, anzi debbono, ri ­dursi a uno, a due, a tre: mentre il nu ­mero dei segni è limitato, tanto più la loro combinazione è infinita. E quanto più la combinazione degli elementi è ovvia ed elementare, tanto più l’insieme dei pochi segni verrà crescendo su stesso come un insieme organico, come un aggregato di inspiegabile for ­mazione naturale. Un doppione della vita, un perfetto equivalente esisten ­ziale.

Raccontare è dunque « copiare », mettendo insieme una rappresenta ­zione di oggetti tutti assolutamente contigui, che si riproducono incessan ­temente uno dall’altro, diversi quel tanto che basta a illudere che non si tratta sempre della stessa storia. Nella loro monotonia, stipati in quella che si definirebbe volentieri una quintessenziale prigione del vero, gli oggetti di Cassola ci ripeteranno fino all’esauri ­mento che la vita è sempre la stessa. Eppure, compiuto il loro arido giro vi ­tale, riassunti in una storia che non lo è, essi troveranno modo, alla fine, di dimostrarci che niente è più avventu ­roso e più insolito del puro ritmo di esistere.

Apriamo Ferrovia locale, a caso. Prendiamo le prime pagine. Un treno merci è fermo in attesa dell’ordine di partenza appena fuori di una stazione. Un giovane ferroviere, Dino, osserva il misero paesaggio circostante: la pe ­riferia cittadina, il muraglione della ferrovia, gli ultimi piani dei casamenti popolari. Una ragazza affacciata alla finestra entra nel riquadro della visua ­le. Il treno si muove, il giovane ferro ­viere apre il giornale, davanti ai suoi occhi sfilano velocemente le ultime ca ­se dei sobborghi, poi gli orti e i campi. Gradatamente il convoglio scompare dalla pagina. A questo punto, senza soluzione di continuità, la macchina del narratore torna a « girare » lo stes ­so paesaggio, dove il treno ha sostato, attraverso gli occhi della ragazza, An ­na, affacciata alla finestra. Ora vedia ­mo quello che non potevamo vedere prima; o lo vediamo in prospettiva di ­versa: stessa stazione, stesso muraglio ­ne, stesso cavalcavia, e insieme una strada in salita, un ciclista scende di sella e prosegue a piedi, un altro vola giù senza mani, da una vetreria uscirà fra poco un gruppo di operai. La vista di Anna è identica e diversa da quella di Dino. Tutto si muove, e, nello stes ­so tempo, tutto sta fermo.

E’ stato Cassola a dichiarare di ave ­re inventato, lui per primo, il « nouveau roman », la tecnica dello sguar ­do. In realtà quello che interessa a Cassola, come si dice in altra parte di Ferrovia locale, è che nel tessuto del ­l’esistenza non ci sono vuoti, nella vi ­ta « non c’è nulla che vada perduto ». Quel treno merci passato per un istan ­te sotto la specola distratta degli occhi di Anna, umile apparizione del quoti ­diano, squisito « non-fatto », è già de ­stinato a entrare nell’orbita delle cose perenni, appartiene ormai a una cate ­goria di enti privilegiati. E’ la prima, nella successione del romanzo, di una serie di epifanie di cui si compone la vita.

Proseguiamo nella lettura. Anna sta ­va asciugandosi i capelli al davanzale, un po’ intontita dal sole. « Ormai pote ­va venir via dalla finestra, i capelli erano quasi asciutti ». L’obiettivo del narratore si sposta verso l’interno del casamento, seguendo l’oziare della ra ­gazza in attesa del rientro del padre, un operaio. Anna si sdraia sul suo di ­vano-letto, fa merenda, esce sul piane ­rottolo, fruga nella stanza da lavoro della madre. Fantastica, fa progetti per il futuro. E’ un pomeriggio d’esta ­te, in uno qualsiasi degli Anni Trenta. Simili ad altrettante azioni futili e vi ­ve, i pensieri della ragazza non vanno al di là della registrazione dell’ovvio.

Immagina, si distrae, e così non si accorge che il padre, nel frattempo, è rientrato. Torna alla finestra: « i lam ­pioni erano accesi, ma facevano poca luce. Sul marciapiede davanti al porto ­ne si vedevano i segni tracciati col gesso per giocare a campana. Anna ci aveva giocato fino all’anno prima Un tempo stava più volentieri coi maschi che con le altre bambine. Ora non sta ­va più con nessuno. La domenica usci ­va con la mamma e il fratellino. Lei avrebbe preferito uscir col babbo. Da piccina il babbo la portava sulla canna della bicicletta. Anna aveva il vago ri ­cordo di una strada polverosa, di un podere, di una fila di pioppi lungo l’ar ­gine. Ora il babbo aveva smesso di an ­dare a pesca. La bicicletta l’adoperava solo per andare al lavoro. La teneva nel cortile e la puliva tutte le domeni ­che. Dopo si faceva la barba e si cam ­biava. Nel pomeriggio passava a chia ­marlo un amico. Gli fischiava dal cor ­tile; non era mai salito in casa. A vol ­te Anna fantasticava su un improvvi ­so colpo di fortuna, un’eredità dall’A ­merica, una grossa vincita al lotto: in questo modo il babbo non avrebbe più avuto bisogno di lavorare. « Anna! » fece la voce della mamma dalla cuci ­na… E così di seguito.

Confesso che questo modo di conca ­tenare insieme gli elementi interni ed esterni di una rappresentazione mi ri ­corda il gioco del domino: il soggetto di ogni periodo si tira dietro il predi ­cato, ma a sua volta il predicato di ­venta il soggetto di una proposizione contigua, secondo una serie infinita di combinazioni. Allo scrittore non resta che fidarsi del proprio orecchio, che compiere una suprema e difficile ope ­razione selettiva. Dato un segno, è na ­turale che intorno a esso debba dira ­marsi un universo perfettamente rea ­le, neppure una spilla fuori dal vero. Quello che sta fuori, infatti, dal siste ­ma, dalla riduzione sistematica delle cose alla loro « verità », non può esse ­re che teatralità e « romanzesco », fal ­sità e convenzione.

Un altro specimen: « Ada la mattina si metteva in costume, ma il bagno non lo faceva. Il costume erano anda ­te a comprarlo a Cecina. La mamma sapeva di un negozio gestito da un compaesano, ma non era riuscita a spiegarsi, o forse era passato in altre mani. Il pomeriggio la mamma si por ­tava il lavoro. Si metteva seduta con le gambe stese, e non cambiava più posizione. Ada stava con le gambe ri ­piegate… », ecc. Come si può definire questo tipo di narrazione, nella quale la realtà è prosciugata in un disegno immobile, distrutta a vantaggio del ve ­ro, e il vero, a sua volta, incredibil ­mente armonizzato con l’« aria » e l’a ­strazione?

Così Cassola ha sempre costruito i suoi libri. Ma in questa direzione Fer ­rovia locale ci appare come un tentativo-limite, assai più arduo e ambizioso che non fossero i precedenti romanzi. Ha ragione Pampaloni, quando parla di un Cassola « sperimentale ». Il pro ­cedimento a catena si sottrae alla giu ­risdizione dello stile, invade la costru ­zione fantastica, diventa il principio tecnico del narrare. E’ il meccanismo stesso della fantasia cassoliana che si comporta a catena, organizzando una struttura di epifanie: niente che sia comparso casualmente nella serie ano ­nima dei non-fatti che ci vengono rac ­contati, verrà mai più abbandonato. « Nella vita, non c’è nulla che vada perduto ».

Cassola insegue, adesso, i suoi enti privilegiati. Un tempo si sarebbe con ­tentato di rivelarceli. Oggi cerca di « leggere » nelle sue epifanie, si chiede di che cosa sia fatta quella loro natura ineffabile. Così se passerà un merci, il narratore lo seguirà di pagina in pagi ­na, lo ritroverà, ricreando di volta in volta quelle compatte, magiche impli ­cazioni di realtà e poesia, di quotidia ­no e metaforico, che abbiamo già visto prodursi alla stazione di Pisa. Cassola sa che dietro le sue epifanie non c’è niente, e c’è tutto. Mentre finge di os ­servare dal di dentro la vita, intrec ­ciando lungo le rotaie della Toscana costiera, da Pisa a Grosseto, a Saline, a Cecina, a Orciano, al casello di Lorenzana, a Marina, umili storie di gen ­te del popolo, manovali, ferrovieri, commercianti, un capostazione, un maresciallo, un medico-condotto, stu ­denti, spose, vedove, in realtà mette insieme un labirinto privilegiato (Il dottor Zivago), organizza una mappa metaforica della vita: un’epifania delle epifanie, il solo « romanzo » possibile. Tra Cecina e Capalbio, insomma, « i luoghi santi », benedetti dal vero.

E’ stato detto che nella complessa orchestrazione del racconto la più vi ­va invenzione poetica è la ferrovia. E’ rilievo forse troppo vero per esserlo. Chiaro che il tema figura un movi ­mento illusorio in un sistema ispirato all’immobilità. Ma se torniamo al no ­stro esempio, quando Anna era affac ­ciata alla finestra, e si asciugava i ca ­pelli, c’era il sole. Poi la ragazza rien ­trava in casa, oziava in pensieri e fac ­cende. Quando Anna torna alla fine ­stra, « i lampioni erano accesi, ma fa ­cevano poca luce ». Mentre Cassola raccontava, il tempo si è mosso, ha camminato, la sera è scesa senza che ce ne siamo accorti. E’ con questi pro ­cedimenti indiretti, col senso del tem ­po che è composto Ferrovia locale. Il romanzo avrebbe potuto intitolarsi In ­verno: l’intreccio delle storie disegna un arco tra un’estate e il principio di un’altra, e Cassola supera se stesso, in arte, nello spostare gli ultimi blocchi narrativi, senza parere, da Pisa e Collesalvetti, da Cecina e Saline verso Marina, dall’entroterra verso la spiag ­gia e il mare. La vita si libera, la nar ­razione « respira ».

E ora mi chiedo che cosa avverta di tanto provocatorio, in Cassola, la cul ­tura contemporanea. Potrei spiegarmi il fenomeno col fatto che nessuno scrittore più di Cassola appare estra ­neo allo spirito del Novecento, nel senso per cui il Novecento è portato a identificare lo « spirito », appunto, l’« intelligenza », la « ricerca » e la cul ­tura con la « poesia ». Ovunque arrivi l’intelligenza, per Cassola arriva la morte. Si direbbe che il narratore muova da un presupposto montaliano, esattamente rovesciato: comincia a de ­gnare di racconto le cose, soltanto a un grado zero di depressione creativa. Il « non-volere », il « non-essere », invece di confinarlo in una condizione di pri ­gionia e di impotenza, sono per lui la sola salute. Del resto a chi serve l’in ­telligenza, sembra dirci continuamen ­te questo scrittore, se non a chi non capisce?

 


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Bart