di Carlo Laurenzi
[dal “Corriere della Sera”, martedì 28 gennaio 1969]
Ad alcuni amici miei di Ver silia non è piaciuto che la casa natia del Carducci a Valdicastello mi sia parsa « non ispirata », come ho scritto in que sta stessa pagina (L’antenna in giardino, 5 gennaio).
E’, fra noi amici, una vec chia e in fondo affettuosa querela. La casa natale del Carduc ci, secondo la mia impressio ne, non è « ispirata », vorrei aggiungere « non carducciana », giacché il piccolo Giosuè vi crebbe soltanto fino al terzo mese di vita: troppo poco per determinare un’aura. Nello stes so anno di nascita del poeta, 1835, la famiglia Carducci si trasferì a Fornetto di Pontestazzemese, un altro borgo di Versilia, in un’altra umilissima casa. Poi, nel 1838, sopravvenne l’esilio in Maremma: sappiamo tutti che Michele Carducci, me dico e cospiratore, si trasferì a Castagneto per forza di casti go; sappiamo anche che a Ca stagneto i Carducci finirono col trovarsi niente affatto male. In ogni modo, l’infanzia e l’adole scenza di Giosuè furono ma remmane. E’ abbastanza, come dire, aulico o accademico che Giosuè Carducci, in uno dei suoi versi più famosi, invochi la « Versilia che nel cor mi sta ». Direi piuttosto che la Versilia abbia Giosuè Carducci nel cuore.
Allora, se questo è vero, tut to si fa commovente. Non im porta che il Carducci, dopo avere visitato Pietrasanta nel 1877, si sia spinto a Valdicastello nel 1890, non prima: ave va cinquantacinque anni, era famoso, una ragazza ventenne lo accompagnava nella ricognizione alla casa natale di lui, questo luogo cui non lo legava nessun concreto ricordo. La ragazza era Annie Vivanti, astu ta poetessa; già si malignava sull’idillio, sebbene si trattasse di un idillio forse innocente, e il Carducci cercò di non dare nell’occhio. Ma la storia di quel giorno di marzo è nota. Da qualche anno il comune di Pietrasanta aveva fatto collocare sul muro della casa una lapide commemorativa, dove il nome della madre di Carducci era scritto non Ildegonda Celi ma Ildengonda Cheli. Il poeta, che non aveva buon carattere, si adontò: «Mia madre si chia mava Celi e il parroco ha fatto scrivere Cheli » disse forte; «asino di un prete! ».
Un gruppetto di curiosi si era raccolto attorno ai visita tori: in tal modo fu ricono sciuto il Carducci. Le campane suonarono a festa; l’assessore alla pubblica istruzione accorse da Pietrasanta; il paese si im bandierò; la vecchia balia del poeta fu sola a non rendergli omaggio perché, avendo scritto l’Inno a Satana, quell’uomo dabbene si era palesemente venduto al demonio. Qualcuno, ignaro, complimentò il profes sore per una figlia così grazio sa: Annie sorrideva sfacciata mente; la scappatella del vate fu di dominio pubblico in tutta Italia. Io non credo che l’imbronciatissimo Carducci abbia davvero amato la casa dove nacque in Valdicastello. Non importa. Importa e commuove l’amore dei versiliesi per il Carducci, nel segno di quella casa. C’è stato un momento in cui gli abitanti di Valdicastello manifestarono l’intenzione, con serietà, di mutare il nome del loro villaggio in Valcarducci. Ed è tuttora controverso se gli abitanti di Valdicastello deb bano chiamarsi valdicastellesi, valdicastellotti, o valcarducciani.
Proprio in Versilia, anni fa, ascoltammo in un gruppo di amici la vecchia e serena si gnora Elvira Baldi Bevilacqua parlare di suo nonno, Giosuè Carducci, che l’aveva predilet ta. Fra i molti temi e i molti ricordi, vorrei fissarne uno: un episodio carducciano del quale la signora Elvira Baldi Bevilac qua, da giovane, fu testimone. E’ un episodio ferroviario che riguarda anche il De Amicis. Di questo episodio ci si è occupati di recente: si è detta una rievo cazione di Luigi M. Personé; altri, poi, tra i quali il professor Alfonsi dell’università di Pavia, hanno proposto correzioni e varianti. Ed ecco, come io la rammento, la versione della te stimone.
Il Carducci era dunque in treno, viaggiando da Bologna a Roma, e sedeva su uno di quei divani di velluto rosso, scomodi ma sfarzosi, avendo la nipote a fianco, leggendo pre sumibilmente II resto del Car lino, di cattivo umore. Di fron te a lui sedevano due ufficiali dell’esercito regio, un capitano e un colonnello. Possiamo im maginare i loro mustacchi, gli alamari, le giubbe color nero e celeste, i calzoni turchini con staffa, le scarpe lucide di co pale, una qualche arroganza.
E’ meno facile indovinare di che cosa parlassero. Essi parla vano di letteratura, forse non perspicuamente, ma con piena concordia. La loro persuasione era che il celebre giornalista, romanziere, saggista, resoconti sta di viaggi e insomma poli grafo Edmondo De Amicis fos se un assoluto imbecille, e il libro Cuore « acquerugiola dol ciastra ». « E in che mondo vi viamo! » esclamò il colonnello. « Io non posso digerire che questo De Amicis, scribacchian do su tante gazzette, brillante su ogni argomento, idiota su ogni argomento, sfornando li bri su libri, sia oggi l’uomo di lettere più pagato in Italia. Lei sa, capitano, che, se si giu dica quanto guadagnano, il Car ducci, dico il Carducci, è alla fame paragonato al De Ami cis? ». Commentò il capitano: « Lo so bene, colonnello. Il Car ducci è un genio, e la nostra epoca vile non merita i geni ».
A questo punto, l’uomo che leggeva (ringhiosamente) Il re sto del Carlino, appallottolò rabbioso il giornale e fissò i due militari con sdegno.
« Io sono il Carducci », disse. Poi aggiunse, calmo: «Loro non hanno il diritto di espri mersi sul De Amicis in codesto modo. Il De Amicis è un gen tiluomo, loro non sono genti luomini. Io cambio scomparti mento. Andiamo, Elvira ».
Il dato più meritorio nello scatto del Carducci fu che il giudizio intimo del Carducci sul De Amicis, o meglio sull’am mirazione della borghesia con formista per il De Amicis, coin cideva inevitabilmente col giu dizio dei due ufficiali. E’ ovvio. Ma il Carducci era un generoso.