LETTERATURA: I MAESTRI: Cesare Garboli e “La stanza separata”2 Giugno 2018 di Geno Pampaloni «L’essenziale è riconoscere che, come scrisse una volta Croce, la critica è tutta buona quando è buona, qua Âlunque essa sia. Per di più, quando essa è buona, essa è la critica intera ». Sarà utile partire da questa osserva Âzione, davvero aurea, di Gian Âfranco Contini, per arrivare a un giudizio obiettivo sul lavoro critico di Cesare Garboli. Qualcuno infatti potrà venire affascinato dalla sua prosa tesa e capziosa che spesso sembra cimentarsi in bravura con gli scrittori che giudica (e spesso vince e stravince); così come qualche altro sarà imbarazzato dal lussuoso scialo di sottigliez Âze, disorientato dal vorticoso giuoco ai quattro cantoni in cui l’autore lo trascina, a co Âminciare dal sibillino duplice ossimoro che campeggia, ur Âgente come un telegramma, sulla sovraccoperta: « II libro involontario di un critico che scrive per capire ». Ma se, co Âme credo, in queste pagine (La stanza separata, ed. Mon Âdadori, pp. 308, L. 2500) non c’è forse un libro ma certa Âmente c’è un critico, ricco di un dono quale da molto tem Âpo non capitava di incontra Âre, il caso del Garboli, pro Âprio per il livello ove ci si propone, diviene un esempio sintomatico di una situazione generale. Tutte le carte, in questo caso, sono in regola. I suoi primi maestri furono De Sanctis, Croce (ma più an Âcora Gentile) e gli storicisti che lo accompagnarono sino all’esito marxista. Fece i suoi studi meglio degli altri, e i suoi strumenti critici, come provano gli originali studi danteschi, sono affilatissimi. Se non andò in cattedra (e questo fu il primo sintomo di una vocazione più tormen Âtata, più « dentro » la lette Âratura di quanto di solito non abbia un professore) fu per Âché non si riconosceva del tutto nella tradizione di cui era figlio, non si sentiva « maestro ». Il « metodo » ver Âso la realtà della poesia non era più la lettura critica ma l’ideologia: un’ideologia pe Âraltro tanto oscillante tra in Âcarnazioni diverse che pote Âva essere avvicinata più per vie autobiografiche che ra Âzionali. E qui, in questa zona già ambigua, già dolente, già disposta a un’autocritica co Âsì radicalmente laica da coin Âcidere con un’autogiustificazione pseudoreligiosa, comin Âciano a giuocare le screziatu Âre del temperamento. Trovi in lui certe inflessioni (con Âfessioni, smarrimento e orgo Âglio) del Serra, echi del gu Âsto impavido, da storicista del demoniaco, del Debene Âdetti. Ma tra quei maestri (già per loro conto coinvolti nella cri Âsi) e noi sono passate gene Ârazioni di avventure. Come a Venezia, aggirati i murazzi della Serenissima, l’acqua al Âta è diventata fenomeno con Âsueto, così ci siamo abituati alle quotidiane infiltrazioni delle non-estetiche: le lucide pantegane snidate dai vecchi granai che saettano fameli Âche negli androni affollati fanno oramai parte del pae Âsaggio. Il critico moderno è pronto a captare tutti i sus Âsurri, gli sciagottamenti, i misteriosi rigurgiti, i lontani tonfi dell’acqua che batte e che forse sono segnali. Il suo storicismo è messo alla pro Âva dalle incalzanti idolatrie dell’ambiguità , dai proclami di fedeltà alla Vita. Tutti i più splendidi irrazionalismi: Pasolini, Barthes, la Sontag e chi sa quanti altri si insi Ânuano nelle sue certezze. A poco a poco la sua polemica antiletteraria, antipetrarche Âsca, di derivazione romanti Âca, contro « il fatto d’arte come frutto di coscienza chiu Âsa in se stessa », pur mante Ânendo la stessa facciata e, in apparenza, la stessa istanza morale, cambia sostanzial Âmente di segno. Se la storia, trascendendo se stessa, non riesce più a dare forma all’arte, è la Vi Âta che nel suo trionfare de Âve essere informe, l’Informe. « Entro nell’ordine di idee che niente è più sacro di ciò che non è stato ancora re Âdento dallo stile » : questa è la conclusione cui arriva il Garboli alla fine dell’Avver Âtenza, teorizzando il rifiuto del «male estetico », cioè del privilegio innaturale attribui Âto alla parola letteraria nei confronti della realtà . Ma non ci vuole molto ad accor Âgersi che questo (niente, sa Âcro, redento, ciò che non è stato ancora) è linguaggio di sublimazione, perfetta voce di falsetto, del tutto consan Âguineo all’estetismo negato in quel medesimo istante. La nevrosi che ha già róso le vecchie strutture della narra Âtiva, ora (maestra la Fran Âcia) attacca la critica. E qual è il risultato? Alla religione delle lettere, che aveva con Âsacrato la propria sconfitta in piedi sulla trincea del Podgora, il nuovo critico ha so Âstituito la religione della scrittura. Il libro « involonta Ârio » redime, nello stile, sol Âtanto se stesso. Nel Garboli, una simile pa Ârabola à rebours dallo stori Âcismo è messa in risalto dal Âle sue stesse qualità , dalla sua intelligenza rapida, dal suo vivido entusiasmo intel Âlettuale. Se la contrapposizio Âne non appaia elementare o grossolana, direi che le cose stanno così: all’opposto di quasi tutti i critici d’oggi (non escludo me stesso) i quali cercano di compensare i vuoti d’ingegno con la fe Âdeltà del carattere, con il pre Âmio delle buone intenzioni, il Garboli sembra avere for Âte l’ingegno e debole il tem Âperamento. L’ingegno non gli è autosufficiente: egli sembra temere di rimanere solo in sua compagnia, ha bisogno di portarlo in giro tra gli amici come una volta i padri facevano con i figli prodigio. Scrive non per « capire », ma per liberare nello scrivere la responsabilità del vivere, e alleggerirsene. Le sue parole danno l’im Âpressione di essere scritte sul margine esterno del davan Âzale, affinché siano preda fa Âcile del vento. Insiste sulla differenza tra lo scrivere («re Âligioso ») e lo scritto («laico »), perché tra l’uno e l’altro sen Âte consumarsi un vano incan Âtesimo. Ecco allora un in Âgegno virile, solido, prolifera Âre in estri leggiadri, estenuar Âsi in lunghe confessioni, pre Âferire talora la trouvaille al giudizio, staccarsi dal proprio oggetto per affidarsi all’enfa Âsi del capriccioso. Si tratta di una crisi seria, profonda, che nasce dal concepire la vita vitalisticamente, come « approssimazione, non-stile ». Le delusioni storiche prodot Âte dall’umanesimo portano a idoleggiare radicalmente il disordine, a rifiutare per ma Âlinconia anche le nuove geo Âmetrie e i nuovi appunta Âmenti con le stelle. «Scri Âvere â— dice il Garboli â— è un fatto borghese in quanto pro Âduce storia », a conferma che a nessuno la storia fa tanta paura come a uno storicista deluso. Ma se si vuole la spia più alta della sua incertezza spi Ârituale, aperta come una no Âbile piaga, si legga il bellis Âsimo saggio sul Dottor Zivago, e in particolare là do Âve egli parla del dolore come di « quella cavità negativa, quel durevole, costante non- Âessere di ciò che chiamiamo anima ». Sotto la cultura pre Âziosa del critico aggiornatis Âsimo cui nulla è sfuggito del Âla cultura letteraria europea e delle infinite eresie e para Âfrasi marxiste, ecco riaffio Ârare puntualmente, al mo Âmento della confessione esi Âstenziale, e per così dire alla resa dei conti, la vecchia poetica dell’assenza. C’è dun Âque in lui una contraddizio Âne aperta, un discorso da concludere, che solo provvi Âsoriamente si risolve nell’oro e mirra della scrittura, nella quale, per sentirsi « genera Âzionale », il critico vero che è in lui non trova di meglio che mimare un improvvisa Âtore. Ma insomma, potrà chie Âdermi il lettore, lei dice così gran bene del Garboli e avanza tante riserve? Ricor Âdo che molti anni fa Elio Vittorini mi rimproverò, con quei suoi modi ilari e inven Âtivi in lui più forti d’ogni fastidio: voi critici, mi disse, siete sempre sonnacchiosi e indulgenti come stanchi pre Âtori invecchiati in provincia; ma appena vi imbattete in uno scrittore, subito lo tra Âscinate in giudizio in corte d’assise. Ecco che ancora una volta sono ricaduto nel solito errore, e la severità è andata di pari passo con la stima. Ma di Cesare Garboli farò questo elogio: di lui si può dire (e in verità di quan Âti altri si potrebbe?) che è ancora in debito con se stesso.
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