LETTERATURA: I MAESTRI: La lezione di Gobetti5 Giugno 2018 di Geno Pampaloni « Caro Prezzolini, certo tu sei sempre Prezzolini, ma so di essere più vicino di te allo spirito della ‘ Voce ‘ », scrive va Piero Gobetti in una lettera del ’24. E la frase, con quei timbri di amaro orgoglio che è proprio delle sue pagine più alte, appare illu minante. Il nodo della sua personalità si stringe infatti intorno alla apparente con traddizione fra una simile fe deltà postuma alle esperienze delle prime avanguardie in tellettuali del secolo e lo slan cio con cui bruciò la sua vita per un rinnovamento radica le, in termini di cultura e di coscienza, della società italia na; nello stesso modo come il rilievo emblematico della sua figura, nel nostro Nove cento, balza vivo dal suo col locarsi, intransigente e ma gnanimo, sull’incerto confine che divide « La Voce » dal fascismo. Egli era figlio della « Voce » e intese andare ol tre quella lezione, ma lo fe ce più sul terreno etico-po litico che su quello schietta mente critico. Gobetti opponeva la pro pria generazione di « storici » ai « poligrafi » del tempo del la « Voce »; ma questo, così come il rovesciamento dei modelli proposto alle élites politiche, « Cattaneo invece di Gioberti, Marx invece di Maz zini », rimase una postulazio ne, una ardente proiezione simbolica. Partito dalla ro mantica ispirazione dell’attua lismo del Gentile, volse a uno storicismo drammatico che, nella Torino operaia e gramsciana, lo portò ben ol tre il Croce a considerare i problemi della libertà come dialettica e lotta delle classi; ma non arrivò mai a formu lare una vera e propria ana lisi della « Voce » e della sua cultura, né a chiarire, se non sul piano del « volontarismo etico », il rapporto fra tradi zione e rinnovamento, che pu re è il tema di fondo della sua ricerca. Le sue radici (per ciò che possiamo dire di lui, stroncato a 25 anni dalla vio lenza fascista) affondano, più che nei nuovi profeti e teo rici della lotta politica come Marx o Lenin, in autori co me Oriani, Gentile, Sorel, in una cultura cioè caratteristi ca della « provincia » antilet teraria italiana. E non solo la molteplicità incandescente dei suoi interessi (storia, po litica, filosofia, letteratura, ar te, teatro) ma la sua stessa forza stilistica lo apparentano agli « scrittori di programmi » di cui fu ricca la generazione dei « poligrafi » vociani. Quando dunque scriveva al Prezzolini di essere più vici no di lui allo spirito della « Voce », (gusto dei proble mi, realtà contro retorica, antidannunzianesimo, respiro europeo) la sua confessione appare sincera. Ma a lui riu scì ciò che la guerra aveva impedito ai più fervidi spi riti del primo quindicennio del secolo. Gli riuscì di tra sformare l’entusiastico eclettismo delle sue fonti in una lucida, « protestantica » intransigenza delle scelte morali, e di stringere la pluralità delle motivazioni culturali nella « porta stretta » del dovere storico, cui ciascuno, indivi dualmente, è chiamato senza possibili deleghe. E’ qui che l’ottimismo tragico del Gobetti accende il fulgore ancora vivo del suo passaggio d’arcangelo, di questo ragaz zo che dialogava da pari a pari con l’Einaudi e il Croce, con il Salvemini e don Sturzo, e nella sua breve para bola non venne mai meno a una sferzante energia e alla maturità del coraggio. Egli cercava, scrisse Eugenio Montale su queste colonne in una memorabile epigrafe, « l’uomo di oggi, il compagno di strada, eguale a noi, migliore di noi, l’uomo che fu cercato invano da una generazione perduta, l’uomo che noi ci ostiniamo ancora a cercare nella parte profonda di noi stessi ». Negli Scritti storici lettera ri e filosofici (Einaudi, pagg. 778, lire 10.000) ora pubbli cati dopo la lontana edizione del 1927 come secondo volu me delle Opere a cura di Paolo Spriano, una simile energia si rivela anche nelle pagine di critica militante, per qualche aspetto minori rispet to alla sintesi storica di Ri sorgimento senza eroi e al ric chissimo frammento del Para dosso dello spirito russo. Mol to, moltissimo di queste pa gine, anche delle più occasio nali, è ancora vivo. Il giudi zio critico scaturisce netto e martellante da una prosa scan dita e pur trasparente di ten sioni e sdegni profondi. La vena autobiografica si risolve costantemente in ap pello morale, il ritratto rin via al presupposto di un au toritratto severo. Sul terreno della letteratura contempora nea, è vero, l’angustia del pa norama entro il quale egli esercitava il suo lavoro di cronista e l’insufficiente di stacco da una confusa scala di valori ereditata dalla « cul tura delle riviste » segnano i limiti di un’opera interpreta tiva mai fiacca ma talora di spersiva. Sembra mancargli talvolta la sicurezza dottrina ria e teorica del Gramsci, la sua sottigliezza metodologica e anche un’uguale finezza del gusto. Ma sempre la prosa critica s’innerva di rapide in tuizioni, aperture, nessi colti con fresco, giovanile piacere del non-conformismo intellet tuale. E soprattutto, ciò che ap pare intramontabile è la me todologia dell’impegno mora le. Più che il risultato d’arte, gli premeva (vociano anche in questo, ma al di fuori di ogni ebrietà di lirismo) la volontà espressiva dell’artista. Per questo il giudizio gli si incarna naturalmente nel ri tratto, in un confronto impe gnativo, ultimativo, da uomo a uomo: Boine, Slataper, Prezzolini, Farinelli, Giuliotti… Non un panorama, ma vivi incontri. Il critico si pone frontalmente rispetto ai fatti e ai perso naggi della vita letteraria, con una esigenza di chiarezza che è, al tempo stesso, rispetto dell’altro da sé e gusto dia lettico della sfida. Le pagine più nobili su un cattolico « reazionario » come il Giu liotti (o sul Papini) le ha scritte lui, animate dalla ca valleresca ammirazione per il combattente di buona fede. Il suo rigoroso radicalismo di illuminista convive con un istinto, uno stile generosamen te aristocratico. Nello scritto re, in sé stesso come negli altri, egli vede l’eroe di una moralità, non il sacerdote di una tecnica espressiva. Si spiega anche così, oltre che per profonde ragioni di insofferenza politica, il suo rifiuto del futurismo e delle avanguardie, su cui converrà fermarci un momento. Il Go betti diffidava dei capricci sperimentali, dell’« epica del provvisorio », quali espressio ni di intima irresponsabilità e fuga dall’autentico rischio vitale della cultura. Aborriva i personaggi chiassosi « che predicano la violenza esterna per paura della solitudine, per paura di dover fare i conti con sé stessi ». Sono parole, queste, che oggi suonerebbero impopolari. Ma non sono qui riferite per speculazione di attualità, sibbene per sottoli neare un punto che credo essenziale. E cioè. La sua lea le, irreducibile, assoluta oppo sizione al fascismo e a ciò che il fascismo rappresentava non prese mai le scorciatoie o i diversivi dell’avventura. Gli ripugnava l’« estetismo di sovversivi ». Non lo incanta va la facile sirena degli anni zero. Nella sua opera la par te più vera non è quella del la contestazione ma quella del la resistenza. Non si tratta, inutile dirlo, di una questione terminologica; ma di un acu to, doloroso senso della di gnità e del servire una socie tà nel suo destino. « Non si può essere spaesati », scrisse in una toccante lettera dal l’estero; non si può essere spaesati neanche nella storia. Per questo, credo, anche se non ha dato risposta a tutte le infinite domande che si è posto, la sua passione non la sciò estranei uomini della più diversa estrazione, razionalisti e cattolici, marxisti e conser vatori; e anche nelle genera zioni successive ne troviamo l’eco in esperienze pur lonta ne fra loro, da Giaime Pintor ai giovani storici « revisioni sti » del secondo dopoguerra. Perfino nel campo strettamente letterario la sua lezio ne è stata molto più profon da della sua stessa testimo nianza di critico. Nel conclu dere il capitolo che il primo Novecento visse sotto la bandiera dell’antiletteratura, egli ne cambiò il segno, e rove sciò il curriculum di una generazione che partendo da « Lacerba » era arrivata all’accademia. Seppe restituire alla « funzione » letteraria una sua dignità, e attribuirle, di fronte alle insufficienze della classe politica e alla dittatura, una sua autonomia morale, un suo refrattario orgoglio. Proprio su questa linea, da Felice Balbo definita esistenziale, che ha nei torinesi Sol mi e Debenedetti i mediatori più sensibili e nel gobettiano Montale il poeta, si svilupperà, dal cuore più nobile del l’antiletteratura, di antica ispirazione gentiliana, la nuova letteratura, dall’ermetismo alla resistenza.
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