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LETTERATURA: I MAESTRI: Come morì Michelstaedter

29 Aprile 2013

di Carlo Bo
[da: “La religione di Serra”, Vallecchi, 1967]

Sono stato a Gorizia per il cinquantenario della morte di Carlo Michelstaedter. Hanno messo una lapide sulla facciata della casa dove lo scrittore è vissuto e dove il 17 ottobre del 1910 si è dato la morte, a ventitre anni.

Gorizia dev’essere molto cambiata da allora, con due guerre che l’hanno devastata, ma la piazza dov’è la casa di Michelstaedter mi dicono abbia mantenuto la forma e il disegno originale. Alla cerimonia c’erano poche persone con le autorità: la sorella, l’unica superstite della famiglia Michelstaedter, la famosa Paula delle Lettere. Gli altri parenti sono scomparsi da tempo, e qualcuno â— come la vecchia madre e due sorelle â— in modo tragico: deportate in Germania nei campi di eliminazione e bruciate. La nostra malvagità non risparmia neppure una vecchia di novantatre anni, quanti ne aveva la signora Michelstaedter.

C’era invece qualche amico: fra gli altri, uno di quelli che la mattina del 18 ottobre avevano portato la bara dello scrittore nel piccolo cimitero ebraico che ora sta al di là del confine. Di pochi metri, non più di duecento, ma per andarci occorre il permesso della polizia. È per questo che la cerimonia si è chiusa nella parte di Gorizia dove Michelstaedter aveva consumato la sua breve vita, fra la casa dei genitori e quella dell’amico Paternolli, la casa della soffitta in cui si ritirava a scrivere e a studiare. Ma sarebbe poca cosa se ognuno di noi non la riprendesse nella memoria, nella rilettura delle opere che sono state pubblicate presso l’editore Sansoni, a cura di uno degli amici fiorentini, Gaetano Chiavacci, che è anche autore della bella epigrafe.

Ho detto nella memoria ma per la verità in quanti siamo a predicare con qualche costanza il valore di Carlo Michelstaedter?

Lo so, cinquant’anni sono molti, lo sono perfino per quegli scrittori che diciamo grandi o che, per una sorte diversa, hanno potuto sviluppare allargare e approfondire la propria opera. Cinquant’anni sono impietosi con tutti, anche con i popoli, con le grosse famiglie, non soltanto con i singoli e con l’individuo. Il rapporto a Gorizia diventa d’obbligo: la città è circondata da decine, da cen ­tinaia di migliaia di morti raccolti nelle tombe o perduti nei campi o sui monti. Mi guardo intorno è una bella giornata d’ottobre al tramonto e un velo di nebbia copre i monti di cui una volta tutti sapevamo a memoria i nomi e la storia e ora non sono neppure più nostri. Sono i monti che il giovane Michelstaedter aveva corso e scalato: il Cal ­vario, il Sabotino, il San Valentino. È, dunque, un mondo che si perde nell’ombra e di cui a fatica riusciamo a trac ­ciare un disegno grossolano e fragilissimo.

Michelstaedter, scegliendo la sua morte, aveva in qual ­che modo cancellato quel mondo che a distanza di pochi anni sarebbe stato sommerso da una tempesta di sangue e di dolore. La sua stupenda favola â— fatta di bellezza e di intelligenza – – è durata appena cinque anni, quanti furono poi gli anni della sua educazione a Firenze. Chiavacci mi parla delle doti eccezionali di quella mente, esalta la sua facoltà di imparare senza il più piccolo segno di fatica e soprattutto quella specie di magia che gli consen ­tiva di strappare il vero delle cose, alla prima luce, ancora senza sforzo, quasi per grazia.

Perché Michelstaedter si è ucciso? Ce lo domandiamo o meglio lo chiedo a quelli che lo hanno conosciuto, che gli sono stati vicino. Nessuno lo sa, tutti invece lo ricordano pieno di vita e felice, allegro pronto al dialogo, alla confidenza, alla partecipazione.

Forse è inutile porsi domande del genere, il segreto della nostra morte â— anche quando è volontaria e sembra nascere da un cieco impeto d’ira â— appartiene soltanto a Dio. Caso mai vale la pena di seguire la strada che Michelstaedter ha percorso per arrivare alla morte e la tesi su La persuasione e la retorica, II dialogo della salute ma so ­prattutto le lettere e le poesie restituiscono un dato che mi sembra essenziale per l’interpretazione della sua figura: il dolore; il rovescio di quella grazia di cui ancor oggi si coglie il profumo nelle poche fotografie che ci restano dell’uomo, stava proprio nel dolore, nella vita sofferta, insomma nella coscienza del proprio destino.

Anzi se teniamo ben fisso questo dato di interpretazione arriviamo più in là, possiamo vedere quanto ci fosse in Michelstaedter di serio, di retto, di onesto. Nella storia della intelligenza italiana ai primi del secolo non sono stati in molti a difendere con tanto rigore il principio della ret ­titudine, della parola che dev’essere bilanciata e assolta, e non â— come succede – annullata e tradita, dall’azione.

Non so perché mi è accaduto nel corso della cerimonia di pensare all’enorme diversità delle nostre posizioni, al contrasto che c’è fra quel mondo che si rompe per fedeltà e per volontà, e il nostro mondo che ignora e irride quelle misure interiori. Fra un mondo unito e un mondo vuoto. Il contrasto veniva puntualizzato da una favola ben di ­versa : la favola dei nostri giorni che passa sugli schermi e molti avranno visto. Il film di Godard, í€ bout de soufle, è un esempio di quella che è ormai la vita desensibilizzata, la vita che non rispetta neppure più la finzione del dramma e per cui, delitto, morte, colpa, tutto passa senza lasciare traccia nella coscienza. A un certo punto fra i protagonisti si apre una brevissima discussione sulla frase di Faulkner: «Fra il nulla e il dolore, ho scelto il dolore ». Natural ­mente l’eroe del film sceglie il nulla, la posizione assoluta, ed è sincero: lo è perché, un po’ come tutti noi, egli è inca ­pace di sentire il dolore. Il dolore non è più una dimen ­sione o almeno fingiamo che non lo sia più : fino al giorno in cui ne siamo colpiti e ci annulla. La vita è diventata qualcosa che si prende (la favola dell’eroe del film conosce soltanto tre motivi: il denaro, la donna, la macchina. Ma anche qui sembra difficile distinguere; tutto finisce per asso ­migliarsi in quella corsa nel nulla), non è più qualcosa che si deve interpretare, accettare o rinunciare. In una lettera alla madre del settembre 1910, Michelstaedter confessava:

 

Perché io so come si può avere qualcosa nella vita, come si può essere uomini; so che non si può attendere questo dagli altri né chiederlo in nessuna delle situazioni preparate â— ma che sta in me, nella rettitudine della vita, nel fare tutto, nell’avere la forza di vivere la propria vita…

 

Qui sta la differenza, al tempo di Michelstaedter si po ­teva parlare ancora in quel modo e la vita era vista come qualcosa che uno doveva farsi mentre oggi chi ha soltanto il coraggio di adoperare lo stesso linguaggio? Oggi si aspet ­ta sempre che la vita ci sia fatta, si sia proposta. Il grigio, l’anonimo, il mare di nebbia in cui ci svegliamo e ci addor ­mentiamo non sono che il frutto di questa dimissione ini ­ziale e di una grossa mancanza di dramma intcriore? Ora in tale navigazione sorda e cieca non c’è salvezza, non si diventa uomini con il miraggio della « vita indolore ».

La tragica vicenda di Michelstaedter è una prova per assurdo di tale verità ed è per questa ragione che il suo mi sembra un nome da ricordare, oltre le cerimonie e le com ­memorazioni.

20 ottobre I960.

 

 

 


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