LETTERATURA: I MAESTRI: Dramma con tre personaggi3 Ottobre 2017 di Giovanni Macchia Verso il 1870 due fratelli scrittori, l’uno legato all’altro come un’anima in due corpi abbandonarono la loro casa di Parigi per trasferirsi ad Auteuil, che era allora quasi un luogo di campagna. Nevraste nici, anemici, insonni, soffe renti di gastralgia (anche i loro mali erano al plurale), si allontanavano dalla città per sfuggire al martirio dell’epoca moderna: il rumore. Ma, per uno dei fratelli, le cose ad Auteuil non si misero molto meglio. Nei momenti di dormiveglia, egli fantasticava di scrivere un racconto che avesse il rumore per oggetto. Il protagonista cercava di di fendersi cambiando casa, rifu giandosi in campagna, nelle foreste, sprofondandosi fin nelle tombe delle Piramidi, e poiché in nessun luogo trova va il silenzio, finiva per uccidersi; ma anche nel sepolcro i vermi con il loro lavoro gli impedivano di dormire. Evidentemente il rumore (come segno della demenza, del caos) era dentro e non fuori di lui, e non sarebbe stato facile estirparlo. E così Jules de Goncourt (era que sto il suo nome), ora creden do di essere sbarcato nell’i sola sonante di Rabelais, ora di trovarsi nel centro di Ro ma, quando tutte le campane delle chiese si mettono ad ur lare all’alba sulla città addor mentata, si avviava verso una malattia inguaribile, sotto gli occhi dolenti e atterriti di suo fratello Edmond, che ci ha lasciato il giornale della sua agonia. E, tra una cura e l’al tra, sillabando le parole co me un bambino, con l’oscura coscienza di essere ormai fi nito come letterato, cominciò a leggere, a voce alta, i Mémoires d’outre-tombe di Cha teaubriand. * I frenologi parlano dell’in tensità vibrante, traslucida che ha l’uomo in punto di morte: accesso simultaneo d’immagi ni che si succedono, senso spaziale, visione panoramica, coesistenza, memoria: tutto ciò che fu successivo diviene istantaneo, come aveva detto Ballanche. Proust pensò di far morire Bergotte dinanzi a un quadro del suo pittore preferito: la Veduta di Delft di Vermeer. Il letterato Goncourt, in una dignità più tecnica e profes sionale, si scelse un libro, il libro di un altro letterato: i Mémoires di Chateaubriand. E dell’episodio non è difficile scoprire l’essenza simbolica. Che cosa â— mi son chiesto â— spingeva Jules de Goncourt, nei momenti in cui sentiva che il « letterato » stava per finire in lui, ad aggrapparsi, come in una presenza d’eterni tà, a quelle pagine? Vide in esse l’ultima àncora di salvez za, una medicina, una cura una specie d’idroterapia men tale, luogo supremo della sa lute e della bellezza, o avvertì nel denso sapore di morte che vi si sprigionava una forma d’attrazione verso l’aldilà? Perché scelse quel testo come proprio addio, l’addio della sua coscienza d’homme de lettres, di fabbricatore di libri? Fedeltà ad un ideale di prosa cui s’era votato in anni di pa ziente, massacrante lavoro di affinamento e d’astuzia, o dura, esasperata certezza del proprio fallimento? * La prosa di Chateaubriand, per molti decenni rappresentò il clima irraggiungibile di una perfezione formale, che diventò incubo per tutta una generazione di letterati. Per Jules de Goncourt fu impossibile, penso, staccare quell’ideale di prosa dalla personalità di chi l’aveva creata. E ciò rendeva incommensurabile il senso di quel distacco. Die tro i Mémoires c’era tutta una vita, una vita insieme vissuta e immaginata (è il famoso te ma della « falsità » dei Mémoi res): viaggi, esperienze d’a more, di popoli, di paesi lon tani, di vittorie e di malinco nie, di disfatte e di morte. Dietro i libri dei Goncourt si indovinano degli esseri scorti cati dalle sensazioni, sangui nanti, sottoposti ad una sner vante autopsia morale, abi tuati a cibarsi di frutti secchi, nel desolante mestiere del let terato che osserva, occupati ad estrarre le immagini dai loro nervi per trasmetterle sul la carta, le cui giornate respi ravano l’insopportabilità del l’esistenza, irrimediabilmente segnate dal marchio antibor ghese: la noia. Chateaubriand era la forza, la fama, il suc cesso, la grande carriera: era la musica, il canto della gran de prosa. Per riconquistare nella sua fisicità la densità di quel cli ma, per restituirgli la forza sonora che la carta aveva as sorbito e sommerso nel suo silenzio, come un attore che propaghi in echi bronzei la sua idolatria del ritmo, Jules leg geva quelle pagine ad alta vo ce, come faceva Flaubert coi Martyrs. Nella grande somma ria distinzione tra scrittori da leggere con gli occhi o con la voce, Chateaubriand apparte neva alla seconda classe. E bisognerà interpretare come nate dalla coscienza di un divieto lo stato di disperazione in cui Jules veniva gettato dal l’improvvisa e forzata interru zione di quelle interminabili sedute, con cui perseguitava il fratello dalla mattina alla se ra. Per una parola mal pro nunciata, egli si fermava di colpo, diventava immobile co me fosse di pietra, con lo spa vento negli occhi, mentre le lagrime gli scendevano sulle gote. Una volta, seguendo l’arrivo del cardinale Pacca a Fontainebleau, mentre Cha teaubriand evoca stupendamente il silenzio, la solitudi ne, l’abbandono in cui era te nuto il Papa prigioniero, di colpo egli si fermò su quel nome: Pacca, non riuscì a pronunciarlo, ebbe una crisi dolorosa, e avvicinò il libro ai suoi occhi, racconta Edmond, con tanta intensità che si sarebbe detto avesse voluto entrare con la testa nella pagina stampata. * Questa declamazione durò, ad intervalli, più di due mesi. Dai primi d’aprile fino a po chi giorni avanti la morte, av venuta esattamente il venti giugno 1870. E si chiudeva così una scena che ebbe tre protagonisti: l’autore (cioè Chateaubriand, fuori del pal coscenico, ma evocato come personaggio centrale del dram ma), l’attore (Jules, nel suo vano sforzo d’immedesimazio ne col personaggio, sempre più distante, sempre più solo), lo spettatore, unico spettatore, che sta fermo, immobile ad un angolo della scena, insie me storico e coro, che si com muove, piange e prende ap punti (il fratello Edmond). Ma su quest’ultima silenziosa figura c’è qualcosa da dire. Proust, si racconta, alcuni giorni prima di morire, tra gli spasimi dell’asfissia, conti nuando a dettare, chiese di integrare con ciò che, moribon do, provava in quel momento, l’episodio della fine di Bergot te: quasi ch’egli intendesse scrivere, sopra dati d’esperien za, la storia della propria morte. Ad Auteuil questo per sonaggio eroico fu come diviso in due, e dette luogo alla sce na (ripugnante per uno spet tatore comune) di un fratello che si fa storico della morte dell’altro, mentre annota su di un foglio, pur con lo stra zio nel cuore, ciò che l’altro, in quegli stessi momenti, sof fre, patisce, fino all’ultimo grado della disperazione. Edmond qualche tempo do po difese accanitamente l’au tenticità di quel suo amore. Gli era parso utile, disse, per la storia della letteratura, non ignorando l’atrocità dell’inca rico, lo studio dell’agonia di uno scrittore morto per la let teratura e per l’ingiustizia del la critica. Allontanava così da sé la fredda infida figura del letterato, maniaco del docu mento. Ma avrebbe potuto ag giungere qualcosa di più. Fin allora essi erano stati come un’anima in due corpi; due volti chiusi nella luce di un unico specchio. Nell’ora su prema del distacco, già rotto l’incredibile sodalizio, mentre le due immagini s’allontana vano l’una dall’altra, egli, se gnando sulla carta i cupi ri flessi dell’immagine fraterna che svaniva, sceglieva l’unico mezzo per ritardarne la fine, per non distruggerla del tutto. Con quel suo atto sanzionava una poetica: l’écriture che do mina lo sconforto, il dolore, il tempo della strage. Nel 1893, pochi anni prima della morte, Edmond annotò nel suo Journal: « C’est vraiment curieux que le livre, les Mémoires d’outre-tombe, sur lequel mon frère est tombé mourant, ait recommencé à íªtre la lecture des jours où je n’étais pas bien certain de la continuation de ma vie ». Letto 1435 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||