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LETTERATURA: I MAESTRI: Enzo Bettizza: Il diario di Mosca

16 Dicembre 2017

di Eugenio Montale
[dal “Corriere della Sera”,   sabato 14 marzo 1970]

Ne! 1961 Enzo Bettiza, da quattro anni corrispondente da Vienna, fu trasferito a Mosca; e non senza disappunto ab ­bandonò il prezioso « fossile » che per cultura ed estrazione familiare gli era tanto caro.

Nato a Spalato jugoslava, studen ­te liceale nell’italianissima Zara, figlio di un irredentista dalmata cittadino italiano e una montenegrina, Bettiza si  è sempre considerato un mitteleuropeo e più precisa ­mente un Altösterreicher, sen ­timentalmente legato alla sua « defunta » capitale. Alla nuo ­va residenza egli non giunge tuttavia impreparato. Ha una moglie goriziana, parla perfet ­tamente la lingua slovena, co ­nosce il serbocroato e il tede ­sco, non gli è difficile impa ­dronirsi del russo. Gli sarà perciò meno dura quella crisi di rigetto ch’egli, confrontan ­dosi con altri suoi colleghi ita ­liani, ci descrive nel suo nuo ­vo libro Il diario di Mosca «ed. Longanesi, L. 1700), ren ­diconto dei quattro anni da lui trascorsi in quella città e prima parte di un’opera che avrà un seguito. Più che pre ­parato Bettiza era vaccinato. Ha assistito all’ingresso dei titoisti a Spalato, giovane co ­munista ha contemplato con un misto di desolazione e di esultanza l’impoverimento del ­la famiglia; in seguito ha lasciato il partito, definitivamen ­te immunizzato dal fideismo marxista. In che cosa poteva respingerlo la nuova sede?

L’altro pericolo, l’insabbia ­mento, a cui vanno soggetti gli stranieri che si stabiliscono in Russia fu da lui evitato studiando il fenomeno davvicino, nei giornalisti stranieri che vivono da molti anni in quella capitale. L’immensa Russia ha una dimensione tem ­porale diversa dalla nostra. La lentezza, la monotonia, l’inco ­lore opacità del mastodonte sovietico possono indurre chi vi soggiace ad una sorta di claustrofilia. Non vale la pena di uscirne, tutto il resto del mondo è un technicolor di cui si perde anche il desiderio.

Quando Bettiza giunge a Mosca la destalinizzazione ha già compiuto molti passi e forse sta facendone qualcuno indietro. Tukacevski e quasi tutti i generali che Stalin ha mandato a morte sono stati riabilitati ma in altri settori non si avvertono veri muta ­menti. Qualcuno trova che si esagera. Con Stalin, dichiara confidenzialmente un cremli ­nologo, si sapeva benissimo dove si andava a finire; ma con Kruscev nulla è prevedi ­bile. Dopo tutto Stalin non era per niente incolto, afferma un poeta che recita i suoi versi dinanzi a folle entusiaste. Narratori e teatranti godono di qualche maggiore libertà ma accettano i benevoli consigli della censura. La più nota gaz ­zetta letteraria è meno pru ­dente ma manca del tutto la stampa d’informazione. Le no ­tizie, se ci sono, si devono cercare tra le righe della Pravda. Quel che conta negli ar ­ticoli di quel giornale non è il generico ottimismo ma quell’eppure… quel tuttavia che sarà il campanello d’allarme di qualche alto funzionario periferico. Quel tuttavia per ­metterà ai cremlinologi (nuo ­vo ramo di una più vasta scienza, la sovietologia) di ti ­rare l’oroscopo. Il comune let ­tore sorvola sul tuttavia che di solito appare nelle ultime righe dell’articolo; ma le vere notizie deve cercarle in qual ­che giornale straniero (se lo trova o se riesce a leggerlo).

Non c’è stata vera riabilita ­zione neppure per Pasternak. Gli si riconoscono qualità di poeta ma si osserva che il ro ­manzo non era pane per i suoi denti. La sua dacia non di ­venterà un museo nazionale.

*

In un paese dove la mum ­mia di Lenin â— tolta dal mausoleo quella di Stalin â— è meta di un continuo e ado ­rante pellegrinaggio, un sen ­so d’incombente mummifica ­zione generale desta l’attenzio ­ne del giornalista che voglia sfuggire al mortale invito. Bi ­sogna sfuggire al primo click, dice Frane Barbieri, altro dal ­mata che è corrispondente di un giornale di Zagabria. Co ­me si difendono gli stranieri? I francesi vivono in un mondo a sé, distaccati. Gli inglesi so ­no più curiosi che interessati, non abbandonano mai il loro fondamentale empirismo, men ­tre i tedeschi sono irretiti, imprigionati da quel comples ­so di amore-odio per il mondo russo che non sarà una sor ­presa per chi abbia letto il grande romanzo di Gonciarov e qualche altro classico della letteratura russa. In Oblomov il personaggio di Stolz, tede ­sco, è l’eroe positivo, sebbene di una positività assai medio ­cre, e non mancano esempi in altri autori. Da Bielinski in poi, assai prima che il pensie ­ro di Marx giungesse in Rus ­sia, la filosofia di Hegel ha fatto strage nell’intelligenza slava (molto prima che in Italia, sia detto tra parentesi). Nessuna inimicizia è così gran ­de come quella che scoppia tra lontani parenti, tra affini. Ed è proprio su questo tema che Bettiza ci dà alcune delle sue pagine migliori, perché in lui l’amore per le idee è di gran lunga superiore all’amo ­re per gli uomini. E non è, intendiamoci, ch’egli non sia un attento osservatore degli uomini; ma il fatto è che il color locale, la barzelletta, l’a ­neddoto sono del tutto estra ­nei ad un temperamento come il suo. Uno scrittore impres ­sionistico avrebbe speso mol ­te pagine per descriverci gli orrori di quell’hí´tel Lux dove a migliaia di uomini furono inflitte mostruose torture per ottenere confessioni di inesi ­stenti congiure, autoaccuse, de ­lazioni; dove quella historia general de la infamia proget ­tata dal Borges ha scritto una delle sue vette più ingloriose.

Tre o quattro pagine sole, plumbee, dure, senza un filo di commozione, ma proprio per questo tanto più dure nel giudizio. Ne sanno qualcosa i giovanissimi russi di oggi? Bet ­tiza è incline a credere che non ne sappiano nulla, o me ­glio che non vogliano saperne nulla. D’altronde, chi è me ­glio qualificato a descrivere i grandi eventi della storia? Chi li ha vissuti o colui che li osserva da lontano, col can ­nocchiale, esperto del prima e del poi, delle cause e delle conseguenze? Il non compren ­dere, il non voler comprende ­re ciò che ci sta davanti agli occhi non è specifico della mentalità slava, sebbene l’im ­mensa costellazione sovietica, tanto diversa nelle sue componenti, abbia avuto un comune destino: quello di sal ­tare a piè pari almeno un secolo passando da un’auto ­crazia feudale a un tipo di col ­lettivismo anche più accen-tratore non certo previsto da Marx che mai nascose la sua antipatia per il mondo russo.

Né credo che in Marx agisse quell’ambivalenza che Bet ­tiza ha posto in luce con tan ­ta precisione. Fabrizio del Dongo non si rese conto di essere coinvolto nella battaglia di Waterloo così come molti tedeschi e molti italiani non videro ciò che stava accaden ­do sotto i loro occhi. La sto ­ria che non si ripete mai, in questo si ripete sempre. Vede chi vuole e pochi sono nella condizione di volere. E sono certo che anche in Russia la pietà è di gran lunga più forte della ferocia.

*

Un luogo comune, accettato da tutti coloro che conoscono la grande letteratura russa, è che in quei paesi sia vivo e ineliminabile il sentimento re ­ligioso. Su questo punto la testimonianza di Bettiza non suona discorde. Nella Russia d’oggi la religiosità non è solo fuoco sotto la cenere ma as ­sume anche forme spettacola ­ri: non tali però da mettere in causa la solidità del regi ­me. Non c’è grande differenza tra quelli che ascoltano in massa le poesie di chitarristi stipendiati dallo Stato e coloro che affollano le cerimonie della chiesa ordotossa e i culti non certo clandestini della seconda chiesa russa, riconosciuta dallo Stato, quella dei Vecchi Credenti, non riconosciuta dall’Ortodossia. Pare che al ­l’origine di questo scisma tar ­do seicentesco sia un diverso modo di farsi il segno della croce. Con tre dita o con due (a pizzico)? Poi sorsero altre divergenze dottrinali che igno ­ro. I vecchi credenti sono milioni, hanno le loro chiese, i loro preti, una loro orga ­nizzazione. E come ho già detto anche l’orrendo teschio di Lenin esercita una morbo ­sa attrazione mistica sui visi ­tatori che sostano in fila per essere ammessi alla beatitu ­dine. Lo spettacolo dev’esse ­re allucinante. Non è affatto prevedibile una futura mum ­mificazione di Kruscev. Non lo era neppure nel ’61-’62, quando Bettiza scriveva que ­sto suo diario.

La prova secca, precisa, li ­neare di Bettiza non è quella del journal, non consente ci ­tazioni, estrapolazioni. Non vuol essere « prosa d’arte » nel significato più dubbio della parola. D’altronde Bettiza con ­sidera questo libro e i suoi precedenti (tra gli altri quel Fantasma di Trieste che fu tradotto in molte lingue) co ­me il materiale che dovrebbe confluire in un futuro roman ­zo mitteleuropeo, globale, sin ­fonico, « completamente di ­staccato dagli umori passeg ­geri dello scrittore ».

Ardua impresa in un tem ­po nel quale arte e scienza tendono piuttosto al micro che al macroscopico. Ma non è le ­cito porre limiti alle giuste ambizioni di uno scrittore tanto dotato. Può darsi che un giorno egli si avveda che il Diario di Mosca e quelli che eventualmente seguiranno so ­no già il romanzo ch’egli, in astratto, vagheggiava. Un ro ­manzo che ha un solo perso ­naggio: l’uomo, il Singolo di fronte alla Moltitudine. La scomparsa del singolo sareb ­be la fine dell’avventura uma ­na; e di questo la provviden ­za ci ha dato già qualche an ­nuncio ma non la sentenza de ­finitiva. Può darsi che ce la risparmi, anche se non l’ab ­biamo meritato.


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