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LETTERATURA: I MAESTRI: Variazioni #1/10

19 Dicembre 2017

di Eugenio Montale
[dal “Corriere della Sera”, domenica 12 gennaio 1969]

Quando andai a vivere a Firenze, nei primi mesi del ’27, divenni assiduo frequentatore della casa allora meno raccomandabile: quella di Guglielmo Ferrero. Il famoso storico abitava in un villino all’inizio di viale Machiavelli; poi la famiglia si trasferì all’Ulivello, presso Strada in Chianti. Per andarci la domenica, si doveva prendere un tranvai fino a Grassina; e attendere là una mac ­china sconquassata che ci por ­tava a destinazione. Eravamo in pochi, sempre gli stessi. Ferrero era sorvegliato da poliziotti che gli dimostravano grande ammirazione. Si rivol ­gevano a lui per ottenere tra ­sferimenti e promozioni. Ferrero appagava sempre i loro desideri con risultati decisivi. La villetta, piena zeppa di li ­bri, rispondeva davvero al suo nome; era tutta circon ­data da oliveti. Ricordo an ­cora che Leo Ferrero passeg ­giava tra quegli alberi tradu ­cendo le Georgiche. Era un ragazzo eccezionalmente pre ­coce, oppresso solo dalle sue ascendenze. Figlio di Gugliel ­mo e di Gina Lombroso, ni ­pote di Cesare Lombroso, co ­me avrebbe potuto reggere a simili confronti? Il fatto stra ­no è che poteva reggere a ben altro. Non era solo intel ­ligente ma anche pieno di fa ­scino: alto, slanciato, gli oc ­chi azzurri, il volto appena cosparso da una lieve saggi ­na, parlatore pieno di estro e di vivacità. Morì giovane, in America. Nessuna antolo ­gia, ch’io sappia, riporta una sua poesia, All’Autunno, che resta tra le migliori di quel tempo. Il suo handicap era che tutti lo consideravano il figlio di suo padre e non si può essere impunemente fi ­glio di un genio. Così pensa ­va lui: toujours perdrix nel ­la sua famiglia. Naturalmen ­te, pernici intellettuali. A ta ­vola era un altro discorso. Ri ­cordo che l’avvento di una galantina di coniglio destò ammirazione ed entusiasmo. Ma era poi un genio il padre?

Non ho titoli per affermar ­lo, ma ricordo con viva sim ­patia la sua figura di auten ­tico e onnivoro studioso. Può darsi che la sua storia di Roma mostri le rughe, ma è cer ­to che pochi avevano come lui l’arte di farsi leggere. Co ­me giornalista non ebbe egua ­li. Gli articoli ch’egli dava settimanalmente all’Illustration Franí§aise erano letti da milioni di persone, tradotti in molte lingue. Antibonaparti ­sta e antifilosofo per natura si era attirato l’antipatia di Benedetto Croce. Forse per questo (a quanto si diceva) nessuna università italiana gli offerse mai una cattedra. In tarda età ne ebbe una a Gi ­nevra, ch’egli tenne con gran ­de prestigio. Scriveva il fran ­cese come l’italiano e forse meglio. Negli ultimi anni si era accinto alla composizio ­ne di un grande romanzo sto ­rico, una trilogia. Il secondo volume era interamente dedi ­cato alla battaglia di Adua. Ferrero non era uomo capa ­ce di scrivere senza documen ­tarsi. Scoperse che il vecchio generale Albertone viveva an ­cora in un villaggio del Pie ­monte. Partì, interrogò per qualche mese il venerando su ­perstite,   riempì   alcuni qua ­derni di appunti e   dette di quella funesta battaglia (e poi di tutto il periodo crispino) la più efficace descrizione che si sia avuta. Il libro ebbe un notevole insuccesso. Io, in parte convinto, in par ­te no, scrissi un articolo mol ­to favorevole e lo inviai all’Ambrosiano, allora diretto da Enrico Cajumi, lontano mio amico d’infanzia. Non era la prima volta che collaboravo a quel giornale. Ricevetti una lettera agrodolce nella quale mi si raccomandava « di occuparmi d’altro » Ferrero non ne seppe nulla. Continuò il suo sterminato romanzo, indifferente all’esi ­to del suo lavoro. Fu quello il primo e il penultimo mio fallimento di articolista. L’ul ­timo avvenne parecchi anni dopo. Portai a Guglielmo Emanuel, qui al Corriere, un articolo su Georges Poulet, notevolmente astruso. Ema ­nuel lo lesse in mia presen ­za, mi guardò negli occhi, prese il dattiloscritto e lo in ­filò nel cestino. Poi mi porse la mano, che io strinsi affet ­tuosamente. Diventammo su ­bito molto amici.

*

Un giornale sovietico affer ­ma (ed io debbo fidarmi del ­la traduzione) che in Italia sullo schermo della televisio ­ne appaiono giovani donne in mutande, le quali passeg ­giano ancheggiando ed emet ­tendo striduli ululati. Secon ­do il giornale tutto ciò viene definito come musica leggera. Quel che il giornale non di ­ce, e che per me è anche più strano, è che simili urlatrici sono circondate da un falso pubblico che a un segnale ot ­tico invisibile dai veri spet ­tatori si abbandona a frene ­tici applausi. Ma come sa ­ranno reclutati quei falsi spettatori? E’ possibile ch’es ­si non sentano il ridicolo del ­la loro situazione? Non cre ­do che siano pagati. Proba ­bilmente credono di apparte ­nere a un’elite di privilegiati, ammessi a veder da vicino le persone a loro più care; gli urlatori, le urlatrici, il loro, il nostro, il mio, il vostro Pippo Baudo, gli strabuzzamenti d’occhi del caro Ciccio e le infinite pappagonate delle quali io sono il primo a riconoscere l’utilità.   Ma quale utilità? Non solo quella di accrescere il plafond degli abbonati, ma altresì quella di convincere i lippi e i tonsori che nessuna rivoluzione può accadere nel nostro paese. Una sola obiezione potrei fare, ed è di tipo sindacale. Con tali spettacoli si fa una gratuita réclame a una sola categoria di produttori: quella degli artisti di varietà e dei discografi. Ora che cosa si potrebbe obiettare ad ar ­tisti o pseudoartisti d’ogni ge ­nere (pittori, scrittori, musi ­cisti non leggeri, praticanti d’ogni arte o mestiere) se es ­si chiedessero di apparire sul video (eventualmente non in mutande) tutto il tempo che viene concesso ai professio ­nisti dell’urlo e ai loro fana ­tici? Certo sarebbe uno spet ­tacolo che ridurrebbe di mol ­to il plafond degli abbona ­menti. Ma un argomento si ­mile sarebbe fondato solo se la televisione fosse una so ­cietà privata.

*

In virtù delle canzoni di oggi la nostra lingua sta di ­ventando monosillabica. Una volta chi traduceva libretti d’opera doveva sudare sette camicie per far corrisponde ­re l’accento tonico delle pa ­role all’accento forte della musica. Oggi, opportunamen ­te spezzate per riprender fiato, tutte le parole possono es ­sere tronche. I futuri melo ­drammi italiani (se ne esiste ­ranno ancora) adotteranno certo questo comodo sistema. E’ strano che un fatto simile gravido di avvenire, sia sfuggito all’attenzione. C’è poi da segnalare una scalata che è quasi più importante, agli ef ­fetti pratici, della scalata alla Luna. E’ l’allunaggio alla « seconda ottava ». Era già noto che un bambino inse ­guito da un cane idrofobo può emettere autentici do e re bemolle sopra le righe. Og ­gi si è compreso che tali al ­tezze sono accessibili a tutti. Non sarà una nota, sarà uno strillo, ma tutti con breve al ­lenamento possono toccare le più impervie vette. Si noti che momenti simili sono quel ­li che più scatenano gli ap ­plausi interni. Dopo tutto quale ragione c’era per man ­tenere la voce umana entro limiti umani? L’uomo non ha più molto interesse per l’uma ­nità. L’uomo si annoia spa ­ventosamente. I giornali so ­no poverini di notizie e del re ­sto solo un italiano su dieci legge un giornale. Le guerre per il momento sono poche e lontane. Hanno il solo van ­taggio di render meno certa la vera grande guerra, quel ­la per cui si spendono mi ­liardi. Per evitarla, è vero. Ma una volta che siano creati gli strumenti perché non usarli?

Non so se questa univer ­sale noia sia un fatto nuovo nella storia dell’umanità. Non chiedetelo ai sociologi, culto ­ri di una scienza inventata per creare nuove cattedre uni ­versitarie. Non chiedetelo ai filosofi, convinti come sono che la filosofia è morta; ma allora che stanno a fare? Non chiedetelo agli ecclesiastici, decisi a rendere meno noiosa e più spiccia ogni forma del rito. Non chiedetelo a medici, psicologi, psicanalisti. Nessu ­no di questi potrà spiegarvi perché quando due o tre per ­sone si trovano insieme per qualche mezz’ora, esse si guardano allibite e si pongo ­no l’angosciosa domanda: che cosa facciamo? quasicché ogni genere di scemenza sia pre ­feribile al non far nulla, men ­tre è certo che questo nulla può essere un tutto.

FINE DEL ’68

Ho contemplato dalla Luna, o quasi,

il modesto pianeta che contiene

filosofia, teologia, politica,

pornografia, letteratura, scienze

palesi o arcane. Dentro c’è anche l’uomo

ed io tra questi. E tutto è molto strano.

Tra poche ore sarà notte e l’anno

finirà tra esplosioni di spumanti

e di petardi. Forse di bombe o peggio,

ma non qui dove sto. Se uno muore

non importa a nessuno purché sia

sconosciuto e lontano.

 


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart