LETTERATURA: I MAESTRI: Eri un capitano18 Aprile 2013 di Mario Tobino Si navigava verso Barcello na. Il mare era un manto celeste. Un incanto la notte monta re sul castelletto e lasciarsi lu singare dai raggi della luna, dalle spume ridenti intorno al la prua, dalle stelle dissemi nate nel cielo. Di solito il nostromo mi rag giungeva, saliva le scalette quatto-quatto; gli era rima sto un vivo amore per il mon do anche se la lunga naviga zione gli aveva solcato il viso; e aveva una gran voglia di raccontare a qualcuno la sua vita solitaria, trascorsa sopra le tolde. Era a bordo da diversi gior ni, ospite del capitano, ed era nata una confidenza, un’armo nia di abitudini tra me e l’e quipaggio. Il nostromo aveva una lun ga esperienza, conoscitore di uomini e di fatti. Di solito ero io â— per superare pudore e modestia â— a stimolare, riprendevo il discorso su episo di già narrati. Quella volta fu lui a comin ciare: – Lei conosce Santafiora? – Il capitano? Sì. Mi ha visto ieri a Genova, a bordo della Cristina? – Passavo di lì mentre lei attraversava la passerella. Santafiora le faceva festa. – Veramente con lui ho poca intimità, ci dividono mol ti anni. E’ mio padre che lo conosce bene. Perché questa domanda? – Ho navigato con Santa fiora quando ero giovane, di versi anni fa, da marinaio semplice. Dal tono della voce, dal l’espressione, capii che al no stromo bolliva qualcosa circa quel capitano. Insistetti: – La mia conoscenza è tut ta esterna, abita davanti a ca sa mia. A periodi l’ho visto andare su e giù per delle ore, con un altro capitano più al to di lui, lungo il marciapiede dirimpetto. Tutti e due com pletamente indaffarati nei lo ro discorsi. – Naturalmente! Santafiora ignora chi gli passa accan to, non si cura. Ha notato i tacchi alti? Già! Era vero. Il capitano Santafiora portava i tacchi più alti dell’usuale, e aveva un modo di fare risoluto, sfidante, gli occhi di un celeste in tenso. – Era bravo? â— continuai, desideroso di altre notizie. – Altro che bravo. Ormai mi fa piacere esserci stato, ma in quei momenti… – Perché? – Con le tempeste se la spassava, ci andava a nozze. – Come possibile?
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– Le potrei dire quella vol ta di Civitavecchia. Eravamo nel porto, il carico pronto. Nella notte si era alzato il ma re; nessuno pensava a partire, le onde si frantumavano sulla diga. Vicino a noi c’era uno schooner inglese, della nostra stessa stazza, anche loro il ca rico pronto. Eravamo nel 1925; molte barche erano an cora a vela, come le nostre. Santafiora era sceso sulla banchina, seduto in un caffeuccio. Quando si accorse che sul bastimento inglese sta vano manovrando. Perbacco! si preparavano a partire. Stette più attento: proprio così, e tranquillamente, incu ranti del mare grosso. Con pochi passi fu a bordo, sulla sua, sulla nostra barca. – Si parte! â— gridò. Lo guardammo sbalorditi. Con un mare così c’era da perdere il carico, la barca, la vita. – Se loro non hanno pau ra â— e indicò il bastimento inglese â— noi ne abbiamo di meno. Salì sul cassero. Col mega fono cominciò a dare ordini per le vele. Impossibile pensare a contraddirlo; in quei momenti sarebbe stato capace di tutto. Molti di noi rivolsero il pensiero alla famiglia. Eseguimmo in silenzio. Gli inglesi erano già alle bocche del porto. Santafiora infuriava, un ordine dopo l’altro. Bruciava di essere a fianco degli inglesi, tra le onde. Noi avremmo dovuto inve ce mettere la prua nell’oppo sta direzione, verso sud. Era Tunisi la nostra meta. Ma il capitano, che aveva in mano il timone, andò dietro gli in glesi. Non gli importava più nulla se non di navigare a petto a loro. Il bello che an che noi presto fummo presi dalla gara, capitasse quel che capitasse. Fece aprire altre vele per aumentare la velocità. La bar ca si piegava, gemendo sul fianco. Ogni tanto sprofonda vamo; le onde ci toglievano la vista. Fummo a fianco dello schooner. Lo superammo di qual che diecina di metri. Dall’al tra parte gli inglesi risposero; anche loro aprirono altre ve le, aumentando il rischio. Vo levano vincere. La gara durò tutto il dopo-pranzo. Per fortuna il mare si stava abbonacciando. Alle prime avvisaglie della sera il capitano dette ordine di salutare gli inglesi con il semaforo, con bandiere issate sul trinchetto, secondo il co dice. Quelli dello schooner di là subito risposero. I marinai lun go la murata festosamente agi tavano le braccia verso di noi, e noi verso di loro. Tutti e due ci eravamo battuti con gusto. Allegro il Santafiora. Pren demmo la nostra via, la dire zione opposta, verso sud, ver so Tunisi.
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– Arrivaste bene? – Sì. – Incidenti mai? – No. Conosceva la vela. I pericoli gli piaceva no, le sfide, ma anche le fron teggiava. Si accendeva, ma re stava chiaro. – Con i marinai com’era? – Spiccio. Quel che vole va voleva; nessuna discus sione. E poi c’è dell’altro. – Che cosa? – La notte nei porti, non eravamo abituati. – Che succedeva? – Arrivava con donne belle, tinte, eleganti. Noi erava mo già in cuccetta. Tirava giù dal letto il cuoco; tutte le lu ci accese. Gli piaceva la bal doria. Lui a capotavola, una a destra, l’altra a sinistra. Spe cie nei porti spagnoli. Spesso obbligava qualcuno di noi a banchettare insieme. Si arriva va all’alba. Trionfava per tut ta la notte. Intanto che ascoltavo il no stromo, ecco che rivedevo la scena che mi era capitata il giorno prima a Genova, a bor do del bastimento di Santa fiora. Mi aggiravo per il porto con la dolce illusione di essere anch’io in qualche modo un ma rinaio, quando al di là di una murata scorsi il capitano San tafiora; continuava ad avere addosso una luce di gioventù. Avvertì che qualcuno lo os servava. Si voltò, mi riconob be e, mentre io con rispetto salutavo, egli cordialmente: -Salga, monti a bordo. Ven ga. Era quasi un ordine. Attra versai la passerella. Ci furo no i saluti, con chi navigavo, di dove venivamo, dove si era diretti. – Via, bisogna festeggiare! Andiamo da basso â— e mi in vitò a scendere le scalette di poppa. Mi affacciai nel quadrato, in quel piccolo salottino. Due donne vi erano sedute, gli occhi tinti, le labbra di co rallo, ampiamente scollate, le braccia nude. Ridevano come per una gran gioia di essere lì. A seconda dei movimenti del viso rilucevano i denti di perla. Tutte e due avevano il ventaglio che a periodi sven tolavano, e poi con un colpo secco chiudevano. Quello che però di loro ab bagliava era la pelle di una bianchezza di latte, di giglio, di camelia. In tutte le parti nude splendeva quel bianco, che le labbra di corallo, gli occhi bistrati, facevano più conturbante. Il capitano mi presentò; pronunciai poche parole. Esse risero gioiose, avvicinandomi il viso; sembravano due so relle.
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Corrono gli anni, gremiti di fuggitive azioni. Durante la seconda guerra mondiale incontrai Santafiora a Tripoli: sul suo petto di uf ficiale di marina i nastrini ce lesti, segno del valore. E siamo già nel confuso do poguerra. Mi ero messo a fa re il medico, avevo l’ambulatorio in casa mia; e un dopo-pranzo, con una certa prepo tenza superando chi era in attesa, Santafiora aprì la porta dello studio: – Voglio tu mi visiti. Ho un cancro. Lo so. I medici mi fanno i falsi. Tu me lo dirai chiaramente. Lo visitai. Non c’erano dubbi. Vistose le metastasi. – Capitano… Non mi lasciò continuare. Il volto franco, con quella bel lissima luce di sfida. Mi salu tò come un vecchio amico. Al cuni mesi dopo seppi che San tafiora se n’era andato. Fuggono gli anni, ladri inseguiti. E l’altra notte, inaspet tato, mi torna davanti, come vivo, gli occhi intensi di celeste. Allora apro la luce; prendo un pezzo di carta. Con calma scrivo: Eri un capitano, le onde sapevano il tuo coraggio, Letto 1787 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||