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LETTERATURA: I MAESTRI: Eri un capitano

18 Aprile 2013

di Mario Tobino
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 19 giugno 1969]

Si navigava verso Barcello ­na. Il mare era un manto celeste.

Un incanto la notte monta ­re sul castelletto e lasciarsi lu ­singare dai raggi della luna, dalle spume ridenti intorno al ­la prua, dalle stelle dissemi ­nate nel cielo.

Di solito il nostromo mi rag ­giungeva, saliva le scalette quatto-quatto; gli era rima ­sto un vivo amore per il mon ­do anche se la lunga naviga ­zione gli aveva solcato il viso; e aveva una gran voglia di raccontare a qualcuno la sua vita solitaria, trascorsa sopra le tolde.

Era a bordo da diversi gior ­ni, ospite del capitano, ed era nata una confidenza, un’armo ­nia di abitudini tra me e l’e ­quipaggio.

Il nostromo aveva una lun ­ga esperienza, conoscitore di uomini e di fatti. Di solito ero io â— per superare pudore e modestia â— a stimolare, riprendevo il discorso su episo ­di già narrati.

Quella volta fu lui a comin ­ciare:

– Lei conosce Santafiora?

– Il capitano? Sì. Mi ha visto ieri a Genova, a bordo della Cristina?

– Passavo di lì mentre lei attraversava la passerella. Santafiora le faceva festa.

– Veramente con lui ho poca intimità, ci dividono mol ­ti anni. E’ mio padre che lo conosce bene. Perché questa domanda?

– Ho navigato con Santa ­fiora quando ero giovane, di ­versi anni fa, da marinaio semplice.

Dal tono della voce, dal ­l’espressione, capii che al no ­stromo bolliva qualcosa circa quel capitano. Insistetti:

– La mia conoscenza è tut ­ta esterna, abita davanti a ca ­sa mia. A periodi l’ho visto andare su e giù per delle ore, con un altro capitano più al ­to di lui, lungo il marciapiede dirimpetto. Tutti e due com ­pletamente indaffarati nei lo ­ro discorsi.

– Naturalmente! Santafiora ignora chi gli passa accan ­to, non si cura. Ha notato i tacchi alti?

Già! Era vero. Il capitano Santafiora portava i tacchi più alti dell’usuale, e aveva un modo di fare risoluto, sfidante, gli occhi di un celeste in ­tenso.

– Era bravo? â— continuai, desideroso di altre notizie.

– Altro che bravo. Ormai mi fa piacere esserci stato, ma in quei momenti…

– Perché?

– Con le tempeste se la spassava, ci andava a nozze.

– Come possibile?

 

*

 

– Le potrei dire quella vol ­ta di Civitavecchia. Eravamo nel porto, il carico pronto. Nella notte si era alzato il ma ­re; nessuno pensava a partire, le onde si frantumavano sulla diga. Vicino a noi c’era uno schooner inglese, della nostra stessa stazza, anche loro il ca ­rico pronto. Eravamo nel 1925; molte barche erano an ­cora a vela, come le nostre.

Santafiora era sceso sulla banchina, seduto in un caffeuccio. Quando si accorse che sul bastimento inglese sta ­vano manovrando. Perbacco! si preparavano a partire.

Stette più attento: proprio così, e tranquillamente, incu ­ranti del mare grosso.

Con pochi passi fu a bordo, sulla sua, sulla nostra barca.

– Si parte! â— gridò.

Lo guardammo sbalorditi. Con un mare così c’era da perdere il carico, la barca, la vita.

– Se loro non hanno pau ­ra â— e indicò il bastimento inglese â— noi ne abbiamo di meno.

Salì sul cassero. Col mega ­fono cominciò a dare ordini per le vele.

Impossibile pensare a contraddirlo; in quei momenti sarebbe stato capace di tutto. Molti di noi rivolsero il pensiero alla famiglia. Eseguimmo in silenzio. Gli inglesi erano già alle bocche del porto.

Santafiora infuriava, un ordine dopo l’altro. Bruciava di essere a fianco degli inglesi, tra le onde.

Noi avremmo dovuto inve ­ce mettere la prua nell’oppo ­sta direzione, verso sud. Era Tunisi la nostra meta. Ma il capitano, che aveva in mano il timone, andò dietro gli in ­glesi. Non gli importava più nulla se non di navigare a petto a loro. Il bello che an ­che noi presto fummo presi dalla gara, capitasse quel che capitasse.

Fece aprire altre vele per aumentare la velocità. La bar ­ca si piegava, gemendo sul fianco. Ogni tanto sprofonda ­vamo; le onde ci toglievano la vista.

Fummo a fianco dello schooner. Lo superammo di qual ­che diecina di metri. Dall’al ­tra parte gli inglesi risposero; anche loro aprirono altre ve ­le, aumentando il rischio. Vo ­levano vincere.

La gara durò tutto il dopo-pranzo. Per fortuna il mare si stava abbonacciando.

Alle prime avvisaglie della sera il capitano dette ordine di salutare gli inglesi con il semaforo, con bandiere issate sul trinchetto, secondo il co ­dice.

Quelli dello schooner di là subito risposero. I marinai lun ­go la murata festosamente agi ­tavano le braccia verso di noi, e noi verso di loro. Tutti e due ci eravamo battuti con gusto.

Allegro il Santafiora. Pren ­demmo la nostra via, la dire ­zione opposta, verso sud, ver ­so Tunisi.

 

*

 

– Arrivaste bene?

– Sì.

– Incidenti mai?

– No. Conosceva la vela. I pericoli gli piaceva ­no, le sfide, ma anche le fron ­teggiava. Si accendeva, ma re ­stava chiaro.

– Con i marinai com’era?

– Spiccio. Quel che vole ­va voleva; nessuna discus ­sione. E poi c’è dell’altro.

– Che cosa?

– La notte nei porti, non eravamo abituati.

– Che succedeva?

– Arrivava con donne belle, tinte, eleganti. Noi erava ­mo già in cuccetta. Tirava giù dal letto il cuoco; tutte le lu ­ci accese. Gli piaceva la bal ­doria. Lui a capotavola, una a destra, l’altra a sinistra. Spe ­cie nei porti spagnoli. Spesso obbligava qualcuno di noi a banchettare insieme. Si arriva ­va all’alba. Trionfava per tut ­ta la notte.

Intanto che ascoltavo il no ­stromo, ecco che rivedevo la scena che mi era capitata il giorno prima a Genova, a bor ­do del bastimento di Santa ­fiora.

Mi aggiravo per il porto con la dolce illusione di essere anch’io in qualche modo un ma ­rinaio, quando al di là di una murata scorsi il capitano San ­tafiora; continuava ad avere addosso una luce di gioventù.

Avvertì che qualcuno lo os ­servava. Si voltò, mi riconob ­be e, mentre io con rispetto salutavo, egli cordialmente:

-Salga, monti a bordo. Ven ­ga.

Era quasi un ordine. Attra ­versai la passerella. Ci furo ­no i saluti, con chi navigavo, di dove venivamo, dove si era diretti.

– Via, bisogna festeggiare! Andiamo da basso â— e mi in ­vitò a scendere le scalette di poppa.

Mi affacciai nel quadrato, in quel piccolo salottino.

Due donne vi erano sedute, gli occhi tinti, le labbra di co ­rallo, ampiamente scollate, le braccia nude. Ridevano come per una gran gioia di essere lì. A seconda dei movimenti del viso rilucevano i denti di perla. Tutte e due avevano il ventaglio che a periodi sven ­tolavano, e poi con un colpo secco chiudevano.

Quello che però di loro ab ­bagliava era la pelle di una bianchezza di latte, di giglio, di camelia. In tutte le parti nude splendeva quel bianco, che le labbra di corallo, gli occhi bistrati, facevano più conturbante.

Il capitano mi presentò; pronunciai poche parole. Esse risero gioiose, avvicinandomi il viso; sembravano due so ­relle.

 

*

 

Corrono gli anni, gremiti di fuggitive azioni.

Durante la seconda guerra mondiale incontrai Santafiora a Tripoli: sul suo petto di uf ­ficiale di marina i nastrini ce ­lesti, segno del valore.

E siamo già nel confuso do ­poguerra. Mi ero messo a fa ­re il medico, avevo l’ambulatorio in casa mia; e un dopo-pranzo, con una certa prepo ­tenza superando chi era in attesa, Santafiora aprì la porta dello studio:

– Voglio tu mi visiti. Ho un cancro. Lo so. I medici mi fanno i falsi. Tu me lo dirai chiaramente.

Lo visitai. Non c’erano dubbi. Vistose le metastasi.

– Capitano…

Non mi lasciò continuare. Il volto franco, con quella bel ­lissima luce di sfida. Mi salu ­tò come un vecchio amico. Al ­cuni mesi dopo seppi che San ­tafiora se n’era andato.

Fuggono gli anni, ladri inseguiti. E l’altra notte, inaspet ­tato, mi torna davanti, come vivo, gli occhi intensi di celeste.

Allora apro la luce; prendo un pezzo di carta. Con calma scrivo:

Eri un capitano, le onde sapevano il tuo coraggio,
i bastimenti il tocco delle tue manovre.
I marinai del tuo paese solo da lontano
osavano alzare lo sguardo sopra di te.
Nei porti erano celebri
il fasto dei tuoi banchetti,
la bianchezza delle tue puttane.
Quando venne la guerra
manovravi sardonico verso il nemico.
Eri un espada,
stranamente ti piacevano i tacchi alti
che suonavano provocanti
sul Corso delle città di mare.
E per una malattia che può venire a tutti
l’onda nera cancella ora il tuo ricordo.


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Bart