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LETTERATURA: I MAESTRI: filo diretto Betocchi – Pomilio

27 Ottobre 2016

[da “Corriere della Sera”, 21 marzo 1968]

Caro Betocchi,

che oggi, più oche fare della letteratura, si stia come decidendo qualcosa in ­torno alla letteratura e, al limite, discutendo di nuovo che cosa farcene della letteratura â—, in fon ­do non mi stupisce: a ogni svolta la letteratura s’è po ­sta come primordiale la verifica del suo ruolo, ha rimesso in questione la sua stessa sopravvivenza. E neppure mi meraviglia che le odierne programmazio ­ni letterarie stiano dando luogo a una letteratura tutta programmata – uno sta ­gno d’uniformità, dove nemmeno c’è più la sorpresa della sorpresa. I volontari del conformismo, si sa, fan ­no sempre coro, e alla fine quella che si salva è sem ­pre la voce autonoma, lo scrittore che s’è sforzato di riuscire solo se stesso.

Ma appunto, non ti pare che la posta in giuoco sia proprio questa? Che è proprio, dico, la nozione dello scrittore come voce ugua ­le solo a se stessa che più viene intaccata o che più si va smarrendo? E che, nella koinè letteraria che si va formando, dilaghino i prodotti impersonali, in ­tercambiabili, pretensiosamente anonimi, fatti – e fa ­cilmente fattibili â— in base al partito preso di formule preventivate e spesso apprese, e si facciano via via più rare le opere nate da quella dura attitudine a ri ­flettere e riflettersi, per riconoscersi, o almeno cer ­carsi, che ha a contropartita la pagina autentica, tutta propria, non confondibile, la pagina, intendo, che si convoglia dentro lo spessore e l’intensità d’un’esistenza? e la scrittura nei cui stessi errori è dato riconoscere il cammino geloso e faticoso d’una personalità â— e d’una coscienza?

Il mio, bada, non è affatto un richiamo all’arte-con ­fessione o un qualsiasi equivocabile appello all’inte ­riorità. Penso piuttosto che, in risposta a quanto non ci fa, oggi, essere tranquilli non bastino le rapide tra ­smigrazioni culturali, se poi ne scapita ciò che solo ci autentica in quanto scrittori, la fedeltà alla nostra pro ­pria struttura coscienziale, quella che con termine vecchiotto si chiamava sincerità. A quale prezzo la si guadagni, e per quali prove e confronti sia con noi che col fuori di noi, non starò a ricordarlo a te. Ma non credi che l’alternativa, a conti fatti, sia sempre quella: l’alternativa, dico usando le parole d’un amico, tra lo scrittore che lavora a offrire un’immagine di sé, e quello che semplicemente procura di fornire di sé un’immagine?

Il tuo

Mario Pomilio

Caro Pomilio,

son d’accordo con la tua diagnosi, col tuo ri ­proporre allo scrittore la necessità d’una « dura at ­titudine a riflettere e a riflettersi, per riconoscer ­si, o almeno cercarsi », col tuo esaltare la pagina « nei cui stessi errori è dato riconoscere il cammi ­no geloso e faticoso d’una personalità e d’una coscienza ». Tutto benissimo: ma l’alternativa che alla fine mi proponi mi lascia insoddisfatto. Non ne ac ­cetto i termini, che mi sembrano concludere poco più che a un gioco di parole, tarato d’intellettualismo, e dove la preoccupazione del sé ha il maggior peso.

Io  penso che prima  ancora che  verso la  « propria struttura coscienziale », come tu dici, uno   scrittore è responsabile verso lo spirito di libertà ch’ebbe in dono come l’anima stessa della sua vocazione. Penso che i guasti che oggi lamentiamo dipendano da un’intellettualistica superstizione della cultura, supinamente accettata. E che il vero scrittore non soffre di scrupoli, né verso la cul ­tura né verso se stesso: e se ne soffrisse non sa ­rebbero che scrupoli d’un altro ordine, della fantasia. Poiché nell’opera d’un vero scrittore non c’è nulla di tanto evidente quanto il fatto che nel vento che ne gonfia le vele, e che ne sospinge l’abbrivo, la compo ­nente culturale ha tutta l’aria di un liberante saluto, di un allegro dirle addio (andrà a ritrovarla quando non lavora), nel momento stesso che passa a servir ­sene senza soggezione alcuna e in combinazione, che può ben dirsi naturale, con la sua propria e libera per ­sonalità.

La cultura, per lo scrittore che si mette al lavoro, non è nulla di più dei sentimenti, dei casi o d’ogni al ­tra offerta della vita; né la tratterà diversamente. Vo ­glio dire che la tratterà o da affascinato idealista, o con venerazione, o col più crudo realismo: da Beatri ­ce, o da madre, o da meretrice: ma non ne sarà mai il souteneur, non le farà far mai da mezzana. Tant’è vero che non c’è nulla di così strettamente personale e di così personalmente acquistato e interpretato come la cultura di uno scrittore autentico.

Ora tutto questo mi pare abbia poco a che fare con l’alternativa che finalmente mi proponi. Ma è dalla li ­bertà posseduta davvero che si ricompone ogni ordine morale; e il continuo riproporre la necessità di que ­st’ultimo, può anch’essere utile alla necessità di contri ­zione, ma non basta all’atto creativo di un vero scrit ­tore.

Il tuo

Carlo Betocchi


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