LETTERATURA: I MAESTRI: Giacomo Leopardi. Quel lume di gioventù9 Gennaio 2016 di Cesare Garboli GIACOMO LEOPARDI In pochi mesi le nostre librerie si so no improvvisamente arricchite di vo lumi leopardiani, usciti, in fondo, mentre nessuno se l’aspettava. Bene merito di queste novità leopardiane è l’editore Einaudi, che ha ripubblicato contemporaneamente le due famose Crestomazie della prosa e della poesia italiana, curate dal Leopardi per l’edi tore Stella di Milano, rispettivamente nel 1827 e 1828, e una nuova edizione commentata dei Canti, delle Traduzio ni e delle Poesie varie, corredata da un’utilissima tavola delle concordanze. Insieme allo studio introduttivo alla Crestomazia della prosa di Giulio Bol lati, il quale ci offre un ritratto forse discutibile ma vivissimo del Leopardi antologista-sperimentatore, felicissimo e inconscio violatore della « maestà della letteratura italiana », questo les sico leopardiano, folto di quasi seicen to pagine, è da considerarsi il maggior contributo offerto agli studi leopardiani in questi ultimi anni. Oggi vive in esilio Il linguaggio poetico di Leopardi, insieme dolce e impervio, rappresenta un autentico caso letterario, un’impre sa irripetibile e senza precedenti: si tratta infatti di un linguaggio assolu taménte inventato, autonomo, una specie di fabbrica privata dello stile, ma di uno stile che possiede tali tratti di originalità e perfezione retorica da cessare di essere uno stile, presentan dosi piuttosto come un autentico uni verso linguistico a sé stante. Leopardi si è costruito per conto suo una lingua sua, appunto leopardiana, assolutamente inidentificabile al di fuori della sua esperienza lirica. Un linguaggio d’origine letteraria che utilizza nelle Canzoni tutta la tra dizione lirica italiana del Sei e Sette cento ma la stravolge negli Idilli con effetti d’imprevisto e sconcertante rea lismo. In un momento di crisi delle forme liriche italiane, corrispondente alla « democratizzazione » romantica, il linguaggio leopardiano, nato aristo craticamente da se stesso, grandeggia come una creazione solitaria e addirit tura « mostruosa » da un punto di vi sta tecnico. Possiamo spiegarci larga mente la genesi ritmica dei cori man zoniani (e poi verdiani), ma restiamo allibiti di fronte al tortuoso, siderale almanaccare metrico della Ginestra. E soltanto Leopardi può permettersi di accostare in uno stesso verso, indiffe rentemente, un’espressione aulica co me « augelli » e un’altra corrente e volgare come « gallina ». I due vocabo li appartengono a campi linguistici eterogenei, eppure nessun lettore del la Quiete dopo la tempesta ne avverte la contraddizione. In questo senso il ricco apparato di concordanze curato da Carlo Muscetta e da Giuseppe Sa voca diventa uno strumento indispen sabile per penetrare il segreto di que sta lingua isolata e affascinante. C’è poi da chiedersi se con queste pubblicazioni leopardiane ci troviamo in presenza a una ripresa d’interesse per il poeta. Qui sarei meno ottimista. E’ vero che tra tutti i classici italiani degli ultimi due secoli il solo Leopardi ha veramente resistito a tutti gli as salti. Nessuno se la sentirebbe di di scuterlo. Ma strano che sia, è anche vero che la figura di Leopardi, il suo messaggio, sono oggi un po’ in ombra. Soprattutto rispetto a venti o trent’an ni fa, quando l’esperienza lirica leo pardiana era un tema d’obbligo, un punto d’incrocio d’interessi, come si diceva allora, « militanti ». Saccheggiato dai rondisti, frainteso dagli ermetici, comunque a Leopardi ci si riferiva continuamente, e ne di scutevano Cardarelli con Ungaretti, De Robertis con Gianfranco Contini, Bigongiari con Piccioni. Nello stesso tempo Anceschi cercava di riguada gnare il poeta alla « metafisica della parola ». Oggi, bisogna riconoscerlo, Leopardi soffre (o gode) d’esilio, la sua ricerca ci appare decentrata ri spetto ai temi dell’attuale discorso let terario. Fatto tanto più singolare, se si pensa che il pessimismo novecentesco ripete in gran parte l’ideologia leopar diana, ignara e insofferente delle facili consolazioni del « cuore », lucidamente consapevole della nullità del destino, impassibile spettatrice di una realtà ridotta al museo di se stessa. Quel ver de delle illusioni, quel lume di gio ventù di cui Leopardi ha così spesso cantato la morte precoce, è quella stessa speranza, quello stesso fiore di gioventù che abbiamo perduto noi. Ma in un punto il Novecento si di stacca profondamente da Leopardi. A un cerimoniale di cose defunte, di va lori perduti, al sempre più vittorioso « trionfo della morte » il Novecento contrappone in letteratura una nuova mistica e metafisica dell’arte, in una direzione che è ancora quella delle poetiche romantiche e simboliste, sia pure (finalmente lo si è visto!) nella intelligente e manieristica variante dannunziana. Leopardi è un classico, estraneo, anzi allergico alle poetiche romantiche e simboliste, anche se per avventura personale egli si trovò a re gistrarne l’atto di nascita per il primo. Fatto ancora più sensazionale, se si eccettuano gli appunti giovanili dello Zibaldone, Leopardi è un poeta che non s’interessa di poesia. Mai in nome della poesia Leopardi era filologo prima che let terato, e la filologia è una scienza, mentre la letteratura è una retorica. Infine Leopardi è profondamente estraneo a quella mitologia che vede assoluto e divino protagonista il « poe ta assassinato » cioè il poeta che si op pone al muro soffocante delle cose in nome dell’essenza mistica e ineffabile della poesia. Questa rinascente mitolo gia ha il suo nume tutelare e la sua misura massima in Rimbaud, non in Leopardi. Il giudizio che Leopardi fa delle cose è sempre preciso, illumini stico, razionalistico, e, soprattutto, as solutamente incurante del fatto esteti co, del fatto « artistico ». Leopardi non parla mai in nome della poesia. Strano a dirsi, ma per il più struggente lirico di tutti i tempi la poesia sembra un fatto secondario. A torto o a ragione, Leopardi parla e ha sempre parlato in nome della vita.
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