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LETTERATURA: I MAESTRI: Giacomo Leopardi. Quel lume di gioventù

9 Gennaio 2016

di Cesare Garboli
[da “La fiera letteraria”, numero 49, giovedì, 5 dicembre 1968]

GIACOMO LEOPARDI
Canti
Einaudi, pagine 445, lire 12.000

In pochi mesi le nostre librerie si so ­no improvvisamente arricchite di vo ­lumi leopardiani, usciti, in fondo, mentre nessuno se l’aspettava. Bene ­merito di queste novità leopardiane è l’editore Einaudi, che ha ripubblicato contemporaneamente le due famose Crestomazie della prosa e della poesia italiana, curate dal Leopardi per l’edi ­tore Stella di Milano, rispettivamente nel 1827 e 1828, e una nuova edizione commentata dei Canti, delle Traduzio ­ni e delle Poesie varie, corredata da un’utilissima tavola delle concordanze.

Insieme allo studio introduttivo alla Crestomazia della prosa di Giulio Bol ­lati, il quale ci offre un ritratto forse discutibile ma vivissimo del Leopardi antologista-sperimentatore, felicissimo e inconscio violatore della « maestà della letteratura italiana », questo les ­sico leopardiano, folto di quasi seicen ­to pagine, è da considerarsi il maggior contributo offerto agli studi leopardiani in questi ultimi anni.

Oggi vive in esilio

Il linguaggio poetico di Leopardi, insieme dolce e impervio, rappresenta un autentico caso letterario, un’impre ­sa irripetibile e senza precedenti: si tratta infatti di un linguaggio assolu ­taménte inventato, autonomo, una specie di fabbrica privata dello stile, ma di uno stile che possiede tali tratti di originalità e perfezione retorica da cessare di essere uno stile, presentan ­dosi piuttosto come un autentico uni ­verso linguistico a sé stante. Leopardi si è costruito per conto suo una lingua sua, appunto leopardiana, assolutamente inidentificabile al di fuori della sua esperienza lirica.

Un linguaggio d’origine letteraria che utilizza nelle Canzoni tutta la tra ­dizione lirica italiana del Sei e Sette ­cento ma la stravolge negli Idilli con effetti d’imprevisto e sconcertante rea ­lismo. In un momento di crisi delle forme liriche italiane, corrispondente alla « democratizzazione » romantica, il linguaggio leopardiano, nato aristo ­craticamente da se stesso, grandeggia come una creazione solitaria e addirit ­tura « mostruosa » da un punto di vi ­sta tecnico. Possiamo spiegarci larga ­mente la genesi ritmica dei cori man ­zoniani (e poi verdiani), ma restiamo allibiti di fronte al tortuoso, siderale almanaccare metrico della Ginestra. E soltanto Leopardi può permettersi di accostare in uno stesso verso, indiffe ­rentemente, un’espressione aulica co ­me « augelli » e un’altra corrente e volgare come « gallina ». I due vocabo ­li appartengono a campi linguistici eterogenei, eppure nessun lettore del ­la Quiete dopo la tempesta ne avverte la contraddizione. In questo senso il ricco apparato di concordanze curato da Carlo Muscetta e da Giuseppe Sa ­voca diventa uno strumento indispen ­sabile per penetrare il segreto di que ­sta lingua isolata e affascinante.

C’è poi da chiedersi se con queste pubblicazioni leopardiane ci troviamo in presenza a una ripresa d’interesse per il poeta. Qui sarei meno ottimista. E’ vero che tra tutti i classici italiani degli ultimi due secoli il solo Leopardi ha veramente resistito a tutti gli as ­salti. Nessuno se la sentirebbe di di ­scuterlo. Ma strano che sia, è anche vero che la figura di Leopardi, il suo messaggio, sono oggi un po’ in ombra. Soprattutto rispetto a venti o trent’an ­ni fa, quando l’esperienza lirica leo ­pardiana era un tema d’obbligo, un punto d’incrocio d’interessi, come si diceva allora, « militanti ».

Saccheggiato dai rondisti, frainteso dagli ermetici, comunque a Leopardi ci si riferiva continuamente, e ne di ­scutevano Cardarelli con Ungaretti, De Robertis con Gianfranco Contini, Bigongiari con Piccioni. Nello stesso tempo Anceschi cercava di riguada ­gnare il poeta alla « metafisica della parola ». Oggi, bisogna riconoscerlo, Leopardi soffre (o gode) d’esilio, la sua ricerca ci appare decentrata ri ­spetto ai temi dell’attuale discorso let ­terario. Fatto tanto più singolare, se si pensa che il pessimismo novecentesco ripete in gran parte l’ideologia leopar ­diana, ignara e insofferente delle facili consolazioni del « cuore », lucidamente consapevole della nullità del destino, impassibile spettatrice di una realtà ridotta al museo di se stessa. Quel ver ­de delle illusioni, quel lume di gio ­ventù di cui Leopardi ha così spesso cantato la morte precoce, è quella stessa speranza, quello stesso fiore di gioventù che abbiamo perduto noi.

Ma in un punto il Novecento si di ­stacca profondamente da Leopardi. A un cerimoniale di cose defunte, di va ­lori perduti, al sempre più vittorioso « trionfo della morte » il Novecento contrappone in letteratura una nuova mistica e metafisica dell’arte, in una direzione che è ancora quella delle poetiche romantiche e simboliste, sia pure (finalmente lo si è visto!) nella intelligente e manieristica variante dannunziana. Leopardi è un classico, estraneo, anzi allergico alle poetiche romantiche e simboliste, anche se per avventura personale egli si trovò a re ­gistrarne l’atto di nascita per il primo. Fatto ancora più sensazionale, se si eccettuano gli appunti giovanili dello Zibaldone, Leopardi è un poeta che non s’interessa di poesia.

Mai in nome della poesia

Leopardi era filologo prima che let ­terato, e la filologia è una scienza, mentre la letteratura è una retorica. Infine Leopardi è profondamente estraneo a quella mitologia che vede assoluto e divino protagonista il « poe ­ta assassinato » cioè il poeta che si op ­pone al muro soffocante delle cose in nome dell’essenza mistica e ineffabile della poesia. Questa rinascente mitolo ­gia ha il suo nume tutelare e la sua misura massima in Rimbaud, non in Leopardi. Il giudizio che Leopardi fa delle cose è sempre preciso, illumini ­stico, razionalistico, e, soprattutto, as ­solutamente incurante del fatto esteti ­co, del fatto « artistico ».

Leopardi non parla mai in nome della poesia. Strano a dirsi, ma per il più struggente lirico di tutti i tempi la poesia sembra un fatto secondario. A torto o a ragione, Leopardi parla e ha sempre parlato in nome della vita.

 


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