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LETTERATURA: I MAESTRI: Giorgio Pasquali. Esteti, poveri esteti

26 Novembre 2015

di Giulio Cattaneo
[da “La fiera letteraria”, numero 37, giovedì, 12 settembre 1968]

Giorgio Pasquali, nato a Roma nel 1885, aveva compiuto i suoi studi classici alla scuola del Festa. S’era poi specializzato a Gottinga; di lì era passato a Berlino come assistente del Wilamowitz. Il lungo soggiorno tedesco fu decisivo nella sua formazione, come egli volle ricordare in varie pagine di ricordi e nella postuma « Storia dello spirito tedesco » (1953); mentre in « Filologia e storia » aveva detto il suo parere equa ­nime nella polemica allora dilagante pro e contro la filologia tedesca (1920). Chiamato dall’Università di Firenze nel 1921, fu lì, e nella Scuola Normale di Pisa, maestro insuperabile a generazioni di classicisti e mo ­dernisti, molto al di là dei limiti della specializzazione: « dalla cattedra e per la strada », come è stato scritto. Morì a Belluno nel 1952, in un banale incidente stradale. Pasquali s’era imposto presto come filologo tra i nostri maggiori con le edizioni di Proclo (1908), di Gregorio di Nissa (1925), delle lettere di Platone (1936), e soprattutto col monumentale stu ­dio su « Orazio lirico » (1920). Ma l’opera in cui la sua dottrina appare in tutta la sua vastità, rivelando tutte le implicazioni della critica testuale come storia della cultura, è la « Storia della tradizione e critica de; testo » (1934). La ricca umanità di Pasquali non volle sacrificarsi nel ­l’ambito di una sola disciplina: di qui la sua attività di elzevirista e me ­morialista, i suoi interventi sulla didattica e sull’organizzazione universi ­taria, i suoi scritti su autori moderni e problemi attuali, raccolti via via nelle « Pagine stravaganti », di cui Sansoni ristampa i primi volumi.

Alla riapertura dei corsi universitari dopo la li ­berazione di Firenze, nel ’44, mancava Giorgio Pasquali: si sapeva che era malato di una grave depressione nervosa e che non si sarebbe ripreso tanto presto, ammesse le possibilità di guarigio ­ne. Alcuni suoi scolari affezionati preferirono ri ­mandare l’esame di letteratura latina da sostene ­re con Bignone, scopritore dell’Aristotele perdu ­to e traduttore di poeti greci è latini in versi gin ­nasiali. Gli esami con Pasquali erano piuttosto difficili e si raccontavano non pochi aneddoti sul ­le sue intemperanze alle risposte di studenti so ­mari ma erano veri esami di filologia. Con Bigno ­ne si trattava invece, almeno allora, di imparare a mente o quasi le dispense e soprattutto la sua Storia della letteratura latina ribattezzata goliar ­dicamente l’opus infame.

Bignone aveva una faccia lunga e magra di un rosa carico, costellata di bitorzoli, alla quale avrebbe dato certamente decoro una bella par ­rucca secentesca a riccioloni, da Luigi di Fran ­cia; parlava con pronunciata squisitezza abbellita dall’erre moscia e posava a esteta. « Come filolo ­go non sarà un gran che » commentava un suo alunno con spiccato accento fiorentino « ma se tu lo pigli dal punto di vista estetico, bambini mia! ». E l’espressione di ammirato sbigottimen ­to non smentiva le parole. Così Bignone tenne pomposamente il campo per tutto l’anno accade ­mico mentre, in assenza di Pasquali, il corso di letteratura greca fu condotto, con serietà e mode ­stia, da Terzaghi. Sembra che nel periodo della malattia Pasquali si pentisse di aver fatto di Bi ­gnone, per anni, uno dei suoi bersagli polemici e ne esaltasse le « posizioni scientifiche di prim’ordine » contrapponendolo a se stesso. Quando le lo ­di di Bignone ebbero termine e si concluse la fase autodenigratoria, fu chiaro che Pasquali comin ­ciava a star meglio. Erano passati comunque due anni, piuttosto importanti per la ripresa degli studi, nei quali non era mancata certo la volontà di imparare con una guida autorevole da parte dei giovani migliori usciti dalla guerra.

NON TOLLERO IMPOSIZIONI STRANIERE

Pasquali era il più grande uomo di cultura, do ­tato di una straordinaria vocazione di maestro, che avesse allora l’Università di Firenze e anche uno dei personaggi più bizzarri che vivesse in quella città abituata per lunga tradizione agli ec ­centrici e ai bislacchi. Erano note certe sue espressioni che facevano parte di un linguaggio personalissimo, arzigogolato ma di immediata presa, una mescolanza ironizzata di latinismi, di modi retorici, di parole e locuzioni italiane dei primi secoli. Così « venerare » stava per salutare, « stupore » per imbecillità, « schiava » per donna di servizio, « cadavere » per carne (mangiare ca ­davere), « breve » per basso di statura, « turpe » per brutto (senza riprovazione morale), « supre ­mo » per ultimo, « soave » per buono (detto cibo), « tenace » per ebreo (tenace nell’errore), « chi mura liberamente » era il massone, « l’imo giudeo » un condomino israelita al piano terreno della casa dove Pasquali era « il filologo sopra ­no », i pedagogisti li voleva « morti a ghiado », Mussolini puniva a « sergozzoni » i gerarchi ne ­gligenti. Era bravissimo a concentrare in una pa ­rola quello che un altro avrebbe espresso in un discorso. Un giorno, in un paese di montagna, identificò da lontano un collega per il suo modo di camminare condizionato da un portamento ri ­gido. L’altro si meravigliò di essere stato ricono ­sciuto così a distanza, data la vista debole di Pa ­squali, ma il filologo spiegò: « L’incesso! ».

Quando Pasquali si ripresentò fra i colleghi e gli alunni lo fece in modo tranquillo e disinvolto e si notò che dopo la malattia sembrava nel com ­plesso più calmo ed equilibrato. Ne avrebbero ri ­cavato un beneficio soprattutto gli studenti re ­frattari alla filologia ai quali non avrebbe più sbattuto in faccia un libro nella provocazione di una risposta insensata, limitandosi a lanciare i suoi recisissimi « no » con un brusco movimento della testa e un sussulto di tutto il corpo. Della grave depressione non gli rimase fortunatamente il minimo residuo perché si rifece del tempo per ­duto con una appassionata ed esaltante volontà di lavoro e riprendendo i rapporti con gli amici e gli allievi nella festevole socievolezza che gli era propria. Lo si vedeva arrivare camminando con un passo sul marciapiede ed uno sulla strada e così avanti, corpulento, col capo piegato verso la spalla, le lenti spesse e gli occhi a fior di testa che non vedevano il mondo intorno a lui, la fac ­cia che sembrava di carne cotta, assorta e un po’ malinconica, il soprabito spesso sbottonato, la cravatta dal nodo sfatto. Si animava incontrando qualcuno che conosceva, non aveva importanza se si trattava di uno scolaro, di un professore, di un giovane visto all’Università perché era porta ­to a divertire un po’ tutti con un aneddoto, un motto di spirito, la storia di un cognome. Si era rimesso a scrivere e quando era soddisfatto delle sue pagine esclamava convinto: « Non è vero che solo il poeta ha il raptus: anche il dotto ha il rap ­tus! ». Erano frequenti i suoi « non è vero »: « Non è vero che chi ha gli occhi lustri è intelli ­gente: i siciliani hanno tutti gli occhi lustri »; « Non è vero che gli svizzeri sono imbecilli: Bur ­ckhardt era svizzero ».

« No, vergini, no, in casa non ne voglio; sono sempre nudo, rispondeva un giorno al telefono a una ragazza che voleva ringraziarlo di un favo ­re e in effetti Pasquali a casa sua era spesso nudo anche se a volte ammantato di un’ampia vesta ­glia. De Robertis ricordava di averlo trovato completamente nudo la prima volta che era an ­dato a trovarlo e diceva di essersi comportato senza dar segni di meraviglia ma Pasquali non aveva certamente l’intenzione di sbalordirlo. Pro ­babilmente questa abitudine gli veniva dai lun ­ghi soggiorni giovanili in Germania dove il nudi ­smo è praticato diversamente che in Italia tanto che Thomas Mann in Versilia fu punito con una contravvenzione. « Tutto preso d’idee nudiste e ardendo nel culto del sole del Sud come un sacer ­dote di Mitra, affidava i suoi ragazzi alla spiag ­gia, maschi e femmine, in tenuta da Adamo ed Eva ». (Gadda). Una sera, mentre stava parlando in vestaglia con due studenti, la moglie insistette ripetutamente con Pasquali perché si infilasse al ­meno le mutande ma il maestro, disturbato nella conversazione, dopo una serie di « no » in cre ­scendo si diede due o tre pugni sulla testa gri ­dando « Non tollero imposizioni straniere! ». Alla fine si calmò e seguì docilmente la premurosa moglie alla quale era molto affezionato e ritornò con le mutande, pronto a riprendere tranquilla ­mente il discorso interrotto su un personaggio di sua conoscenza: « Famoso pederasta, si procacciò gloria immortale lanciandosi con un paraca ­dute… ».

La sua casa era frequentata non soltanto da filologi classici come Bartoletti e Ugolini ma da italianisti, storici della letteratura e della lingua quali Caretti e Folena, musicologi, studiosi di storia russa, economisti e anche ragazzi di liceo. Fra i suoi scolari era Sebastiano Timpanaro, « il migliore conoscitore di Ennio » e autore, in se ­guito, del bellissimo libro La filologia di Giacomo Leopardi e del volume Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Carlo Ferdinando Russo che aveva curato una edizione critica dell’Apoco locynthosis, studioso di Aristofane, Gastone Pettenati, già allora linguista espertissimo, Dino Pieraccioni e altri. Fra i più giovani, come Manfredi e Bormann, era Eugenio Grassi, morto a trentadue anni nel ’60, « intenditore sicuro di lingua e stile greco », ma nutrito, al di là dei suoi interessi professionali, delle letture più varie, dotato di un senso critico sottilissimo. Il suo aiuto era prezio ­so per quanti potessero avere un dubbio anche sulla interpretazione di un antico testo italiano, sulla validità di un discorso critico qualsiasi. Composto, ironico, curioso, trovava materia di di ­vertimento continuo nei giornali, nei comizi, nel ­le conferenze, in tutti i passatempi a buon mer ­cato che potevano offrire quegli anni di povertà. Accanitissimo nelle discussioni che conduceva pacato e con una logica stringente, polemizzava anche col suo maestro che, a differenza di vari suoi colleghi, era pronto a riconoscere la giustez ­za di opinioni diverse dalle sue, chiamando al so ­lito, a testimone la moglie: « Maria, dice che ge ­neralizzo… ».

Pasquali aveva scritto, riferendosi anche a se stesso, che « gli uomini di studio vivono spesso fra i venti e i trent’anni come in un tubo, senza veder nulla » ma i filologi della sua scuola erano tutti attentissimi a quanto accadeva nel mondo e la conversazione a casa di Pasquali era della più larga varietà di argomenti col maestro che parla ­va di tutto con una vivacità incredibile, anche fisica, alternando le discussioni dotte al racconto dell’ultimo fatterello, di un incontro con un per ­sonaggio: « E’ venuto a trovarmi il professor Weitzmann, un uomo completamente privo di gambe. Non deve essere molto ario; vero, Cassin? ». (Sia detto, a scanso di equivoci, che Pa ­squali non era minimamente antisemita come sanno bene i suoi lettori). Era sempre disposto a ricevere chiunque gli si rivolgesse per un favore, per un consiglio. Apprezzava chiunque facesse bene il suo lavoro anche se non si trattava di un intellettuale. Diceva di stimare il ministro Cor ­bellini, ricostruttore delle ferrovie italiane, che non era certo un dotto: « Nessun problema cultu ­rale: la sera fa il cruciverba e alle nove va a let ­to ».

COME SONO TURPI GLI ALLIEVI DI DE ROBERTIS

Una volta si presentò un grecista in divisa di sergente e Pasquali gli aprì un testo greco che l’altro cominciò a tradurre con una certa disin ­voltura; soltanto due volte fu interrotto da « no » recisi ma si corresse subito. Il maestro gli prestò vari libri ma l’altro sembrava insaziabile finché Pasquali a una nuova richiesta replicò con l’aria di scusarsi ma fermo: « Questo vorrei tenerlo ». Quando il sergente fu uscito, osservò che sapeva abbastanza di greco; Grassi era meno indulgente ma Pasquali asserì asciutto: « Non meno di Perrotta ».

« Come sono turpi gli alunni di De Robertis », disse guardandoli mentre uscivano da esercita ­zione e in effetti non era un campionario di bel ­lissimi. Ma, « turpitudine » a parte, li aveva in sospetto come « esteti ». « Ma è dotto? » chiedeva al Grassi che gli aveva suggerito il nome di un allievo di De Robertis per una serie di lezioni private di letteratura italiana: « Temo proprio che sia un esteta ». Detestava l’impressionismo critico e, se stimava De Robertis, nella polemica contro gli italianisti senza filologia finiva per fare di ogni erba un fascio e auspicava la istituzione di cattedre di filologia italiana accanto a quelle di letteratura: nel suo sogno il filologo avrebbe con ­tinuamente bersagliato il collega della accusa bruciante: « Esteta! Esteta! ».

In un articolo che pubblicò allora sosteneva questa tesi documentando il discorso con esempi di orrori filologici -tratti da una edizione della Commedia commentata dal Momigliano: « aqui ­la » per « aguglia », « rende alla terra » per « ve ­de alla terra », « si tace » per « ci tace ». Se la prendeva col « professore universitario di lettera ­tura italiana dell’ultimo figurino, estetico e anti ­storico, che guarda all’arte, ma non sa poi spiega ­re tutto il suo testo parola per parola, e, richiesto d’interpretare, risponde che l’italiano moderno si capisce da sé, perché noi siamo appunto italiani moderni ». Non amava le versioni poetiche e, ap ­preso durante un viaggio che un traduttore in versi di poeti latini aveva affermato di sentire « rivivere » in sé « lo spirito di Virgilio », balzò dal sedile e uscì nel corridoio del treno a passo svelto, urtando gli interdetti viaggiatori e schiaf ­feggiando con una mano la palma dell’altra se ­condo un gesto abituale singolarissimo di quando era arrabbiato. Si rabbonì mangiando avidamen ­te un pezzo di cioccolata, esclamando ripetutamente: « Soave! ».

Le tesi presentate dai suoi allievi dovevano es ­sere rigorosamente scientifiche; di uno scolaro che aveva preparato un lavoro sospetto di dilet ­tantismo diceva: « Gli ho consigliato il suicidio ». Controllava gli studi dei suoi alunni ed era assai soddisfatto se telefonando all’alba li trovava già attivi. Questo si verificava immancabilmente con Bormann, lavoratore metodico, apprezzatissimo anche perché tedesco. Durante la discussione di una tesi, ascoltando un collega lodare il laurean ­do perché si addentrava « nei misteri della filolo ­gia », commentò: « Non è poi tanto misteriosa ». In altra occasione, sentendo parlare di « critica cattolica », intervenne con la solita decisione: « Non esiste la critica cattolica ». Concluse dicen ­do: « Un dannato non può giudicare un santo ». Commissario di esami in una scuola retta da mo ­nache, assegnato il tema della prova scritta di italiano « Quale personaggio dell’antichità avreste voluto conoscere », letto un componimento dove una studentessa rivelava il suo sogno di una con ­vivenza con Virgilio, dichiarò alle suore: « Non so proprio cosa avrebbe potuto farsene Virgilio di una donna. Caso mai di un fanciullo ».

PIÙ CHE UN PADRE UN FRATELLO

Politicamente era un democratico, moderatamente di sinistra; alle elezioni del ’48 votò per i socialdemocratici e, al Senato, per la Democrazia Cristiana ma il candidato non gli era simpatico e mettendo il segno sulla scheda si ripeté le parole omeriche: « Sopporta, o cuore; hai sopportato qualcosa anche di più cane ». All’indomani delle elezioni si dichiarò soddisfatto dei risultati « cum bona pace » dei suoi amici comunisti provocando la sdegnata reazione di un alunno che se ne andò senza salutare. Un giorno Grassi, in un corridoio della facoltà, ridacchiava leggendo una nuova de ­finizione della lotta di classe data da un socialista in un convegno: « Lotta di classe ma senza odio ». Un giovane storico marxista cominciò con un certo sussiego a sostenere la legittimità dell’o ­dio rivolgendosi anche solennemente a Pasquali che era arrivato in quel momento fermandosi a sentire. La sua reazione fu immediata e brusca: interrompendo i laboriosi ragionamenti dell’altro si allontanò con uno scatto improvviso, quasi di corsa. Si interessava vivamente agli avvenimenti politici chiedendo sempre precisi ragguagli e, ap ­pena seppe che un allievo di Devoto era tornato da Praga, dove si trovava per ragioni di studio, subito dopo il colpo di Stato, lo fece venire a casa sua e, alla presenza di amici e scolari, lo bom ­bardò di domande alla ricerca di particolari sco ­nosciuti, arrivando alla conclusione che il giova ­ne era rimasto solo frastornato dagli eventi e aveva bisogno di rendersene conto assai più del suo interrogatore.

A differenza di certi suoi colleghi che facevano lezione sempre sugli stessi autori, Pasquali prefe ­riva dedicarsi a un argomento da studiare ancora a fondo e così scelse, per esempio, un corso su Lucano del quale non si era mai occupato. Ma più che la lezione aveva importanza per lui l’e ­sercitazione. A Pasquali si addiceva solo fino a un certo punto la grande aula affollata proprio perché mancava di qualità oratorie che del resto non apprezzava. Parlava in fretta senza pronun ­ciare con chiarezza e non guardava i suoi ascolta ­tori con la volontà di dominio dei predicatori e dei conferenzieri alla moda. Si trovava invece ve ­ramente a suo agio nel « seminario », con pochi valenti scolari, in una discussione che conduceva su un piano di autentica parità annullando « ogni distanza fra sé » e i suoi interlocutori: « Il maestro vero è molto più spesso un fratello che un padre ».

In quegli anni scrisse un certo numero di pagi ­ne « stravaganti », ossia estranee « all’attività principale, filologica, dell’autore ». Ne aveva pub ­blicate già tre volumi fra il ’32 e il ’42 e quelle composte dopo la guerra furono raccolte in parte nel libro delle Stravaganze quarte e supreme che furono purtroppo davvero « supreme », cioè le ultime. In questi articoli che l’editore Sansoni sta ora per ristampare è uno scrittore leggibile da lettori colti, anche privi di una specifica prepa ­razione filologica: uno scrittore sostanzioso e bril ­lante nella forma che distribuisce la sua sterminata dottrina in una quantità di argomenti eterogenei: nei ritratti dei grandi maestri della filolo ­gia come nei ricordi personali di Gottinga, nel re ­soconto delle sue esperienze di commissario di concorsi, di incontri con colleghi giapponesi e con un santone indù, nell’esame delle biblioteche italiane. Sono del secondo dopoguerra i bellissimi pezzi sul Cuore del De Amicis, esempio di arguta e sensibile critica letteraria, e sulla educazione di Vittorio Emanuele III, un divertente e geniale capitolo di storia. In quegli anni scrisse sui problemi della scuola, anche in aspra polemica col ministro Gonella, e sull’insegnamento universi ­tario: articoli che non raccolse.

Non mancano naturalmente fra le pagine « stravaganti » contributi propriamente scientifici ma stesi sempre in uno stile saporoso e conversevole come il magistrale saggio sul Medioevo bizantino che si affianca allo splendido Giudizio sul Duecento di Longhi per la convergenza delle conclusioni critiche sulla civiltà di Bisanzio. Era la prosa di un dotto ma, come osservò Cecchi, di una « vena leggera e generosa, preziosa ed insie ­me casalinga, scintillante di notazioni dal vivo e di bizzarri, geniali paradossi », col senso « d’un movimento sereno e grandioso, d’una confiden ­zialità matura e cordiale, d’una saggezza festosa e contagiosa ». Uno stile ben lontano dai moduli dannunziani dei filologi esteti.

Scegliamo a caso qualche esempio:

« Urta talvolta che il De Amicis, quand’è più patetico, si lasci trascinare a figure retoriche, che, esaminate anche senza lenti d’ingrandimen ­to ma a occhio nudo, avvicinato all’oggetto, si ri ­velano assurde. Vuole far sentire il numero im ­menso delle scuole che ci sono nel mondo e dei ragazzi che le frequentano; e in un periodo di una pagina intera, quali in lui sono inconsueti, scrive fra l’altro: ”dalle ultime scuole della Rus ­sia quasi perdute tra i ghiacci alle ultime scuole dell’Arabia ombreggiate dalle palme”, dunque l’i ­struzione obbligatoria nella Russia più boreale e nell’Arabia già nel 1882! E seguita, dopo una vir ­gola: ”tutti a imparare in cento forme diverse le medesime cose”. L’unità della civiltà mondiale, compresi i Paesi meno civili o meno moderna ­mente civili, mi pare leggermente sopravvalu ­tata ».

Oppure:

« E la mamma ci ribadiva ogni giorno il divie ­to di uscir di ceto trattando con inferiori, quasi i Romani fossero Indù, che corrono pericolo, una volta contaminati, di dover pagare rupie e rupie per rientrare nella loro casta; ci ribadiva l’ordine corrispondente di avvicinare coetanei dello stes ­so ceto, dai quali, essendo essi fatti come noi, non potevamo imparar nulla ».

O anche, a proposito di Luigi Morandi, « mae ­stro d’italiano » di Vittorio Emanuele III:

« Ragazzo di ginnasio inferiore, ebbi tra le ma ­ni, e, povero e avido di libri, lessi e rilessi una sua Antologia, scelta da autori moderni non ina ­bilmente, sebbene senza conoscenza profonda delle seti dei fanciulli di quell’età, e appesantita di note che non spiegavano lettera e pensiero di quei testi, talvolta un po’ ostici a noi bimbetti, ma miravano esclusivamente a notare doppioni, cioè forme come interprete e interpetre, corvatta e cravatta, quasi i giovani lettori potessero inte ­ressarsi di tali quisquilie pedantesche e bizanti ­ne, di tali fisime. Con i doppioni egli l’aveva a morte, come se si potesse concepire in un Paese così vario e così ricco di letteratura un’unità lin ­guistica assoluta. Discriminante doveva essere l’uso linguistico fiorentino, sul quale era spesso male informato. Giurava che corvatta era la for ­ma di qui, mentre qui si è sempre detto o cravat ­ta o, con parola diversa, ciarpa, ciarpino; e a cor ­vatta profetava la vittoria sul vile nemico. Ognun vede come i fatti gli abbiano dato ragione ».

Pasquali fu il maggiore filologo italiano del suo tempo e incarnò una nuova figura di studioso nella nobile tradizione italiana promossa dal Comparetti. La filologia del Comparetti apparte ­neva alla corrente del Realphilologie ed era quindi storicista, non formale, e del resto la filologia italiana risorta dopo l’unità nazionale, e non sol ­tanto la classica, fu essenzialmente storicista, sulle orme di quella tedesca orientata nello stes ­so senso. Il Comparetti fu un grande storico, por ­tato « a comprendere in uno sguardo solo tutta la vita di un popolò nei suoi aspetti più vari e ripo ­sti » ma non ebbe « amore per esegesi e critica del testo in quanto tali » e, come ha osservato il Timpanaro, « il suo punto debole rimase sempre la poca conoscenza di lingua e stile ». Il ritorno alla critica testuale fu dovuto soprattutto al Vi ­telli negli anni stessi in cui la filologia formale tedesca risorgeva grazie al Wilamowitz. Conosci ­tore eccezionale di lingua e stile greco, acutissi ­mo congetturatore e intenditore raffinato di poe ­sia, non ebbe il senso storico e la « capacità di sintesi » del Comparetti e accettò per suo conto. « con ironica umiltà, « la parte di modesto racco ­glitore di materiali ». Non ebbe simpatia, « nel suo intimo », per i filologi-storici e del resto fra lui e il Comparetti non mancarono le battute po ­lemiche. Come ha ben visto il Timpanaro, Vitelli non affrontò « il compito di storicizzare la critica letteraria, di portare la filologia al suo interno, e di sconfiggere così sul loro stesso terreno i critici impressionisti e dilettanti »: un compito che in tempi più maturi avrebbe assunto Pasquali. « So ­stanzialmente estraneo all’idealismo italiano, ma seguace dello storicismo del Wilamowitz (di cui, peraltro, respingeva le scorie neo-umanistiche), Giorgio Pasquali riuscì, in Filologia e storia e in tutta la sua posteriore opera di studioso, a rivalu ­tare la filologia e, insieme, a liberarla da ogni gretto tecnicismo »: così, esattamente, il Timpa ­naro.

ESPRIMERE CON SCHERZO LE VERITí€ PIÙ ALTE

Negli ultimi anni gli interessi linguistici finiro ­no quasi per prevalere in Pasquali su quelli filolo ­gici con un certo disappunto di alcuni suoi scola ­ri. Anche per i corsi furono scelti autori che, co ­me Teocrito, potevano prestarsi di più alle eser ­citazioni glottologiche. Il maestro cominciò a di ­re, da un certo momento, che era malato: « Sto benissimo ma muoio ». Ostentava una grande serenità perché era convinto che si deve conoscere nella loro entità i propri mali e sopportarli con lo stoicismo degli antichi saggi. Morì nel ’52, all’età di 67 anni, in seguito a un incidente banale, ca ­dendo malamente mentre attraversava una stra ­da di Belluno, urtato o forse soltanto spaventato da un motociclista. Grassi e Bormann che parti ­rono immediatamente da Firenze lo trovarono già morto.

Era stato un grande studioso che professava « solennemente una verità sola », « che è di catti ­vo gusto esprimere senza scherzo, solennemente, le verità più alte ». Fu molto amato dai suoi sco ­lari per la sua bontà e ricordato da tutti, oltre che per gli studi, per la « confidenzialità matura e cordiale » e per i motti di spirito. « Ciò non pro ­va che egli, pur socievole, fosse una natura lieta: gli uomini che riboccano di frizzi, sono per lo più melanconici, ché il frizzo è evasione; malinconico fu, come oggi si vede sempre più chiaro, il socie ­volissimo e argutissimo Teodoro Mommsen »


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Bart