LETTERATURA: I MAESTRI: Quante scuse per non scrivere24 Novembre 2015 di Carlo Cassola Il « Filo diretto » tra la Anna Maria Ortese e Italo Calvino sul Corriere provocò malauguratamente una piccola polemica tra Calvino e me, dico ma lauguratamente, perché sono pochissi mo interessato alle discussioni genera li: per esser franco, mi sembra tempo perso. Giulio Preti la riesamina sulla Fiera con l’articolo « Chi ha paura del la scienza? », e mi costringe a ripren derla. Cercherò comunque di restare sul piano psicologico, che per me è un terreno fermo. Chi ha paura della scienza? Nel suo « Filo diretto » con Calvino, la Ortese esprimeva sgomento per le conquiste spaziali. L’ho provato anch’io; credo l’abbiano provato anche quelli che hanno finto di entusiasmarsi. Sarà uno sgomento irragionevole, ma non pos siamo fare a meno di allarmarci quan do ci sembra che la scienza varchi certi limiti. Siamo anche noi un pezzo di natura, e ci sta a cuore che l’ordine della natura non venga alterato. Cer to, questa è paura della scienza. Si è attenuata per fortuna l’altra paura, che la scienza arrivi a svelare « il mi stero dell’Universo », come si diceva nell’Ottocento. « Finché la scienza non giungerà a scoprire â— le fonti della vita â— e nel mare e nel cielo esisterà un abisso â— che al calcolo resisterà… Finché per l’uomo esisterà un mistero â— ci sarà una poesia! » Così Becquer, agl’inizi del positivismo. E già in que sto opposto atteggiamento dello scien ziato e del poeta, e più in generale del pensatore e del poèta, il primo posse duto dalla febbre di conoscere, il se condo animato piuttosto dalla preoccu pazione contraria, è indicata quella profonda differenza che oggi si vorrebbe abolire per ridurre tutto a cultura e magari a scienza. Ma a parte questa istintiva, irragio nevole e inestirpabile paura, io non ho niente contro la scienza. In particola re, non ho nessun rimprovero da rivolgere alla cultura scientifica, per il semplice fatto che essa non si è mai sognata di attentare alla libertà della poesia. E’ la cultura umanistica che ha compiuto e compie questi attentati: quella cultura umanistica che è in crisi da quando la scienza le ha tolto quasi tutti i campi d’indagine e ne ha arche reso difficile l’azione mediatrice (un Cartesio o un Kant erano perfet tamente al corrente dello stato delle scienze nel loro tempo; ma oggi un filosofo come fa ad avere un’informazione di prima mano e a formarsi un’opinione propria sui vertiginosi progressi degl’innumerevoli settori in cui s’è articolata la ricerca scientifica?). Anche il famigerato scientismo positivista consisté in un’affrettata volgarizzazione e in un’arbitraria estensione del metodo scientifico ad altri campi: fu insomma un misfatto della cultura umanistica e non di quella scientifica. Oggi è la stessa cosa, gli scienziati attendono al loro lavoro e non si cura no di quel che fanno i poeti. E se per caso hanno sentore che certi artisti poco seri si appigliano alle loro rivo luzioni scientifiche per giustificare le loro rivoluzioni artistiche, si affretta no a sconfessarli (così, mi sembra, fe ce Einstein coi cubisti). E’ solo l’intel lettuale generico di formazione umani stica che si affanna a compiere « me diazioni » che nessuno gli ha chiesto. La divisione del lavoro propria del mondo moderno ha depurato la lette ratura di fantasia, cioè la poesia, dai compiti accessori che poteva aver avu to in passato: per esempio, da quei compiti didascalici che Preti sembra rimpiangere. Si è depurato anche il ro manzo, che era il genere più impuro: mentre nel Settecento e ancora nel- l’Ottocento convivevano nel romanzie re un artista, un sociologo, un morali sta, un riformatore ecc., nel Novecen to è sopravvissuto solo l’artista. La poesia si è insomma concentrata nel suo compito specifico, che è proprio « l’impudico esercizio » che sembra ur tare Preti. Non si insisterà mai abba stanza sul carattere privato, personale della poesia; sul fatto cioè che la poe sia nasce dallo stupore esistenziale e dall’attaccamento alla vita. « Il cuo re », dice Boris Pasternak, « agisce nella sfera del piccolo, ed è grande proprio perché agisce nella sfera del piccolo ». Un poeta non può che tentare di dar forma al piccolo mondo che gli è proprio, e quanto più riesce a renderlo piccolo, quando più cioè rie sce a renderlo in ciò che ha di perso nale, di singolare e in definitiva di unico, tanto più può sperare in un ri sultato che abbia un qualche interesse anche per gli altri. Stando così le cose, non vedo come si possa istituire un parallelo tra la creazione artistica e la scoperta scien tifica. La prima è strettamente legata alla natura e alla biografia dell’autore; la seconda ne prescinde completamen te. La fisica e l’astronomia di Galilei non ci dicono nulla sull’uomo; le poesie . del Leopardi ci dicono invece tutto su lui, e le più minuziose biografie non fanno che confermarci quanto già sa pevamo della sua indole, dei suoi sen timenti, della sua felicità e infelicità. Se Tolstoi non avesse fatto l’esperien za della guerra non avrebbe scritto Se bastopoli e Guerra e pace; mentre La voisier sarebbe stato il fondatore della chimica moderna comunque gli fosse ro andate le cose nella vita. E ancora: se Tolstoi fosse morto in fasce, non avremmo Guerra e pace; se fosse morto in fasce Lavoisier, qualcun al tro avrebbe scoperto il principio della conservazione della materia. Preti invece istituisce questo paral lelo: « Scienza e arte letteraria esplora no le medesime esperienze, la medesi ma realtà; scienza e arte letteraria su perano il linguaggio comune… ». La seconda affermazione mi sembra sen z’altro sbagliata. La scienza supera il linguaggio comune, tanto è vero che si parla di linguaggio scientifico. La poe sia non può superarlo: l’esperienza, la deve ripensare proprio in termini di linguaggio comune. E’ vero che si par la anche di linguaggio poetico, ma per riprovarlo come un pregiudizio classicistico. La prima affermazione può sembrar vera dal momento che oggi esistono discipline che studiano scientificamen te i moti dell’animo, un tempo riserva to dominio della poesia; ma mentre, che so, lo psicanalista è spinto dal de siderio di conoscere, il poeta è mosso dal bisogno di dare un senso alla vita. La poesia appaga un bisogno più pri mordiale di quello conoscitivo. Se si vuole, ha una funzione biologica: pro muovere l’attaccamento alla vita. Tol stoi da giovane ha scritto: « Scopo del l’arte non è quello di risolvere i pro blemi, ma di costringere gli altri ad amare la vita in tutte le sue manife stazioni. E queste sono inesauribili. Se mi dicessero che posso scrivere un ro manzo nel quale mi fosse dato di di mostrare per vero il mio punto di vi sta su tutti i problemi sociali, non de dicherei due ore a un’opera di questo genere. Ma se mi dicessero che quello che scrivo ora sarà letto tra vent’anni da coloro che oggi sono bambini, e che essi rideranno e piangeranno e si in namoreranno della vita sulle mie pagi ne, allora dedicherei a quest’opera tut ta la mia vita e tutte le mie forze ». Dice Preti: « Purtroppo Cassola si vuol mantenere attaccato alla formula della poesia come espressione: al più meschino, al più povero e ignorante degli slogans di un’estetica e di una filosofia tra le più meschine e inconsi stenti. “Espressione” è tutto: anche una bestemmia ». Qui Preti manca completamente il bersaglio. Le sue pa role potranno suscitare le ire dei cro ciani; ma io non me ne sento toccato. Perché non sono mai stato un crocia no. Nessuna opera di pensiero ha avu to la benché minima influenza sulla mia formazione letteraria. Che cosa fosse la letteratura, che cosa rappre sentasse lo scrivere oggi, che cosa io stesso potessi scrivere, l’ho capito leg gendo Figli e amanti, Dublinesi, Dedalus. Croce l’ho letto solo anni dopo, quando mi son dovuto preparare a un concorso per l’insegnamento. E nell’e stetica crociana non ho trovato nulla che risvegliasse il mio interesse: o c’e rano verità che avevo già acquisito per altra via, o c’erano degli errori. E’ un errore, per me, l’identificazione in tuizione-espressione: ciò che sentiamo sorpassa infinitamente le nostre possi bilità di esprimerci, noi non riusciamo a chiarire che in misura minima la no stra vita intuitiva. E un altro errore è l’affermazione che le intuizioni-espres sioni qualitativamente si equivalgono e che quindi una bestemmia vale la poesia di Dante. Fin da bambino io ero stato cosciente proprio del contra rio, e cioè di una differenza qualitati va in seno alle intuizioni: nel gran fiume che è la nostra vita intuitiva, alcune, rare, si staccavano con una vi vezza, con un timbro inconfondibile: e per un attimo ero sopraffatto dalla fe licità. Su queste rare intuizioni, a cui da grande diedi perfino un nome, si fondò la mia poetica. A me pare di entrare agevolmente nella testa dell’uomo di cultura (se non altro perché anch’io ho qualche interesse culturale). Possibile che un uomo di cultura non riesca a entrare nella testa di uno scrittore? Che si tratti di due formae mentis completamente diverse, mi pare lo di mostri anche la storia: le grandi sta gioni della poesia non hanno affatto coinciso con le grandi stagioni della cultura. Omero è venuto alcuni secoli prima di Platone e Aristotele; Roma ha avuto una grande poesia, ma non ha prodotto niente nel campo del pen siero; lo stilnovismo e Dante precedo no di un bel po’ la fioritura dell’Umanesimo. Dante è naturalmente il nome che mi viene buttato tra i piedi quando cerco di tener ferma la distinzione tra poesia e cultura, tra sentimenti e idee. Lo fa anche Preti: « In prosa e in poe sia, e persino nella sua più alta poesia, Dante ha travasato tutte le sue cono scenze teologiche, filosofiche, scienti fiche ». Ora io non so cosa significhi « alta poesia » : è un’espressione che non mi capita mai di usare, perché non vedo cosa vi corrisponda. Ma so che il bagaglio culturale di Dante era di necessità povero rispetto al nostro e che non ne resta nulla. La grande sta gione poetica di cui Dante fu la massi ma espressione consisté, come tutte le grandi stagioni poetiche, nella risco perta della realtà alla luce di un nuo vo sentimento esistenziale. Dante fu tanto maggiore di Cavalcanti o di Guinizelli perché in lui la forza di quel sentimento era tale da investire ogni cosa, perfino, forse, gli oggetti del pen siero. Ma è certo che Dante noi segui tiamo a leggerlo per la poesia e non per la cultura, dato che a quella cultu ra non prestiamo più nessun credito. Ed è anche certo che Dante è un poeta quando fa vivere i sentimenti e le pas sioni, quando rievoca i fatti storici del recente passato o quando descrive il paesaggio toscano; lo è assai meno, e forse non lo è affatto, quando disserta sulle macchie lunari. Ma Preti rimane fermo al suo pre giudizio culturalistico. Un artista in colto, dice, è « rozzo, povero ». No, ca ro Preti, un artista è rozzo e povero se manca di sensibilità, di immaginazione, di sentimenti; insomma, se non è un artista. Villon non credo avesse una gran cultura, ma era ricchissimo di umanità, e questo è bastato a farne un grande poeta. Oggi, come dicevo prima, il compito del poeta si è affinato, è diventato più preciso e quindi più difficile. « La decifrazione del libro interiore » : così Proust definisce questo compito. E ag giunge: « Quanto al libro interiore di tali segni sconosciuti… nessuno poteva aiutarmi con nessuna regola a deci frarlo: perché la sua lettura consiste in un atto di creazione in cui nessuno può sostituirci, e nemmeno collabora re con noi. Quanti si guardano perciò da tale lettura! E a quali duri compiti ci si sobbarca pur di evitare questo! Ogni avvenimento â— fosse l’affare Dreyfus o la guerra â— aveva fornito agli scrittori altrettante scuse per non decifrare quel libro; a essi premeva as sicurare il trionfo del Diritto, ricosti tuire l’unità morale della nazione, mancava il tempo di pensare alla let teratura! Erano soltanto scuse: la ve rità è che essi non avevano â— o non avevano più â— ingegno, cioè istinto ». Anche ai nostri tempi la scusa dell’impegno politico è servita a masche rare il vuoto o l’esaurimento di molte vocazioni letterarie (parlo anche per me). Oggi a quanto pare le cose vanno anche meglio per lo scrittore fallito o esaurito: egli ha a sua disposizione una gamma più ampia di scuse. Gran de successo sembra abbia quella del l’aggiornamento scientifico: lo scritto re deve tornare sui banchi di scuola, deve studiare la linguistica, le geome trie non euclidee, l’etnologia, la fisica nucleare, pena l’irrimediabile invec chiamento del suo mondo e del suo linguaggio. Ovviamente questi studi sono lunghi, durano anni e anni; anzi, non finiscono mai, perché la scienza nel frattempo progredisce ed esige nuovi aggiornamenti. Lo scrittore è così liberato una volta per sempre dalla fatica di scrivere. Nessun dubbio che a uno scrittore in cerca di scuse le idee di Preti riusciranno graditissime. Letto 1229 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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