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LETTERATURA: I MAESTRI: Luigi Russo. Una sera a cena con Luigi Russo

28 Novembre 2015

di Giulio Cattaneo
[da “La fiera letteraria”, numero 42, giovedì, 17 ottobre 1968]

« Chi è lei? » domandava una voce stentorea da un marciapiede all’altro e la voce veniva da un uomo alto, imponente, dagli occhi neri, grandi e splendenti, da saraceno, sotto un cappello a lar ­ghe falde: da Luigi Russo, ordinario all’Università e alla Scuola Normale Superiore di Pisa. « Chi è lei? » e dopo la risposta attaccava subito discorso: « Ho avuto un attendente che portava il suo nome ». « Chi è lei? » chiedeva sempre con lo stesso volume di voce Luigi Russo mentre sbandava pericolosamente dentro un autobus af ­ferrandosi vistosamente ai sostegni prima di ab ­battersi con tutto il suo peso su un sedile. E poi: « Ah, mi pareva. Lei è amico di Zumbelli. Mi spieghi perché il suo amico scrive quegli articoli sconcertanti, non certo per originalità di pensie ­ro ».

La voce di Russo era riconoscibile a grandi di ­stanze perché lui non la risparmiava minima ­mente. « Vigile, si può passare? » gridava a una guardia intenta a fare segnalazioni con la dignità di un direttore d’orchestra senza curarsi di ri ­spondere. Ma Russo, che soffriva di agorafobia e attraversava malvolentieri la strada se non si sentiva protetto da una guida, non demordeva e sempre più agitato continuava a interpellarlo: « Vigile, si può passare? ».

Si fidanzi si fidanzi subito!

La gente sdraiata al sole in un bagno di Mari ­na di Pietrasanta poteva ascoltare un giorno pa ­rola per parola, una sua telefonata da una villet ­ta a una certa distanza dalla spiaggia: la telefo ­nata si concluse con una raccomandazione che parve una bombarda: « E ricordati che si tratta di una informazione strettamente riservata! ».

La sua voce era in certi casi temutissima per ­ché Russo aborriva il sussurro e tutto quello che aveva da dire lo sparava senza curarsi dei pas ­santi. Così, incontrando per la strada un giorno dell’agosto ’44, subito dopo la liberazione di Fi ­renze, un collega che per tutto il corso della guerra era stato moderatamente favorevole all’Asse, lo investì con un dito puntato: « Tu, nazi ­sta! Tu eri un seguace dello Hitler! » e così avan ­ti mentre l’altro se ne andava spaurito, con la co ­da fra le gambe, temendo spiacevoli reazioni del ­la gente che si fermava a sentire. « Dicono che lei è un pederasta! » così si rivolse a un attem ­pato conoscente: « Si fidanzi, si fidanzi subito! ». E a un’allieva, in piena aula universitaria: « Lei mi fa la corte! Si ricordi che io ho moglie! ». Nes ­suna intenzione di denunciare al pubblico ludibrio il professore fascista, l’amico calunniato e la scolara civetta ma solo un parlar franco fra due persone: consiglio, ammonimento o rimprovero privato.

« Lei è uno scettico e un ateo » rimbrottava un giovane filologo che pure stimava come stu ­dioso: « E’ un vero fiorentino e a me non piace Firenze ». Russo abitava a Firenze da molti anni ma diceva di non amare quella città pettegola, arida e miscredente, lui che aveva sempre con ­fessato di soffrire per « questo ateismo diffuso e trionfante della civiltà contemporanea, dissimu ­lato e medicato da certo formalismo cattolico ».

Negli ultimi anni viveva a Marina di Pietra ­santa dove lavorava con maggiore tranquillità e di tanto in tanto arrivava a Roma per qualche riunione all’Accademia dei Lincei. Alloggiava al ­la foresteria dell’Accademia e andava a mangiare in una trattoria di via della Scala a pochi passi dalla Lungara. Era una trattoria modesta, fre ­quentata da operai, dove si servivano ottimi bu ­catini « alla macellara » e, a giorni, pesce insoli ­tamente fresco. Russo vi entrava accompagnato dalla moglie dopo aver dato convegno ai figli, al ­le nuore e a qualche amico. L’inconveniente principale di quella trattoria era, d’inverno, la mancanza di riscaldamento e, una sera in parti ­colare, una splendida esibizione di pesci, di cro ­stacei e di molluschi sotto ghiaccio in una barca colorata, nella quale si materializzava fastosa ­mente il giusto orgoglio dell’oste, portò anche per la suggestione visiva di quei rosa e argenti freddi l’atmosfera dell’ambiente a una tempera ­tura polare.

Quando i tavoli della saletta all’ingresso erano tutti occupati, Russo e i suoi commensali si siste ­mavano in una specie di grande capanno al cen ­tro di un cortile, di un gelo assoluto e sopranna ­turale, malamente insidiato da una vecchissima stufa elettrica. Se qualcuno rabbrividendo do ­mandava « Lei viene sempre qui? », Russo ri ­spondeva « Io sono fedele » ed era vero: fedele alla sua terra di origine, agli amici e ai maestri. « Io ho cominciato a disistimare un letterato, perché arrossiva tutte le volte che gli ricordavo il suo paese tutto di creta e appoggiato a rozzissi ­me pietre. Ricordavo Foscolo e Ulisse e la sua Itaca petrosa, il Verga e la sua casa del Nespolo, il                 Carducci e la capanna di sua madre vassalla, perché piamente alle dèe della Poesia e della Sto ­ria non favella chi la patria oblia. »

Russo non dimenticava le persone verso le quali aveva debiti di riconoscenza e, in tempi in cui chiunque avesse avuto rapporti con Gentile si guardava bene dal parlarne, lui, crociano e an ­tifascista, deprecava il silenzio che era sceso sul filosofo come un segno negativo di un paese de ­mocratico. Quando morì Bottai, scrisse alla vedo ­va una lettera che pubblicò su Belfagor ricordan ­do le ragioni per le quali gli aveva conservato gratitudine.

Appena seduto a tavola Russo si informava su un piatto già pronto e se lo faceva portare di cor ­sa perché era di pressione bassa e aveva bisogno di mangiare subito. Raccontava poi tante storie, alternando passato e presente, episodi dove spes ­so faceva una bella figura e in questa compiacen ­za dei propri gesti e detti memorabili era l’unico motivo in comune con De Robertis oltre a qual ­che antipatia per le stesse persone. Non aveva segreti per nessuno e parlava dei concorsi dei quali era commissario e delle sue intenzioni a proposito. Si riscaldava con grande facilità, da quell’uomo di passione che era, pronto agli entu ­siasmi e alle collere e, dolendosi dei suoi contra ­sti con un collega e dei presunti raggiri dell’al ­tro, si infervorava sempre più fino a bollarlo di feroci epiteti con violentissimi scoppi di voce, trasformando quell’austero studioso, rattrappito e squallido, in un nemico tracotante: « Quel ribal ­do di Zumbini! ». Erano queste le impennate che in anni più giovani lo portavano a gesti cla ­morosi come quando, per un malinteso politico, sfidò a duello Pasquali. Un duello nel quale, se avesse avuto luogo, il saraceno Russo sarebbe stato Agricane alle prese con Archiloro: lui con l’agorafobia a menar fendenti in uno spiazzo e Pasquali miope, con una mano stretta a una cavi ­glia e saltando su un piede solo come gli accade ­va in momenti di eccitazione.

A tavola Russo parlava molto rievocando con vivezza di rappresentazione storie piuttosto di ­vertenti di sé sfollato in campagna al tempo dei tedeschi e di Gadda che era capitato nella stessa casa e molto temeva che i colori accesi dei vestiti delle ragazze Russo attirassero la pericolosa at ­tenzione degli aviatori angloamericani abbagliati da quei rossi e da quei gialli in movimento sul verde delle colline e dei campi. C’era da ramma ­ricarsi che Russo insieme alle ben note qualità di storico letterario e di moralista non avesse abba ­stanza sfruttato la sua abilità di narratore, di ar ­guto e ingegnoso memorialista come risulta del resto in certi ritrattini delle sue noterelle e schermaglie o in qualche scorcio delle opere maggiori. Alla fine della colazione Russo chiama ­va il cameriere e faceva cenno alla moglie di pa ­gare il conto e mentre la signora apriva la borsa per estrarre un lungo portafoglio lui raccontava che a Parigi, notando di fronte allo stesso atto una certa sorpresa nel cameriere, gli aveva ru ­morosamente spiegato col suo accento siciliano « Je suis le gigolo de ma femme ».

Non gli piaceva il divorzio

Era il momento del sigaro e Russo ne fumava di voluminosi, bagnandoli abbondantemente e di ­sfacendoli fino a ridurli più o meno in poltiglia Da vero patriarca si compiaceva della moglie, dei figli e dei nipoti; aveva il culto della famiglia rat ­tristandosi alla notizia di coniugi che si fossero divisi e rallegrandosi di matrimoni e nascite. Se gli parlavano di una gravidanza accidentata subito tuonava con competenza: « Le primipare han ­no quasi sempre difficoltà come queste ma poi i figli vengono benissimo: il primo, il secondo, il terzo, il quarto e il quinto! ». Augurava figli ma ­schi ma se nasceva una femmina aveva in serbo un proverbio Veneto: « In casa dei galantuomini prima le donne e poi gli uomini ». Fra le battaglie laiche alle quali partecipò sempre in prima fila quella per il divorzio non lo avrebbe avuto appassionato paladino.

Anticlericale, figurava amico di alcuni buoni cattolici dei quali diceva di rispettare la fede e del cattolicesimo gli piaceva il fasto cerimoniale, godendo del battesimo di un nipote da parte di un alto prelato in una bene addobbata cappella vaticana. Proprio dal Vaticano spedì una cartoli ­na a un amico adattando per la circostanza versi del í‡a ira (« Da le ree Tuglierì del Vaticano / Ove Luigi inginocchiossi a i preti ») e chiese an ­che la firma a un monsignore che lo accontentò senza batter ciglio. Anche questo era un aneddoto che era solito raccontare a lode del monsignore ma aggiungendo a proposito delle « Tuglierì vaticanesche: « E sono veramente ree! ».

Russo sentì sempre, e soprattutto negli ultimi tempi, il bisogno di definire se stesso, di rivedere criticamente il proprio cammino di studioso, di moralista ed educatore; le ristampe dei suoi libri a cominciare dalla giovanile Vita e disciplina militare, erano una occasione per scriverne e giudi ­carli a distanza di decenni. « La ristampa dei vecchi libri non vale solo di lusinga psicologica per l’autore, ma giova a chiarire la prospettiva storica della propria operosità all’autore stesso e a segnalargli la strada per la sua più prossima carriera mentale ». Così parlava dei suoi esordi, dal volume sul Metastasio, un lavoro « scelto freddamente » per esercitarsi « su un argomento e su un poeta, alienissimo » dal suo gusto e tem ­peramento, ai saggi sul Verga, sul Di Giacomo e ai profili dei narratori fra Otto e Novecento.

Parlava poi del trapasso da quelle letture di scrittori contemporanei, in grave sospetto presso i docenti universitari, alle ricerche sempre più estese sul Rinascimento e poi sulla letteratura italiana di tutti i secoli interamente percorsa in quarant’anni di lavoro. « Orientato fin dagli inizi verso forme storiche di indagini, e non di puro estetismo o di dottrinarismo estetico », discepolo di un Croce « direttamente innestato in De Sanctis », Russo dll’insegnamento crociano accentuò l’aspetto storicistico, fu sempre attento al conte ­nuto etico-politico di un’opera d’arte e fino da giovane imparò per suo conto quanto fosse istruttiva la « fenomenologia del brutto » per « intendere il chiaroscuro della storia ». « Noi preferiamo parlare di critica integralmente stori ­ca, o se piace meglio di critica storicistica, se s’in ­tende per storicismo non il corpo dei filosofemi storiografici, ma l’”animus”, lo spirito segreto, il ”sancta sanctorum” di tutto il nostro interpreta ­re ».

Preparava con scrupolo ogni lezione

A questo storicismo Russo fu sempre fedele e la sua preoccupazione costante, come si vede per esempio nei Prolegomeni a Machiavelli, fu quella di correggere storicamente anche le interpreta ­zioni partigiane e qualche volta astoriche di grandi maestri da lui amati come il De Sanctis e il Carducci.

Assertore della « politicità trascendentale di ogni opera letteraria », fu ostile al « politicismo » di certi « ritorni al De Sanctis » annunciati soprattut ­to negli Anni Cinquanta da storici di orientamen ­to marxista che Russo vedeva non meno perico ­losi degli avversati critici stilistici. « Ma valga anche cotesta loro posizione [dei critici stilistici] per i suoi benefici, indiretti, se può trattenere l’irrompere eroico, ma troppo facile e meccanico, di certo politicismo, che si viene affermando e auspicando da varie parti, il quale vorrebbe inve ­stire tutta la stessa storia della letteratura, e sommergerla, con un processo di meccanizzamento, nella politica. Vero è che tale inclinazione si dimostra soltanto nei meno dotati ».

Come insegnante fu appassionatissimo e si pre ­parò fino all’ultimo con grande scrupolo alle le ­zioni scrivendole qualche ora prima di entrare in aula. Gli piaceva discutere con gli allievi, sempre infervorandosi, e a lezione, leggendo le sue pagi ­ne ma continuamente prendendone spunto per aggiunte improvvisate e chiarimenti, esigeva da ­gli alunni attenzione e rigorosa disciplina.

Agli esami era severo e faceva strage di stu ­dentesse che lo amavano ma lo temevano molto per le sue sfuriate e un prete impicciato fra i grandi Guidi della letteratura italiana, quando uscì a dire « Guido da Verona », fu cacciato al gri ­do di « Fuori, prete inverecondo! ». La scuola fu uno dei suoi pensieri dominanti e la sua situazio ­ne di crisi insanabile, sulla quale Russo si arro ­vellò per tutto il periodo dopo la guerra, finì per condizionare in gran parte i suoi atteggiamenti politici.

Sono note le feroci polemiche coi vari ministri della Pubblica Istruzione, a cominciare da Gonella, e le sue invettive contro la decadenza della scuola di Stato insidiata da mille mali politici, morali, finanziari nelle pagine di Belfagor, la ri ­vista dove pubblicava i suoi saggi di storia lette ­raria e i suoi sfoghi di moralista e della quale Russo con orgoglio magnificava la puntualità. Quello che più colpisce in Russo oggi è la sua qualità di scrittore robusto e saporoso che, secon ­do una spiccata inclinazione stilistica, utilizza e paragrafa passi dei prediletti classici italiani, da Dante al Parini e al Carducci ma soprattutto Boccaccio, spesso per una specie di « vezzeggia ­mento amaro-ironico ».

Il linguaggio cifrato dei critici di più genera ­zioni ha costituito sempre per Russo un buon pa ­scolo per le sue osservazioni spiritose, nel « biso ­gno segreto di preparare un precoce ”archivium” per gli storici e gli eruditi dell’avvenire ». Scrive ­va a proposito degli ermetici: « Pure la curiosità di certo loro linguaggio critico ci diverte nelle nostre ore di vacanza, e non manchiamo di anno ­tarlo nella memoria tenace. Ascolto di Mesirca, Resistenza di Borlenghi, Urgenza di Matacotta, Cauto omaggio a Carlo Bo, Scheda segreta su Al ­fonso Gatto, Codicillo su Fallacara, Processo di Moravia (e perché non anche Fedina di scrittori nuovi?), Inventano di una poetica, Logica gero ­glifica di Vigorelli, Condizione di Sinisgalli, Stato di Quasimodo, Posizione di Sandro Penna, e via discorrendo. » Manca il « ringraziamento a… » di origine serriana ma abbondantemente ripreso nella stagione ermetica e « Invito a… » che face ­va inferocire anche Gadda: « Invito a Poulet si ­gnifica soltanto: Io invito Poulet a colazione! ».

Alla terminologia critica Russo fu sempre at ­tento, sbuffando spesso sulla « tematica » e la « problematica » che costellavano gli scritti dei giovani e quando lesse in un articolo destinato a Belfagor la parola « mercificazione », appena in ­trodotta nella critica letteraria italiana dopo la traduzione dei saggi di Adorno, subito si mise a strillare: « La merdificazione! ». Fra i tratti più gustosi di Russo prosatore sono gli schizzi pole ­mici di certi personaggi ridicolizzati con immagi ­ni fantasiose ma azzeccatissime, con un fonda ­mento di verità travestita in modi burleschi. Così per Arrigo Cajumi:

« Io qualche volta mi sono illuso di incontrarlo in qualche cittadina del Delfinato, dove anni fa avevo l’abitudine di villeggiare, in qualche far ­macia o in qualche caffeuzzo estivo, o rifugio di alta montagna, e di sentirlo spropositare sdegna ­to in mezzo ad un coro di piccoli-borghesi france ­si assenzienti, suoi pari, contro tutta la letteratu ­ra italiana che essi e lui non conoscono… Una volta un piccolo-borghese, viaggiando io sui treni piemontesi, mi chiese se conoscevo Arrigo Caju ­mi; Uhm!, feci io, e quello mi disse: ”E’ il nostro Giovanni Papini, ma un Papini più alla mano, che parla anche bene il francese”. Mi venne in mente quel personaggio di un romanzo giovanile di Pirandello, Il turno, quando don Pepé Alletto, inebriato dai complimenti che gli piovono a de ­stra e a manca per il modo come comandava le danze e come suonava il pianoforte, irresistibil ­mente scappa a dire: «”So anche il francese” ».

Luigi Russo, invecchiando, aveva molto tem ­perato la sua naturale irruenza e si era un po’ al ­la volta riconciliato coi suoi avversari per quanto facesse presto a incollerirsi di nuovo. Verso uo ­mini che aveva combattuto negli anni roventi eb ­be in seguito una considerazione più obiettiva e su De Robertis che era stato il suo « idolo pole ­mico » si espresse in più occasioni con rispetto, ricambiato in modo analogo dall’altro, finché si incontrarono passando qualche ora insieme, risa ­lendo tutti e due alla stima originaria. Da allora Russo era solito chiedere notizie del De Robertis per sapere come stava « umanamente ».

Sempre irato ma maligno mai

Se Russo commise errori, e ne commise certa ­mente, fu sempre per impulso passionale e non per calcolo anche se offriva il destro agli avversa ­ri di attaccarlo con buoni argomenti e con mali ­gne insinuazioni per la messinscena e il clamore dei suoi atti come quando passò improvvisamen ­te nel ’48 dalle colonne della Voce repubblicana a quelle de L’Unità e subito dopo l’aspra denuncia del totalitarismo rosso equiparato al totalitari ­smo nero aderì al Fronte Democratico Popolare. Ma, franco come sempre, Russo in quella occasio ­ne pubblicò tutti insieme in Belfagor gli articoli che documentavano questo brusco trapasso giu ­stificandolo al solito con feroci battute polemi ­che. Non rinunciò comunque, nelle nuove posi ­zioni assunte che mantenne fino all’ultimo, al suo spirito critico e, al ritorno da un viaggio in Ro ­mania nel ’56, parlò del « desiderio dell’indipen ­denza di questi paesi orientali dal governo di Mo ­sca » quando i comunisti non vedevano certo con favore i nuovi « corsi » e non deploravano l’erro ­re degli interventi armati.

All’inizio dell’estate del ’61 Russo pareva di umore eccellente e nella trattoria di via della Scala, ora piacevolmente fresca, ripeteva allegra ­mente agli amici: « Crepo di salute! ». Questo è l’ultimo ricordo di lui perché dopo poco tempo moriva improvvisamente nella casa di Marina di Pietrasanta.

Era stato un vero maestro, un letterato e uno scrittore di notevolissime qualità, un uomo ap ­passionato e generoso. Sul suo carattere « empio e riottoso », « petulante e insopportabile », da arcidiavolo, Russo scherzava spesso e il ritratto a lui più assomigliante è proprio da cercare nelle sue pagine sparse, come in quella dedica della Critica letteraria contemporanea dove riecheg ­giava l’amato Alfieri: « a voi pure, amici e nemi ­ci, scolari e non scolari, che avete sofferto delle mie irruenze e dei miei maltrattamenti critici, dei quali, a dire il vero, il primo a crucciarsi e qualche volta a mortificarsi è stato il vostro, a suo modo affezionato, sempre irato, ma maligno mai, Luigi Russo ».


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Bart