di Manlio Cancogni
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 27 marzo 1969]
Gordon Pirie, il mio cane, avrebbe compiuto, quattordi ci anni in agosto: una bella età per i cockers, razza de licata che s’ammala facil mente di fegato, d’occhi e d’orecchi. Nati per la caccia fanno invece vita sedentaria, comoda, mangiano troppo, in grassano, e a dieci anni si muovono a fatica, mezzi cie chi e spelacchiati.
Gli avevo messo quel no me in onore di un atleta in glese, un fondista, che al l’epoca, il ’55, sembrava de stinato a grandi imprese. Era invece un bizzarro che pre tendeva far di testa sua, in viso ai colleghi, che lui snob bava, agli allenatori, al pub blico. Vinse delle corse, bat té dei records, ma nelle prove principali (Olimpiadi, campionati d’Europa, etc.) fu sempre sconfitto. Colpa del carattere, individualista, su perbo.
Anche il nostro Pirie era un indipendente. Diciamo an zi, per essere sinceri, un gran rompiscatole (gli amici, che non lo potevano soffrire, si meravigliavano ch’io lo te nessi); ma forte, instancabile. Anche da vecchio non dava pace, voleva sempre giocare. Lo portavi in campagna, ti fermavi per riposare, e lui pretendeva che gli si tirasse un sasso, una pigna, un pez zo di legno, voleva ancora correre. Se no, abbaiava, a non finire (latrati che parevano colpi di bastone sul cervello) mostrava i denti. Li aveva ancora tutti, pronti ad azzannare chiunque, amici e nemici.
Soltanto per l’umore si po teva dire cambiato. Negli ultimi mesi stava volentieri so lo. Per esempio non dormiva più nella nostra camera (diritto che aveva conqui stato dopo lunghe lotte); s’era fatto la tana nel ripostiglio vicino alla cucina, fra le valige e le scarpe. « Invec chia », dicevamo, con tristez za, e forse con una punta di attesa. Il mutamento s’era ac centuato specie dopo l’arrivo in casa di un nostro nipoti no. A volte sembrava addi rittura che ci ignorasse. Quan to al bimbo, guai se gli s’av vicinava per toccarlo, afferrargli il collare. Non voleva confidenze da quel coso, quel l’intruso; si ribellava, arricciando minaccioso il labbro superiore. Un vecchiaccio rin ghioso, nemico delle novità, dei giovani.
E’ accaduto si può dire al l’improvviso. Da qualche giorno stava un po’ male di pancia, ma niente di grave era capitato altre volte. Non c’era stato il tempo di por tarlo dal veterinario, non ci avevo nemmeno pensato con tutto quello che c’era da fa re in casa. Eravamo in par tenza, si andava in vacanza, una lunghissima vacanza sul la neve col bambino, erava mo tutti eccitati. Sarebbe sta ta una bella noia se il cane fosse andato ad ammalarsi proprio ora, alla vigilia. Ma, l’ho detto, non c’era ragione di allarmarsi, pareva un sem plice disturbo intestinale.
Era l’ora di cena (il bim bo già a letto, zitto, il cane nella sua tana); io, mia mo glie e il Tono, l’amico del piano di sotto, ci stavamo mettendo a tavola davanti al la minestra; e intanto Pirie usciva nel corridoio avvian dosi verso l’andito. «Dove vai? » penso col cucchiaio già in mano; e d’un tratto sento un tonfo. «Pirie, che succede? » Annaspava con le zampe in aria, e lì per lì ho creduto che fosse scivolato sul parquet lucido, e nel tentativo di rialzarsi scivolasse ancora, come in un cartone animato.
Ma la cosa si prolungava, e allora mi sono alzato, gli sono andato accanto, in ginoc chio « Pirie? ». Anche mia moglie e il Tono erano accor si, mi stavano alle spalle, spa ventati. Pirie continuava ad agitarsi, sdraiato su un fianco, la bava alla bocca, gli occhi stravolti.
L’accesso è passato, ma lui non accennava a rialzarsi. Lo carezzavo piano sulla testa. « Pirie, Pirie… ». Cercavo di parlargli. « Ora passa, è già passato… ». Lui non mi vede va, gli occhi erano fissi altro ve, e dentro uno spavento terribile. Intanto mia moglie e il Tono, di là, cercavano l’indirizzo di un veterinario.
Continuavo ad accarezzar lo. Sembrava più tranquillo, e d’un tratto ha preso a battere i denti, aprendo a scatti le mandibole, mentre la bava lo soffocava. « Muore », ho det to. Mi pareva assurdo. Era un pezzo, per via dell’età, che pensavo alla sua morte. Sa rebbe accaduto quando era vamo in campagna, nella casa di Camaiore, senza sofferenze, naturalmente. L’avremmo sep pellito in un campo, avevo già scelto il posto, un breve pianoro, un tempo coltivato a granturco, in faccia alla casa, e dalla parte opposta, il bosco di acacie, ontani, aceri.
Il veterinario (infine se n’è trovato uno) non ha avuto molto da dire. Pirie si lasciava toccare, palpare, guardare negli occhi (un tempo sareb be stata la fine del mondo, per tenerlo c’era da legarlo) senza reagire, senza un gemi to. La diagnosi? Una crisi epi lettica. La causa? Un’intossi cazione, un’enterite; e poi l’età. Il veterinario, seduto sui calcagni, guardava con com passione quel rottame. E noi a dirgli: « Ma è stato sempre bene, fino a oggi si può dire; ha sempre mangiato, bevuto, non aveva nulla, correva ». Come se ci giustificassimo. Ma di che cosa poi? Il vete rinario taceva, continuando a guardare il suo malato. Forse non ci credeva, o addirittura ci accusava, tacitamente, d’a verlo trascurato. Gli ha fatto un’iniezione sedativa, prima di andarsene ci ha lasciato l’in dirizzo della clinica universi taria dove avrei dovuto ac compagnare Pirie l’indomani. Una seccatura; avevamo deci so di partire presto. Proprio ora dovevi andare ad amma larti vecchio stupido!
Andato via il veterinario mia moglie ha accompagnato Pirie nel suo stambugio (pa reva calmo ora) l’ha chiuso piano dentro. L’ho sentito rigirarsi, cercando la posizione migliore, come le altre sere.
Intanto io e il Tono si chiacchierava. « In fondo â— diceva l’amico â— ha fatto una bella vita, non si può lamen tare ». E così abbiamo comin ciato a rievocare le gioie di cui l’aveva gratificato la sor te: dei buoni padroni, un’esi stenza varia, viaggi, vacanze, cibo eccellente. All’ultimo, sì, c’era stato quel dispiacere del nipotino; ma fino ad allora, che pacchia!
Così si diceva; e come ac cade quando si parla di uno che è morto o sta morendo nella camera accanto, tutto di lui ora ci appariva bello, fe stoso, anche gli episodi che allora, come la volta dell’in vestimento, ci avevano rattri stato. E poi si sa, bisogna pur morire.
Anche mia moglie s’era uni ta alla conversazione. « Ti ri cordi quel giorno sul Ticino quando riuscì a scalare la scarpata a strapiombo? Nem meno Bonatti, nemmeno Mae stri ci sarebbero riusciti. E quando si tuffava sott’acqua come una lontra a raccoglie re i sassi? Mai visto un cane simile. E che canaglia in cu cina! ».
Fra un discorso e l’altro ten devo l’orecchio. Mi pareva di sentirlo rigirarsi sul pavimen to nella sua tana. Era stato tutto davvero così bello come diceva? E poi quando si arri va a un certo passo che se ne fa uno del passato, anche se di felicità, di gloria?
Come affanneggiava, come gli batteva il cuore al mattino, presto, quando gli ho aperto la porta per prenderlo e portarlo via. Di certo, du rante la notte, aveva avuto un altro attacco. Se ne vedevano segni dappertutto. Non ha reagito quando gli ho messo il guinzaglio e piano piano (io tiravo) mi ha seguito nel cor ridoio, nell’andito, per le scale.
Giù aspettava l’automobile. Ce l’ha fatta a salire, e per un vecchio riflesso, con un ultimo sforzo, s’è arrampica to sul sedile, accanto, il mu so posato sul mio ginocchio destro. Di lì non s’è più mos so; respirava piano ora, sem brava assopirsi.
E’ stato bravo. E’ sceso da solo. Camminava piano (e so lo perché lo tiravo « Su, co raggio, ancora un poco »), ma camminava, sulla neve ghiacciata, sulle zampe incer te che apparivano più magre per il pelo bagnato che gli s’appiccicava alle ossa. Così abbiamo attraversato il corti le della clinica, interminabi le, abbiamo salito la breve rampa di scale. In attesa del nostro turno, s’è accucciato vicino alla porta dell’ambula torio; io sedevo su una pan ca, le mani in mano. S’è fat to presto. Prima di venire via ho chiesto all’infermiere di conservarmi il guinzaglio e il collare.
Stamani, vicino all’alba, al lo svanire del sonno, l’ho so gnato. Ho sentito un lamen to, flebile come il pianto trat tenuto di un bambino, l’ho visto entrare dalla porta soc chiusa del salotto, accovac ciarsi piano sotto la parete, il muso appena sollevato. Era diventato piccolissimo, un vec chio cane in miniatura, quasi completamente bianco, e dalla bocca, appena dischiusa, fra le gengive sdentate, di un rosa pallido, usciva quel lamento, quel pianto appena percettibile. L’ho raccolto da terra, mi stava tutto nella mano, me lo sono accostato alla guancia, per consolarci. « Pirie. Pirie… » piangevo.
Un interprete dei sogni di rà forse, alla luce della psi cologia contemporanea, che quella trasformazione, quella piccolezza, è il simbolo del mio senso di colpa, un’allu sione al piccino, al nipote, che negli ultimi tempi gli ave va rubato il posto. Io spero che sia un suo invito a ri cordarmi del tempo in cui era entrato nella nostra casa (lo potevo giusto tenere con una mano, mi stava nella ta sca dell’impermeabile) quan do eravamo tutti per lui, noi, le figlie, e sembrava non ci fossero limiti alla tenerezza, all’amore.