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LETTERATURA: I MAESTRI: I diamanti

8 Settembre 2018

di Roberto Ridolfi
[dal “Corriere della Sera”, sabato 24 gennaio 1970]

Un giorno dello scorso set ­tembre mi trovavo a Salso ­maggiore, nel parco del Por ­ro. Salivo per la viottola che va alla parte alta del poggio, dove la natura è meno sna ­turata dall’uomo e dove due anni prima m’ero incontrato con un leprotto. L’incontro, che raccontai in una di que ­ste prose, ha poi avuto un seguito: ogni volta ch’io tor ­no nell’amabile cittadina ter ­male a curarmi l’anima col pretesto del corpo, i miei gusti selvatici mi riconduco ­no, non senza alterne vicen ­de, a cercar la bestiola, ad appostarla, a tentar di farme ­la amica, aiutandomi con of ­ferte di mele e d’altre deli ­catezze predilette dalla ghiot ­toneria leporina. Ma tutto questo non potrei raccontarlo ora qui: qui, ora, altro vorrei raccontare: né mi trattiene la tenuità delle mie avventure, parendomi che di tenuità così fatte l’aggravata vita umana oggi più che mai abbia bi ­sogno.

Aveva piovuto tutta la not ­te a rovesci, come Dio l’ave ­va mandata, ma di prima mat ­tina era tornato il sereno e il settembre si faceva bello dei suoi molti incantesimi, il so ­le, a mezza strada fra il me ­riggio e il tramonto, ancora alto, splendeva; nel cielo azzurro, pochi, bianchi stracci di nuvole; l’aria lavata dal ­l’acquazzone, era limpida co ­me un cristallo. Le ultime rondini ora sfrecciavano alte, ora radevano i sassi, i mu ­schi, l’erba della viottola. L’erba era asciutta: ne feci la prova passandovi il palmo di una mano. M’indugiai in quella carezza: la borraccina pareva un velluto.

*

Tre, quattro mesi sono pas ­sati; sono venute le nemiche brume invernali, ed io me ne sto qui a scombiccherar carte nel chiuso del mio scrit ­toio. Ma ecco che sulle carte, come per un magico incan ­tamento, l’incanto settembri ­no ritorna: rifaccio passo pas ­so la strada di quella sera.

Salgo adagio per la viotto ­la, fra le siepi di tamerici: due morbide sponde di spu ­ma verdolina, che sbiàncica sotto il sole. Dove le siepi lasciano un varco, mi fermo per affacciarmi nel folto de ­gli alberi, passando dal caldo asciuttore della viottola asso ­lata al fresco umidore della boscaglia ombrosa: più che respirarlo, quell’umidore me lo bevo a grandi boccate.

Né passar di tempo né variar di luoghi sembrano ave ­re estinta l’antica sete di una fanciullezza vissuta sul mio poggio siccitoso, dove non è che macigno, e la poca terra che in qualche parte lo rico ­pre è fatta anch’essa di ma ­cigno sbriciolato; dove allora non si vedeva una goccia di acqua, se non cadeva dal cie ­lo; dove non c’era acquazzo ­ne capace di dissetare quel pietrisco sitibondo; dove d’e ­state le piante arrostivano e in tutte le altre stagioni sten ­tavano: cresciuto insieme a loro nell’alidore, insieme a loro ne pativo. L’avidità di umori lasciatami da quell’ar ­sura sempiterna m’ha ridotto ad amare e agognare tutto ciò che è umido, acqueo: non soltanto m’affascinano fonti, fiumi, ruscelli, ma ogni pozza dove sia qualche se ­gno di una vegetazione e di una fauna acquatiche; mi de ­liziano, nei boschi, certe poz ­zanghere prodotte da un ge ­mitio d’acqua; mi piacciono persino le nebbie autunnali, che s’indugiano lungo i fossi, gli alberi grondanti, il buon odore di terra bagnata. Quan ­te volte nei miei vagabondag ­gi venatori, ho succhiato avi ­damente i muschi stillanti e i roridi capelveneri!

Salgo ancora, sempre più adagio: guardo gli alberi al di là delle siepi, guardo ogni sasso, ogni ciuffo d’erba, con l’occhio attento del campa ­gnolo e del cacciatore, avvez ­zo alla terra. Ogni volta che ripercorro questa viottola, mi viene fatto di confrontare ciò che vedo e che odo con ciò che ricordo di averci ve ­duto e udito nei tempi an ­dati. Il bosco è sempre più spopolato, orbato di ogni vi ­ta animale: quest’anno, nep ­pure i pochi voli e i pochi canti che ancora vedevo e udivo qui gli altri anni, nep ­pure i pochi insetti che tro ­vavo sul mio cammino in questo punto del bosco; nul ­la, fuorché quelle rondini pel ­legrine, che forse domani se ne anderanno. L’uomo, do ­vunque, ha fatto il deserto.

Soprattutto mi sgomenta la scomparsa delle farfalle: una fioritura animata che soleva aggiungere vaghezza di for ­me e di colori e palpiti d’ali alla fioritura delle siepi, dei prati, dei cespugli. Ed era per me una delizia munger ­mi la memoria, memore di antichi studi, per dare ad ogni specie il suo nome: almeno quando ci riuscivo.

Finalmente, eccone una: svolettano le alucce brune da ­vanti a me, sull’erba e sui sassi della viottola; rallento il passo per non spaventare que ­sta solitaria sopravvissuta. La riconosco subito, appena, ad ali aperte, si posa: è una Pa ­rarge megaera, come volle chiamarla il gran patriarca Linneo, che la tenne a batte ­simo. Megera di nome, bruttacchiola di fatto, mi sembra però troppo insignificante per meritar l’onore di essere chia ­mata col nome terribile d’una delle Erinni. A me, che ho pa ­tito fino dalla mia infanzia di simpatie e di antipatie, è stata sempre stranamente an ­tipatica. E ora, dopo aver tan ­to desiderato di vedere alme ­no il volo d’una farfalla, aver veduto proprio questa m’ha fatto soltanto dispiacere e di ­spetto.

Ma i dispiaceri e i dispetti non finiscono qui: si susse ­guono uno dopo l’altro, come la sera del leprotto si susse ­guivano invece le sorprese piacevoli. Un tempo per que ­sta viottola non passava nes ­suno: o almeno non v’incon ­travo anima viva e non ne vedevo le tracce. Invece, ecco tra l’erba un pezzetto di carta, di quelli che avvolgono le caramelle, poi la busta sgual ­cita e dilavata di una lettera, poi, più su, addirittura un pezzo di giornale stracciato: i consueti segni della civiltà.

Continuo a salire e, all’ul ­tima svolta, m’imbatto in una vecchia dama, che scende: re ­staurata, intonacata, Ridipinta a colori vivaci, ingioiellata, luccicante di gemme come una vetrina del Ponte Vecchio. Un bel modo di acconciarsi per passeggiare nel bosco e acco ­starsi alla natura. Anche que ­sto incontro non fa che accre ­scere il mio malumore.

*

Arrivo in cima, sul pratello dove trovai l’amico leprotto: per fortuna non c’è nessuno. Però, ci sono altre cartine di caramelle sull’erba, ai piedi di una panchina di legno: saran ­no un lascito della vecchia dama incontrata un momento prima; le raccolgo stizzosa ­mente e vado a nasconderle in un cespuglio. Fatta così pu ­lizia, posso sedermi senza più nulla che m’infastidisca dove costei dev’essere rimasta a lungo seduta.

Quiete e silenzio: mi paci ­fico in questa pace. Guardo i poggi lontani, gli alberi vici ­ni: una piccola selva di pina ­stri, un cipresso aguzzo come uno spadone puntato verso il cielo; chino sul prato gli oc ­chi stanchi, che quel tenero verde riposa. Cerco di distin ­guere le varie specie d’erbe: orecchie di lepre, borrana, una solitaria piantina di me ­dica, nata lì chissà come, un gran ciuffo di trifoglio ai miei piedi.

Su quel ciuffo mi sforzo di aguzzare la vista tutt’altro che acuta. Penso a una mia cara donna, che avrebbe saputo già trovarvi l’immancabile quadrifoglio propiziatore (se ­condo il suo augurio) di una fortuna che nessun quadrifo ­glio poté mai propiziarmi. A un tratto, in mezzo al cespo, vedo invece brillare sotto i raggi del sole, con le sue mille luci, il limpido fulgor di un diamante. Mi torna alla men ­te la dama imbrillantata, ri ­masta qui chissà quanto a succhiar caramelle e a la ­sciarne sull’erba le spoglie. Ma ecco che anche altro deve averci lasciato: una gemma, caduta da qualcuno dei suoi troppi gioielli.

E’ soltanto il pensiero di un attimo. Quando mi chino so già, prima ancor di raccoglier ­la: la gemma iridescente mi si liquefà tra le dita: una goc ­cia d’acqua che il folto dell’erba aveva protetto dal sole e dal vento. E non è senza un godimento sottile che palpo tra i polpastrelli quell’umore fresco, lungamente; quasi che dalla pelle avida mi si pro ­paghi di fibra in fibra, a pla ­care l’antica sete, per le mem ­bra aride, fino al cuore riarso.

 

 


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Bart