LETTERATURA: I MAESTRI: I diamanti8 Settembre 2018 di Roberto Ridolfi Un giorno dello scorso set tembre mi trovavo a Salso maggiore, nel parco del Por ro. Salivo per la viottola che va alla parte alta del poggio, dove la natura è meno sna turata dall’uomo e dove due anni prima m’ero incontrato con un leprotto. L’incontro, che raccontai in una di que ste prose, ha poi avuto un seguito: ogni volta ch’io tor no nell’amabile cittadina ter male a curarmi l’anima col pretesto del corpo, i miei gusti selvatici mi riconduco no, non senza alterne vicen de, a cercar la bestiola, ad appostarla, a tentar di farme la amica, aiutandomi con of ferte di mele e d’altre deli catezze predilette dalla ghiot toneria leporina. Ma tutto questo non potrei raccontarlo ora qui: qui, ora, altro vorrei raccontare: né mi trattiene la tenuità delle mie avventure, parendomi che di tenuità così fatte l’aggravata vita umana oggi più che mai abbia bi sogno. Aveva piovuto tutta la not te a rovesci, come Dio l’ave va mandata, ma di prima mat tina era tornato il sereno e il settembre si faceva bello dei suoi molti incantesimi, il so le, a mezza strada fra il me riggio e il tramonto, ancora alto, splendeva; nel cielo azzurro, pochi, bianchi stracci di nuvole; l’aria lavata dal l’acquazzone, era limpida co me un cristallo. Le ultime rondini ora sfrecciavano alte, ora radevano i sassi, i mu schi, l’erba della viottola. L’erba era asciutta: ne feci la prova passandovi il palmo di una mano. M’indugiai in quella carezza: la borraccina pareva un velluto. * Tre, quattro mesi sono pas sati; sono venute le nemiche brume invernali, ed io me ne sto qui a scombiccherar carte nel chiuso del mio scrit toio. Ma ecco che sulle carte, come per un magico incan tamento, l’incanto settembri no ritorna: rifaccio passo pas so la strada di quella sera. Salgo adagio per la viotto la, fra le siepi di tamerici: due morbide sponde di spu ma verdolina, che sbiàncica sotto il sole. Dove le siepi lasciano un varco, mi fermo per affacciarmi nel folto de gli alberi, passando dal caldo asciuttore della viottola asso lata al fresco umidore della boscaglia ombrosa: più che respirarlo, quell’umidore me lo bevo a grandi boccate. Né passar di tempo né variar di luoghi sembrano ave re estinta l’antica sete di una fanciullezza vissuta sul mio poggio siccitoso, dove non è che macigno, e la poca terra che in qualche parte lo rico pre è fatta anch’essa di ma cigno sbriciolato; dove allora non si vedeva una goccia di acqua, se non cadeva dal cie lo; dove non c’era acquazzo ne capace di dissetare quel pietrisco sitibondo; dove d’e state le piante arrostivano e in tutte le altre stagioni sten tavano: cresciuto insieme a loro nell’alidore, insieme a loro ne pativo. L’avidità di umori lasciatami da quell’ar sura sempiterna m’ha ridotto ad amare e agognare tutto ciò che è umido, acqueo: non soltanto m’affascinano fonti, fiumi, ruscelli, ma ogni pozza dove sia qualche se gno di una vegetazione e di una fauna acquatiche; mi de liziano, nei boschi, certe poz zanghere prodotte da un ge mitio d’acqua; mi piacciono persino le nebbie autunnali, che s’indugiano lungo i fossi, gli alberi grondanti, il buon odore di terra bagnata. Quan te volte nei miei vagabondag gi venatori, ho succhiato avi damente i muschi stillanti e i roridi capelveneri! Salgo ancora, sempre più adagio: guardo gli alberi al di là delle siepi, guardo ogni sasso, ogni ciuffo d’erba, con l’occhio attento del campa gnolo e del cacciatore, avvez zo alla terra. Ogni volta che ripercorro questa viottola, mi viene fatto di confrontare ciò che vedo e che odo con ciò che ricordo di averci ve duto e udito nei tempi an dati. Il bosco è sempre più spopolato, orbato di ogni vi ta animale: quest’anno, nep pure i pochi voli e i pochi canti che ancora vedevo e udivo qui gli altri anni, nep pure i pochi insetti che tro vavo sul mio cammino in questo punto del bosco; nul la, fuorché quelle rondini pel legrine, che forse domani se ne anderanno. L’uomo, do vunque, ha fatto il deserto. Soprattutto mi sgomenta la scomparsa delle farfalle: una fioritura animata che soleva aggiungere vaghezza di for me e di colori e palpiti d’ali alla fioritura delle siepi, dei prati, dei cespugli. Ed era per me una delizia munger mi la memoria, memore di antichi studi, per dare ad ogni specie il suo nome: almeno quando ci riuscivo. Finalmente, eccone una: svolettano le alucce brune da vanti a me, sull’erba e sui sassi della viottola; rallento il passo per non spaventare que sta solitaria sopravvissuta. La riconosco subito, appena, ad ali aperte, si posa: è una Pa rarge megaera, come volle chiamarla il gran patriarca Linneo, che la tenne a batte simo. Megera di nome, bruttacchiola di fatto, mi sembra però troppo insignificante per meritar l’onore di essere chia mata col nome terribile d’una delle Erinni. A me, che ho pa tito fino dalla mia infanzia di simpatie e di antipatie, è stata sempre stranamente an tipatica. E ora, dopo aver tan to desiderato di vedere alme no il volo d’una farfalla, aver veduto proprio questa m’ha fatto soltanto dispiacere e di spetto. Ma i dispiaceri e i dispetti non finiscono qui: si susse guono uno dopo l’altro, come la sera del leprotto si susse guivano invece le sorprese piacevoli. Un tempo per que sta viottola non passava nes suno: o almeno non v’incon travo anima viva e non ne vedevo le tracce. Invece, ecco tra l’erba un pezzetto di carta, di quelli che avvolgono le caramelle, poi la busta sgual cita e dilavata di una lettera, poi, più su, addirittura un pezzo di giornale stracciato: i consueti segni della civiltà. Continuo a salire e, all’ul tima svolta, m’imbatto in una vecchia dama, che scende: re staurata, intonacata, Ridipinta a colori vivaci, ingioiellata, luccicante di gemme come una vetrina del Ponte Vecchio. Un bel modo di acconciarsi per passeggiare nel bosco e acco starsi alla natura. Anche que sto incontro non fa che accre scere il mio malumore. * Arrivo in cima, sul pratello dove trovai l’amico leprotto: per fortuna non c’è nessuno. Però, ci sono altre cartine di caramelle sull’erba, ai piedi di una panchina di legno: saran no un lascito della vecchia dama incontrata un momento prima; le raccolgo stizzosa mente e vado a nasconderle in un cespuglio. Fatta così pu lizia, posso sedermi senza più nulla che m’infastidisca dove costei dev’essere rimasta a lungo seduta. Quiete e silenzio: mi paci fico in questa pace. Guardo i poggi lontani, gli alberi vici ni: una piccola selva di pina stri, un cipresso aguzzo come uno spadone puntato verso il cielo; chino sul prato gli oc chi stanchi, che quel tenero verde riposa. Cerco di distin guere le varie specie d’erbe: orecchie di lepre, borrana, una solitaria piantina di me dica, nata lì chissà come, un gran ciuffo di trifoglio ai miei piedi. Su quel ciuffo mi sforzo di aguzzare la vista tutt’altro che acuta. Penso a una mia cara donna, che avrebbe saputo già trovarvi l’immancabile quadrifoglio propiziatore (se condo il suo augurio) di una fortuna che nessun quadrifo glio poté mai propiziarmi. A un tratto, in mezzo al cespo, vedo invece brillare sotto i raggi del sole, con le sue mille luci, il limpido fulgor di un diamante. Mi torna alla men te la dama imbrillantata, ri masta qui chissà quanto a succhiar caramelle e a la sciarne sull’erba le spoglie. Ma ecco che anche altro deve averci lasciato: una gemma, caduta da qualcuno dei suoi troppi gioielli. E’ soltanto il pensiero di un attimo. Quando mi chino so già, prima ancor di raccoglier la: la gemma iridescente mi si liquefà tra le dita: una goc cia d’acqua che il folto dell’erba aveva protetto dal sole e dal vento. E non è senza un godimento sottile che palpo tra i polpastrelli quell’umore fresco, lungamente; quasi che dalla pelle avida mi si pro paghi di fibra in fibra, a pla care l’antica sete, per le mem bra aride, fino al cuore riarso.
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