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LETTERATURA: I MAESTRI: I miti di ieri. Camus

1 Giugno 2017

di Carlo Laurenzi
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 15 ottobre 1970]

Contano davvero i premi Nobel per la letteratura? Ri ­penso a Camus, la cui opera parve durevole o definitiva in una postulazione di infelicità, e che oggi taluni (troppi?) pretendono effimera.

Camus, è vero, ci ha la ­sciato una produzione teatra ­le persino intollerabile, tanto è schematicamente allegorica: dobbiamo sottrarci in primo luogo alla tentazione di giu ­dicare Camus dal suo teatro. Però, attraverso i saggi, i ro ­manzi, i diari, attraverso la sua vita stessa Camus testi ­monia â— forse come nessuno â— le contraddizioni, la dispe ­razione, quell’assurda gran ­dezza che sono apparse pe ­culiari del dopoguerra, fino alla vigilia di questi anni. Spesso, in certi frettolosi pa ­norami letterari, Camus viene giudicato secondo una proie ­zione che lo apparenta a Sar ­tre; ed è un errore da respin ­gere. Per gusto, per poetica e

per ideologia, Camus era di ­versissimo da Sartre; inoltre (ma questo è un particolare esterno) Sartre non è venuto meno, echeggiato da Simone de Beauvoir, al compito di diffamare l’ex-amico scompar ­so. Ciò non toglie che proprio un giudizio di Sartre rimanga il più valido su Camus: «Am ­miriamo in lui la fusione esemplare tra l’uomo e l’ope ­ra, fra il resistente e l’erede di Chateaubriand ».

Su questo piano è il fasci ­no di Camus, con la sua fra ­ternità per noi. Era l’uomo della nostra epoca (e la no ­stra epoca si è chiusa ieri): un albero dalle radici profon ­de, solido negli uragani ma incapace di frutto. Camus cre ­deva a tutti gli inganni e a tutte le dignità del passato: il culto della bellezza, il pre ­stigio dell’arte, la missione del ­lo scrittore, la vocazione alla felicità sulla terra. Povero ma libero, questo francese di Al ­geria, al quale la tubercolosi e la miseria impedirono gli studi accademici, non fu con ­solato forse se non dall’amore della natura. Il successo (qual ­che tiratura da primato, la solidarietà dei giovani nel mondo, il Nobel a quaranta ­quattro anni) gli dette l’agia ­tezza ma non, come è intui ­bile, la felicità; e non riuscì a contaminarlo.

La felicità per Camus, mol ­to semplicemente, sarebbe consistita nella possibilità di verificare i miti liceali o pro ­vinciali in cui non seppe più credere, in cui non sappiamo più credere. L’infelicità di Ca ­mus e insieme la sua poesia nacquero dal peso con cui tut ­to ciò che è « altro » â— la morte, la guerra, lo scientismo, la violenza, il tempo, la ma ­lafede, il rovello della religio ­ne inaccettabile â— schiacciò (schiaccia) questi candidi mi ­ti. L’erede di Chateaubriand, lo stilista malinconico e ine ­briato, sperimentò dolorosa ­mente che il mondo « reale » è il mondo di Kafka. Ma fino all’ultimo, Camus, che hanno assimilato con arbitrio agli esistenzialisti, rimpianse, op ­pose all’alienazione contem ­poranea la misura dell’antica Grecia.

Oggi, ritengo, i giudici di Stoccolma non lo avrebbero premiato. Anche la maniera della sua morte sembra or ­mai fuori moda: Camus, clas ­sico deluso, pagò il suo tributo a un aspetto brutale di un romanticismo non più vigen ­te. Chi non ricorda? Pilotava senza prudenza, probabilmen ­te senza attitudini una Facel Vega; finì fuori strada a duecento all’ora; aveva quarantasette anni. Non è pensabile che guidare a duecento all’ora lo colmasse. La macchina gli era estranea; la temerarietà, forse, lo distraeva appena. (Gli incidenti automobilistici, ormai, non sono che una pia ­ga sociale).

*

Mi ha sempre stupito, in ­vece, che i giudici di Stoccol ­ma non abbiano mai coronato l’opera di poeti come Ponge.

Il grande e puro merito di Francis Ponge sta nella rivol ­ta contro la retorica che ha corrotto ogni esattezza, ogni lindore nascente; Ponge ha voluto agire sul linguaggio, con castità, per liberarlo da « tutte le infezioni acquisite ». Si è indotto a descrivere le cose nella loro « essenza » (contemplando fino a consu ­marli ciottoli, poniamo, e con ­chiglie); si è chiuso in una poesia murata, inorganica â— nel senso, se vogliamo di « mi ­nerale » â—, e un po’ miope.

La poesia di Ponge, lucida e talora non attraente, ha questo di peculiare per noi, per la maggior parte di let ­tori di poesia: che, nei suoi momenti più cospicui o felici, si rifiuta non solo al verso ma alla musica e al ritmo. Altri poeti francesi (Michaux, Char) usano procedimenti simili, talché risulta inevitabile che le loro pagine abbiano più prestigio che fascino. Non si può parlare di prosa d’arte; la poeticità di Ponge consiste piuttosto in una concentrazione rarefatta.

Sartre â— ci si imbatte sem ­pre       in Sartre a causa delle sue chiose fluviali â— fornì anni or sono su Ponge un saggio apologetico ma forzato, nel quale il contemplatore di Montpellier vide attribuirsi la gloria di aver posto le basi di una fenomenologia della na ­tura creando così un’« arte materialista ». Sartre portava acqua al proprio mulino, ed è augurabile che Ponge non lo prendesse sul serio.

*

I miti nei quali non sap ­piamo più credere… C’erano anche cattivi miti, idiozie. A idiozie lontane e colpevoli mi riconduce una lettera del mio amico e compagno di studi Highmore, Martin Highmore: « Ragazzo mio, sono passati trent’anni ».

Che debbo rispondergli?

Martin vegeta in un ranch nei pressi di Bismarck, North Da ­kota, ed è commovente che non abbia dimenticato il suo biennio allo Studium Urbis, come chiamavano allora l’u ­niversità di Roma. E’ un uomo pratico e puntiglioso. Nel 1940, quando studiava legge all’uni ­versità dell’Idaho, ebbe una controversia con un profes ­sore di origine austriaca sul ­l’interpretazione di alcuni testi diplomatici a proposito di una donazione ecclesiastica due ­centesca. Per « vedere a fon ­do nel problema » venne a Roma a sue spese, deciso a consultare le fonti dirette. Al ­lo Studium Urbis il titolare della cattedra di storia del Medioevo, che era senatore del regno, ministro di Stato e accademico d’Italia, si in ­formò, prima di riceverlo, se Martin non fosse per caso ebreo. Martin lo rassicurò.

Il professore, nello spiegare al giovanotto i motivi della sua circospezione, gli confes ­sò che non riusciva a com ­prendere come mai un gran ­de popolo quale l’americano avesse finito per farsi guidare da quel povero Roosevelt, ser ­vo sciocco dell’internazionale giudaica. Aggiunse che, per quanto concerneva l’Italia, l’Uomo della Provvidenza di ­fendeva la stirpe dall’insidia dei crocifissori di Cristo. Lo stesso duce, visitando col pro ­fessore la zona di Monte Savello, gli aveva promesso (e additava la Sinagoga): « Ave ­te ragione, perbacco, quella cupola stona. La mozzeremo, camerata, la mozzeremo ».

Alla fine del colloquio, Mar ­tin, che pure proveniva da un ambiente assai fiero della propria omogeneità luterana, concluse che l’università di Roma era sotto vari aspetti da stimarsi inferiore a quella di Moscow, Idaho: nell’ldaho, aggiunse,- quel nostro docente di storia medioevale â— acca ­demico d’Italia e senatore del Regno â— avrebbe potuto (al massimo, e prima del New Deal di Roosevelt) coprire la carica di governatore di Stato. Ma oggi che potrei rispondere a Martin? Tutto è mutato: il nostro professore di sto ­ria medioevale è morto da tanto, amareggiato dalla de ­mocrazia. E l’antisemitismo? L’altro giorno, su un muro della vetusta Isola Tiberina a pochi passi dalla Sinagoga non mozzata, ho visto cam ­peggiare una scritta: « Viva la Palestina rossa, abbasso i giudei ».

*

Chiesero all’attrice Claudia Cardinale, tempo fa, se fosse favorevole al divorzio; e la Cardinale: « Al cinquanta per cento sì, perché trovo che quando due coniugi non van ­no più d’accordo sarebbe giu ­sto offrire a ciascuno un’altra possibilità. Al cinquanta per cento no, perché mi pare che sia troppo facile contrarre un vincolo sapendo di avere a di ­sposizione, in qualunque mo ­mento, il mezzo di scioglier ­lo ».

Risposta machiavellica? No: spontanea, non cinica, non provocatoria. Semmai, esem ­plare della condizione di un certo tipo di donna italiana, dominata dalla volontà di emanciparsi e, insieme, dalla consapevolezza che le virtù tradizionali risultano ancora fruttuose. Il culto del com ­promesso, la necessità di non scegliere le sono connaturati come il respiro.


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Bart