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LETTERATURA: I MAESTRI: Il capolavoro di Lewis Carroll

20 Settembre 2010

di Alberto Arbasino
[dal “Corriere della Sera”, mercoledì 7 febbraio 1968]

Alice ritorna sempre più spes ­so. Quest’inverno, già due volte. L’editore Sugar ha infatti ripro ­posto Alice nel paese delle me ­raviglie con le tradizionali, mor ­bidissime illustrazioni di Sir John Tenniel. Bambinesche e perverse come tutte le vessa ­zioni perpetrate (coscientemen ­te o no) dall’Ottocento sadico contro i deboli indifesi: bimbi maltrattati in Dickens e De Amicis, soprano doloranti da Donizetti a Puccini. « Milano-libri » presenta invece un’Alice illustrata dai disegni capriccio ­si e dispettosi di Ralph Steadman. Perfidi e macabri come tutta la « grafica della crudel ­tà » nella Londra contempora ­nea, golosa d’irritazioni. Però nessuna figurazione riesce an ­cora a competere con le punte tetaniche dissimulate (volontariamente, o no?) nel gran testo.

L’autore, il Rev. Charles Lutwidge Dodgson, com’è noto, era professore di matematica in un college di Oxford. Aveva tradotto i suoi due nomi di battesimo in latino; Carolus, Ludovicus. Poi li aveva ritra ­dotti in inglese, invertendo l’or ­dine; di qui lo pseudonimo Lewis Carroll. Aveva un hobby spasmodico: fotografare bam ­bine.

Mai maschietti: li detestava. Così come rifuggiva da ogni persona adulta. Il Reverendo era misantropo, balbuziente, ti ­midissimo: era il primogenito di sei sorelline. Si pettinava a bandeaux come Elizabeth Barrett alla vigilia della fuga con Robert Browning, come Oscar Wilde alla vigilia del carcere. Però, ogni timidezza gli passava in compagnia delle bambine; e anche la balbuzie.

Ne conosceva moltissime, ad ­dirittura centinaia. Le incon ­trava ai giardinetti, sulle spiag ­ge, anche in treno; e se ne faceva presentare parecchie da una vedova. Portava sempre in tasca balocchi per divertirle, tortine per la merenda, spille da balia per fermare i vestiti ­ni giocando nell’acqua, una for ­bicina per tagliare i riccioli co ­me ricordo. Quando compivano i quattordici anni, era inesorabile: non le voleva più vedere. Ma intorno ai dieci-dodici anni, le fotografava in tutte le po ­se: piccole fiammiferaie, cappuccetti rossi, pastorelle, cinesine, camerierine. Molte, an ­che, secondo un gusto tipica ­mente deamicisiano: non liete, mai ridenti, spesso piangenti, sofferenti, spaventate in cami ­cia da notte. Non per nulla, viene considerato il miglior ri ­trattista d’infanzia dell’età vit ­toriana: insieme al famoso ba ­rone von Gloeden, che fotografò in vesti di faunetti tre generazioni di bambini a Taormina.

Solo un paio di mamme, ap ­parentemente, s’inquietarono. Si sa: i vittoriani non sentiva ­no mai parlare delle Lolite di Pinerolo o delle ninfette di Saluzzo, e quando vedevano Car ­roll con le bambine, o Whitman coi tranvieri, o Symonds coi gondolieri, generalmente ritene ­vano che si trattasse di ottimi signori, generosi e «molto democratici ». Ma non sarebbe neanche giusto ritenere Carroll un nefando «cattivo signore », probabilmente. Tutta la sua opera indica semmai che si tro ­vava tanto bene in compagnia delle bambine perché «si iden ­tificava » con loro. Si sentiva bambina, come loro, e parteci ­pava senza inibizioni a tutti i loro giochi. Solo al momento delle fotografie, ecco il vero pro ­blema: tenerle ferme per i 4 o 5 minuti necessari alla «posa ».  Ecco dunque l’origine pratica delle fiabe.

Le bambine non ne avevano mai abbastanza: specialmente le preferite, Lorina, Alice e Edith, tre sorelline, di 13, 10 e 8 anni, figlie di un Decano. Co ­stringevano il Reverendo trentaduenne a raccontare storie sempre diverse, illustrandole con disegni sempre nuovi. La loro mamma era scontentissi ­ma, e li bruciava tutti. Si ar ­riva così alla famosa gita sul fiume: 4 luglio 1862. Carroll, un amico, e le tre sorelline, re ­mano fino a una riva riparata. Dopo un buon pic-nic su un mucchio di fieno, in un « dispe ­rato tentativo » d’inventare qualche nuova storia per Alice, il Reverendo immagina che la bambina inseguendo un Coni ­glio Bianco con gli occhi rosa e un orologio nuovissimo nel taschino del gilet precipiti in una tana profondissima dove non si troveranno solo vasi di marmellata vuoti e tavoline di vetro a tre zampe e gatti che mangiano pipistrelli (o pipi ­strelli che mangiano gatti?). Vi si trovano già tutte le fondamenta della Poetica dell’As ­surdo.

Le tre bambine di Oxford assistono a uno spettacolo davve ­ro straordinario, quel pomerig ­gio di luglio; e in anticipo di circa un secolo. Il programma continua a estendersi, quasi mostruosamente, lungo la ge ­nealogia dei dialoghi filosofici sulla natura e le trappole del linguaggio, e magari della vita umana. Basta paragonare il Té del Cappellaio Pazzo con La cantante calva di lonesco, il Campo di Croquet della Regi ­na di Cuori con i nonsensi e le rudezze di Pinter, la villana Cucina della Duchessa coi de ­solati alberghi e negozi di Billetdoux, di Dubillard, di N.F. Simpson… Come se l’eterno malinteso dell’Incomunicabilità si aprisse, ironicamente, con la Quadriglia delle Aragoste, e con la domanda stizzosa del Bruco: « Chi sei, se non sei tu? »…

La lista delle affinità sorpren ­denti pare ormai smisurata, ca ­pace d’includere insieme Beckett e Tati, lo Shaw di Casa Cuorinfranto dove figlie e sorelle si presentano e litigano senza riconoscersi, e il Cechov delle Tre sorelle quando si fa ­voleggia che a Mosca « un mer ­cante ha mangiato 50 torte » oppure « hanno tirato una gran corda da un capo all’altro del ­la città »; e le «parabole di idee » di Brice Parain «mala ­to di parole »; e i messaggi di Radio-Londra durante la guer ­ra, tipo «La tartaruga ha sor ­riso due volte » (intendendo, naturalmente, tutt’altro)… Ec ­co perché Alice non riappare soltanto nelle riedizioni del gran libro. Elusiva e ghignan ­te come il Gatto dello Cheshire, si ripresenta insieme a Strindberg e a Pirandello, su tutti i palcoscenici, a riscuote ­re gli applausi che le sono do ­vuti, a ogni nuovo spettacolo « dell’Assurdo ». E specialmen ­te a quelli di Albee.


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Bart