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LETTERATURA: I MAESTRI: Il centenario di Ada Negri

30 Maggio 2010

di Cesare Angelini
[dal “Corriere della Sera”, lunedì 16 marzo 1970]

Il centenario della nascita d’un poeta fa sempre buona cronaca. Anche questo di Ada Negri (1870-1970), che il Pancrazi, con facile definizione, disse « la maggiore poetessa italiana ».

Parrebbe la buona occasione per domandarci cosa significa la sua presenza nel calendario della poesia d’oggi, fattasi sempre più esigente e inquieta e tutta in rischio. O anche solo per rifare alla svelta sua storia tinta d’acceso colore poetico e d’umana sof-ferenza; che anche questo è un modo di onorarla.

(Intanto Lodi, la città natale, la onora con due belle pubblicazioni dovute alla penna di due suoi concittadini: Il libro di Ada Negri, di Nino Podenzani, Ed. Ceschina, Milano e Ada Negri, di Mauro Pea, Industrie Grafiche, Bergamo. Se il Podenzani ci dà una biografia esemplare, attenta e in ogni momento rispettosa della vita della donna singolare, con quel tanto di misterioso che era nel suo portamento tra di zingara e di regina; il Pea ci offre un saggio critico informatissimo, in cui nulla è trascurato di quanto può darci la giusta immagine della poetessa e la misura del suo valore. Due omaggi suggeriti da un sollecito amore cittadino, come solo la provincia   qualche   volta sa fare).

Ricordiamo la Negri scrittrice di molte prose descrittive di paesi e città (Assisi, Pavia, Capri) e di molte novelle con figure e anime di donne nelle cui vicende spesso trasferisce se stessa. Specialmente nelle Solitarie e in Sorelle, velate anticipazioni di  Stella mattutina dove la dolorante franchezza delle confessioni aiuta la maschia forza della scrittura.

Ma noi non riusciamo a vedere la Negri staccata dai versi: dal verso che fu la sua maravigliosa condanna e l’involucro della sua lunga favola. Poche vite sono state come la sua vissute sui metri, sulle rime e le cadenze. Disse una volta che le pareva sempre di camminare sul ritmo degli endecasillabi.

*

Cominciò presto, se a diciotto anni già ne mandava alla Illustrazione popolare, e formarono il suo primo libro, Fatalità, uscito nel 1892. Temi spregiudicati, mordenti, che scappavan fuori dall’indice come vipere dal mucchio. Lei stessa ne pareva morsicata. Annunziava una vena facile a sgorgar versi e una voce dov’era piena rispondenza tra la parola e l’anima. Lo stampava Treves, il primo editore di Milano; ne parlava il Corriere della Sera; fu subito popolarissima.

Vi concorreva il dato biografico: la maestrina di, Motta Visconti, il paese di Caserio, incavernato tra le risaie e i boschi della Bassa milanese-pavese. Ma più vi concorse il mondo dei suoi canti, che non eran d’amore. Denunziava la società borghese malamente impiantata: e, partendo _ da un’amara condizione familiare chiedeva giustizia per le misere plebi, per le case senza pane, per l’agonia dei vinti.

Temi e toni che continuarono in Tempeste, l’altro elzeviro che, uscito nel 1896, confermava la sua indipendenza dai modelli letterari. Su quali libri aveva imparato  a scrivere e da quali maestri? Nessuna eco di classici; né di viventi, così vicini e imperiosi: Carducci, D’Annunzio, Pascoli. Pareva ignorarli, li ignorava. Tutt’al più, si poteva pensare a un certo Rapisardi, quello incendiario del Canto dei minatori… I suoi versi nascevano dalla forza dell’istinto, dal suo sangue di popolana. «Andarono per il mondo, e parvero campane a martello ». Servirono al primo maggio dei lavoratori, entrarono   nelle scuole. Noi stessi ci ri ­cordiamo ragazzi di ginnasio con la testa piena delle poesie della maestrina socialista. Sicché, questa ci pare una storia vissuta prima che raccontata. Il Croce ne disse piuttosto male nella Critica, con l’effetto di aumentarne la fama, la po ­polarità. Lei stessa, la Negri, confessò più tardi che se fosse scomparsa dopo Fatalità e Tempeste, il suo nome sarebbe passato alla leggenda.

Forse. Ma aveva ancora da scrivere i libri che dovevano passarla alla storia letteraria. Perché, pur con notevolissime doti canore, quei due libretti soffrono d’un equivoco: quello d’una poesia in funzione sociale; poesia rivendicativa, cioè cattiva poesia. La Negri ha patito la giustizia ma non ha  ancora patito la poesia. Nei suoi ultimi tempi, che furono della nostra maggiore frequentazione, non voleva più sentirne parlare.

E noi perché ne parliamo ancora? Perché sono i versi che le hanno dato il nome di  poeta; ed è su questa « leggenda » che troverà spazio â— quando verrà â— la sua nuova poesia.

Quando nel 1904 venne Maternità, il biografo ebbe molte cose da dire, perché molte cose erano entrate nel ­la sua vita: s’era sposata, era diventata madre, aveva divor ­ziato. La maestrina proletaria e agitatrice di Motta era di ­ventata la moglie di un ricco industriale di Biella. Social ­mente cambiava i connotati, a cui era legata quella voce, quell‘immagine della sua poe ­sia. Perdeva la voce, ma ri ­maneva la vena, naturalmen ­te turbata.

La maternità, che non è proletaria né borghese ma di ­vina, le diede altri sentimenti e altri temi. Uno balza su tutti: 1 canti della culla e del ritorno. La donna può torna ­re a Motta Visconti dove sono nati i primi canti; rivedere « la vergine ventenne », e ve ­dersi quant’è diversa. Diver ­sa? La gente continuò a ve ­derla come prima. Anche lei si vedeva ancora come prima: « Sono rimasta zingara nel fondo – del cuore; non si men ­te al proprio sangue ».

Il libro risente della crisi, della certezza perduta; e si di ­sperde nella genericità evasi ­va dei temi, sul giaciglio dei vecchi metri, tra imitazioni pascoliane e d’annunziane ar ­rivate in ritardo. La Negri ha patito la maternità ma non ha patito la poesia.

*

Della crisi risentono anche i libri successivi: Dal profon ­do Esilio, dove tra « un inte ­resse di poesia » come scrisse il Serra, la Negri ha un conti ­nuo bisogno di interrogarsi, di ascoltarsi per sapere chi è: « Chi ora sono, è vana cosa a dire: fragile donna che se stessa ascolta – vivere ». In realtà, si trattava d’una insuf ­ficienza espressiva.

A Maternità, c’è chi ricol ­lega il libro di Mara (1919), il libro della passione incon ­tenuta, della umana sofferen ­za. Si è smarrita una donna, si è salvato almeno un poeta? Una certa novità c’è nel libro: non solo per il lungo verso claudeliano che ha assunto, ma per certe impressioni sin ­cere del vivere e del soffrire femminile, per quel suo amo ­re dell’amore. Ma la cronaca passionale rimane più docu ­mento umano che risultato d’arte. La Negri ha patito l’a ­more ma non ancora la poe ­sia. A cinquant’anni, con una popolarità enorme, e qualità d’artista e molti versi stupen ­di, non ha ancora scritto un libro che, in coscienza, pos ­siamo dir bello. Anche nell’ul ­timo, si torna a fare il solito gioco del ritagliare e isolare il frammento.

Eppure, nella strenua, sin ­cera dedizione alla poesia, c’era il pegno d’un suo sicuro incontro con lei. Come ai tem ­pi di Saffo (il richiamo non vuol essere un confronto) an ­che per la Negri la rivelazione è nell’ultimo canto: in Ve ­spertina (1931) e nel Dono (1936), due momenti d’una stessa felice ispirazione. Ora la poesia non nasce più da occasioni o pretesti esterni, ma da una conflagrazione intima, da un ritrovato accordo tra la vita e l’arte, che è un valore conquistato. Dirà: «Non sapevo che la bellezza fosse sì gran patimento ». Do ­po il lungo, sofferto processo di decantazione, ora dà al suo canto quello che in musica è « il tempo » e in poesia « il grado della emozione » o som ­ma delle esperienze artistiche e umane. La Negri si è arric ­chita, dall’intimo, di una nuo ­va chiarezza: il sentimento re ­ligioso, che entra nei suoi ver ­si come un chiaro lume del ­l’aria. « Campane a gloria, in questa pia domenica – di set ­tembre, che è tutta un volo d’api, – su l’uva, e gioia d’uo ­mini e di sole – nell’attesa che passi la Madonna ». E’ il suo momento mistico, in cui gli stessi motivi di giustizia invo ­cati nel trasmodante impeto giovanile, le ritornano purifi ­cati su un piano di fede e di saggezza religiosa, dentro una unità d’ispirazione che testi ­monia il suo arrivo al riposo dell’anima e dell’arte.

(Che poi ci abbia lasciato o no una qualche eredità da custodire, lo diranno i critici. Certo ci ha lasciato un nome: Ada Negri).


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1 commento

  1. Pingback by Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: I MAESTRI: Il centenario di … — 30 Maggio 2010 @ 14:46

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