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LETTERATURA: I MAESTRI: Il primo albergo

11 Febbraio 2013

di Mario Tobino
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 6 novembre 1969]

Che fare? Dove andare? Quale via prendere?
Una svolta, una decisione fondamentale. Cupe tristezze, deserto. Povero e solo, odiato dagli stessi compagni; la fa ­miglia a Firenze affidata a Gemma Donati, disperato im ­maginare su i suoi bambini.

La sua fantasia â— uguale alle enormi ali di Lucifero â— piomba sul passato, il presen ­te, il futuro, su tutto ciò che trasfigurerà e farà eterno.

Oggi è odiato e sconfitto. Chi lo accoglierà, chi sorride ­rà a lui? Pochi giorni prima l’umiliazione di non poter re ­carsi neppure in Casentino, ai funerali di Romena, l’unico amico rimasto.

Facendosi umile, prometten ­do â— con la malleveria del fratello di passaggio ad Arez ­zo â— riesce a contrarre un piccolo prestito, un gruzzolo appena sufficiente. I viaggi sono lunghi, pesanti, fastidio ­si; l’estate per i poveri ha la compagnia di mosche e ta ­fani.

Dante ha trentanove anni. Dietro di sé una grande espe ­rienza. In Comune è stato al ­le prese con uomini di ogni specie; si dimostrò sottile nel ­le ambascerie. Coi comizi ha valutato la potenza del suo parlare, tutti infiammava, lui stesso diventava più sicuro. Come poeta è quasi celebre. Già accade che, tra l’uno e l’altro atto legale, i notari tra ­scrivano i suoi versi; con ac ­curatezza sulla cartapecora di ­segnano le parole delle sue canzoni.

Anche Cino, Guinicelli, Ca ­valcanti, hanno considerazio ­ne, ma lui ha parlato più alto e schietto, con più ardore, le fanciulle sanno a memoria i suoi versi d’amore, se ne ci ­bano, versi nella lingua di tut ­ti, che suona per le strade.

Dante nell’agosto 1304 â— in quell’estate afosa di delitti; l’ultimo è stato l’avvelenare il buon domenicano, papa Bene ­detto XI â— Dante sceglie la via.

Non vedrà mai più Firenze, la città più bella del mondo.

 

*

 

In questi ultimi mesi, fati ­cando tra foreste, fangosi sen ­tieri, polverose viacce, men ­tre l’attività politica stagnava e i compagni d’esilio reitera ­vano le eterne recriminazioni, i torvi propositi, le vendette ormai quasi stantie, egli così spesso col pensiero tornava su i propri studi, con nostal ­gia riviveva le ore passate a meditare; con smarrimento av ­vertiva le lacune del suo sa ­pere. In se stesso raccolto â— già alieno a quei compagni â— nasceva acuta la voglia di ap ­profondire la filosofia, co ­struirsi un proprio ordine; mettere a fuoco la religione, chiarire i rapporti tra Chiesa e Stato, cosa in assolutezza è il papa e cosa l’imperatore. E diventare padrone dell’astro ­nomia, essere per lo meno a paro con l’Almanacco di Profacio ebreo, con riverenza av ­vicinarsi all’astronomo arabo, ad Alfergano, ai suoi Elemen ­ti di astronomia. Come può uno che nella Vita nuova ha promesso di fare un’opera mai stata nel mondo, non avere confidenza con gli astri, non muoversi tranquillo per le vie del cielo?

Necessario anche toccare con più accortezza le radici del volgare, per il quale tutti, anche gli umili, lo intenderan ­no. Necessario venire davvero a tu per tu con i provenzali, con Giraldo de Bernelh, can ­tore della rettitudine, con Ar ­naldo Daniello. Il gran punto già chiaro è che i provenzali non cantarono solo d’amore, discussero anche di guerra, erano avvinti da passioni civili, da quelle morali.

Affinare ogni strumento, es ­sere il signore di tutta la cul ­tura del proprio tempo.

 

*

 

Finora Dante ha accumula ­to fatti; con che avidità ascol ­tò le storie passate della sua città, gli episodi. Mentre i vec ­chi parlavano vedeva i volti, le espressioni, i gesti, scaturi ­vano le frasi.

E poi lui stesso fu attore a Firenze, un capo, nei comizi, divorato dalla politica, dedito, partecipe alle ire, alle vendette, alla libidine delle fazioni, all’esasperato bisogno dei Bian ­chi â— eredi di Giano della Bella â— di mettere giù nella melma la superbia dei ma ­gnati.

E intanto non trascurava le belle donne, se ne innamora

 

va, peccava di lussuria; batteva spesse volte di notte le taverne.

Ma quando, quando si era davvero potuto dedicare alla serena meditazione?

Un’opera, la grande opera, nasce se si è tutto per lei. Tanti sono i fatti che ingom ­brano la fantasia; si tratta di disporli, filtrarli, innalzarli in architettura, tramutare in can ­to, dalla materia luce.

Adesso, se vorrà attuare, è necessaria la serenità, che qualcuno lo agevoli nei biso ­gni, offra l’indispensabile. E che ci siano i libri, molti glie ­ne mancano; vuoti nella sua dottrina. L’imperativo è non lasciarsi chiudere dalle mura del paese, non offuscarsi, non brancolare come i suoi com ­pagni di esilio. Finire ristret ­to è come prendere la scabbia e grattarsi con ferocia in ­vece di pulirsene. Il bel col ­po è essere internazionali, udi ­re ogni soffio, la rosa dei venti.

E Verona è il nido, la dol ­ce speranza. Dante già l’ha conosciuta per quella volta che ci arrivò prima della bat ­taglia di Pilucciano, a chiede ­re aiuto di fanti e cavalli.

La corte degli Scaligeri è magnifica per liberalità; quan ­to differente dall’odio fioren ­tino che sbatte da finestra a finestra per ogni via.

Qui una sola famiglia a co ­mandare, i nobili uniti. Leti ­zia per le strade, il popolo allegro per il buon governo e per le feste; orgoglioso anche dell’onore militare degli Scaligeri.  

Nella corte ci sono biblioteche. E si possono fare i più svariati incontri: insieme vivono inglesi e francesi, fiamminghi e tedeschi. Vi sono accolti i profughi politici Ghibellini, gli esiliati Bianchi, e uomini dotti di tutto il mondo, gli spiriti irrequieti e bizzarri.

Ma non solo, negli Scala c’è anche un che di eroico, di temerario. Una corte che ospita le nuove anime del Rinascimento e conserva la violenza religiosa â— rosario e pugnale â— del Medioevo.

Ecco, per esempio, una volta il Cangrande.

Quando Dante arrivò a Verona il Cane era giovanetto si aggirava avido per i saloni, tutto desiderando conoscere.

Presto divenne capo degli Scaligeri e Vicario imperiale. Ed era un giorno alle nozze di suo nipote Franceschino con la figlia di Luchino Visconti.

Si svolgeva il banchetto. Le fragranti vivande gareggiava ­no in colori con le sete e i broccati delle dame e genti ­luomini. Correvano i servito ­ri, smorfiavano i pagliacci. Lungo l’immensa tavola eran sedute le più diverse figure, suonavano le differenti favelle.

Si affacciò al salone un cavaliere polveroso e sudato, corse verso il Cane, non ve ­dendo altro che lui. Gli arri ­vò sul muso e gli annunciò che i padovani stavano ag ­gredendo Vicenza.

Il Cane si alza da tavola, afferra le armi. Di colpo ra ­duna cento soldati.

Furiosamente frustano i ca ­valli. Una sola volta il Cane si ferma, a un casolare. Do ­manda alla vecchia un bic ­chier d’acqua; si sofferma per una preghiera.

Piombano tutti e cento su Vicenza, che è per soccombere.

I padovani, già superbi del ­la vittoria, vengono trucidati.

 

*

 

E a Verona â— gloria agli Scaligeri â— Dante fu accolto, alla bella corte. E delicatezza di quei signori! Non aspetta ­no che chieda, indovinano ciò che abbisogna. Tutto è agevole: lo studio, le dotte discus ­sioni, il meditare, gli svaghi, i tornei.

C’è anche un fiume a Ve ­rona, che un poco assomiglia all’Arno. E purtuttavia dei giorni, all’improvviso, la no ­stalgia di Firenze, degli amici e nemici, è così forte che di per se stessi si alzano i versi, la mano deve solo registrarli sulla carta.

Nelle giornate che tutto dentro gli si infuria, nascono episodi dell’Inferno, si scatena il canto.

 


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Bart