LETTERATURA: I MAESTRI: Il primo albergo11 Febbraio 2013 di Mario Tobino Che fare? Dove andare? Quale via prendere? La sua fantasia â— uguale alle enormi ali di Lucifero â— piomba sul passato, il presen te, il futuro, su tutto ciò che trasfigurerà e farà eterno. Oggi è odiato e sconfitto. Chi lo accoglierà, chi sorride rà a lui? Pochi giorni prima l’umiliazione di non poter re carsi neppure in Casentino, ai funerali di Romena, l’unico amico rimasto. Facendosi umile, prometten do â— con la malleveria del fratello di passaggio ad Arez zo â— riesce a contrarre un piccolo prestito, un gruzzolo appena sufficiente. I viaggi sono lunghi, pesanti, fastidio si; l’estate per i poveri ha la compagnia di mosche e ta fani. Dante ha trentanove anni. Dietro di sé una grande espe rienza. In Comune è stato al le prese con uomini di ogni specie; si dimostrò sottile nel le ambascerie. Coi comizi ha valutato la potenza del suo parlare, tutti infiammava, lui stesso diventava più sicuro. Come poeta è quasi celebre. Già accade che, tra l’uno e l’altro atto legale, i notari tra scrivano i suoi versi; con ac curatezza sulla cartapecora di segnano le parole delle sue canzoni. Anche Cino, Guinicelli, Ca valcanti, hanno considerazio ne, ma lui ha parlato più alto e schietto, con più ardore, le fanciulle sanno a memoria i suoi versi d’amore, se ne ci bano, versi nella lingua di tut ti, che suona per le strade. Dante nell’agosto 1304 â— in quell’estate afosa di delitti; l’ultimo è stato l’avvelenare il buon domenicano, papa Bene detto XI â— Dante sceglie la via. Non vedrà mai più Firenze, la città più bella del mondo.
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In questi ultimi mesi, fati cando tra foreste, fangosi sen tieri, polverose viacce, men tre l’attività politica stagnava e i compagni d’esilio reitera vano le eterne recriminazioni, i torvi propositi, le vendette ormai quasi stantie, egli così spesso col pensiero tornava su i propri studi, con nostal gia riviveva le ore passate a meditare; con smarrimento av vertiva le lacune del suo sa pere. In se stesso raccolto â— già alieno a quei compagni â— nasceva acuta la voglia di ap profondire la filosofia, co struirsi un proprio ordine; mettere a fuoco la religione, chiarire i rapporti tra Chiesa e Stato, cosa in assolutezza è il papa e cosa l’imperatore. E diventare padrone dell’astro nomia, essere per lo meno a paro con l’Almanacco di Profacio ebreo, con riverenza av vicinarsi all’astronomo arabo, ad Alfergano, ai suoi Elemen ti di astronomia. Come può uno che nella Vita nuova ha promesso di fare un’opera mai stata nel mondo, non avere confidenza con gli astri, non muoversi tranquillo per le vie del cielo? Necessario anche toccare con più accortezza le radici del volgare, per il quale tutti, anche gli umili, lo intenderan no. Necessario venire davvero a tu per tu con i provenzali, con Giraldo de Bernelh, can tore della rettitudine, con Ar naldo Daniello. Il gran punto già chiaro è che i provenzali non cantarono solo d’amore, discussero anche di guerra, erano avvinti da passioni civili, da quelle morali. Affinare ogni strumento, es sere il signore di tutta la cul tura del proprio tempo.
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Finora Dante ha accumula to fatti; con che avidità ascol tò le storie passate della sua città, gli episodi. Mentre i vec chi parlavano vedeva i volti, le espressioni, i gesti, scaturi vano le frasi. E poi lui stesso fu attore a Firenze, un capo, nei comizi, divorato dalla politica, dedito, partecipe alle ire, alle vendette, alla libidine delle fazioni, all’esasperato bisogno dei Bian chi â— eredi di Giano della Bella â— di mettere giù nella melma la superbia dei ma gnati. E intanto non trascurava le belle donne, se ne innamora
va, peccava di lussuria; batteva spesse volte di notte le taverne. Ma quando, quando si era davvero potuto dedicare alla serena meditazione? Un’opera, la grande opera, nasce se si è tutto per lei. Tanti sono i fatti che ingom brano la fantasia; si tratta di disporli, filtrarli, innalzarli in architettura, tramutare in can to, dalla materia luce. Adesso, se vorrà attuare, è necessaria la serenità, che qualcuno lo agevoli nei biso gni, offra l’indispensabile. E che ci siano i libri, molti glie ne mancano; vuoti nella sua dottrina. L’imperativo è non lasciarsi chiudere dalle mura del paese, non offuscarsi, non brancolare come i suoi com pagni di esilio. Finire ristret to è come prendere la scabbia e grattarsi con ferocia in vece di pulirsene. Il bel col po è essere internazionali, udi re ogni soffio, la rosa dei venti. E Verona è il nido, la dol ce speranza. Dante già l’ha conosciuta per quella volta che ci arrivò prima della bat taglia di Pilucciano, a chiede re aiuto di fanti e cavalli. La corte degli Scaligeri è magnifica per liberalità; quan to differente dall’odio fioren tino che sbatte da finestra a finestra per ogni via. Qui una sola famiglia a co mandare, i nobili uniti. Leti zia per le strade, il popolo allegro per il buon governo e per le feste; orgoglioso anche dell’onore militare degli Scaligeri. Nella corte ci sono biblioteche. E si possono fare i più svariati incontri: insieme vivono inglesi e francesi, fiamminghi e tedeschi. Vi sono accolti i profughi politici Ghibellini, gli esiliati Bianchi, e uomini dotti di tutto il mondo, gli spiriti irrequieti e bizzarri. Ma non solo, negli Scala c’è anche un che di eroico, di temerario. Una corte che ospita le nuove anime del Rinascimento e conserva la violenza religiosa â— rosario e pugnale â— del Medioevo. Ecco, per esempio, una volta il Cangrande. Quando Dante arrivò a Verona il Cane era giovanetto si aggirava avido per i saloni, tutto desiderando conoscere. Presto divenne capo degli Scaligeri e Vicario imperiale. Ed era un giorno alle nozze di suo nipote Franceschino con la figlia di Luchino Visconti. Si svolgeva il banchetto. Le fragranti vivande gareggiava no in colori con le sete e i broccati delle dame e genti luomini. Correvano i servito ri, smorfiavano i pagliacci. Lungo l’immensa tavola eran sedute le più diverse figure, suonavano le differenti favelle. Si affacciò al salone un cavaliere polveroso e sudato, corse verso il Cane, non ve dendo altro che lui. Gli arri vò sul muso e gli annunciò che i padovani stavano ag gredendo Vicenza. Il Cane si alza da tavola, afferra le armi. Di colpo ra duna cento soldati. Furiosamente frustano i ca valli. Una sola volta il Cane si ferma, a un casolare. Do manda alla vecchia un bic chier d’acqua; si sofferma per una preghiera. Piombano tutti e cento su Vicenza, che è per soccombere. I padovani, già superbi del la vittoria, vengono trucidati.
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E a Verona â— gloria agli Scaligeri â— Dante fu accolto, alla bella corte. E delicatezza di quei signori! Non aspetta no che chieda, indovinano ciò che abbisogna. Tutto è agevole: lo studio, le dotte discus sioni, il meditare, gli svaghi, i tornei. C’è anche un fiume a Ve rona, che un poco assomiglia all’Arno. E purtuttavia dei giorni, all’improvviso, la no stalgia di Firenze, degli amici e nemici, è così forte che di per se stessi si alzano i versi, la mano deve solo registrarli sulla carta. Nelle giornate che tutto dentro gli si infuria, nascono episodi dell’Inferno, si scatena il canto.
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