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LETTERATURA: I MAESTRI: Il sigaro del re

19 Aprile 2018

di Mosca
[dal “Corriere della Sera”, martedì 21 luglio 1970]

Avete notato come l’uso del ­le lettere maiuscole â— le quali una volta variavano il paesaggio della pagina popo ­landolo di torri e di campani ­li â— vada così decadendo da far preveder prossima la sua completa estinzione?

Sopravvive negli indirizzi. «All’Esimio Avvocato… », «All’Illustrissimo Dottor… », « Al Molto Reverendo Padre… », dove anche un modesto av ­verbio di quantità giunge, per contagio, a godere dell’onore della maiuscola, « A Sua Ec ­cellenza il Signor Ministro… », eredità tenace d’una nostra storia fatta di servitù, di pau ­re, di inchini, di suppliche, di rispettose e adulatorie dedi ­che al potente: « A Sua Al ­tezza Imperiale Eugenio Napoleone Di Francia, Viceré D’Italia, Arcicancelliere Di Stato Dell’Impero Francese, Principe Di Venezia, Eccete ­ra… », così Vincenzo Monti presentò la traduzione del ­l’Iliade, maiuscoleggiando, per motivi di simmetria, non solo le preposizioni semplici e ar ­ticolate, ma perfino l’eccetera, e non vi sembra questo un paesaggio tutto italiano, nel quale ogni parola è un paese dalle piccole case dominate da un castello, da un torrione, da una cattedrale?

Pensate a una pagina tutta fatta di minuscole. Niente di più piatto, di più monotono. In Italia la varietà e la bel ­lezza nascono dalla paura. Paesi e città arroccati sulle cime dei monti, cinti da mura merlate, sentinelle dalle arma ­ture scintillanti sulle torri, chiese robuste come fortilizi, la croce del campanile simile all’impugnatura d’una spada, e freddo, fame, sete, mentre giù, nella pianura continua ­mente percorsa da truppe stra ­niere, fiumi limpidi, terre fer ­tili, boschi ricchi di selvaggi ­na, e laggiù il mare popolato di navi saracene dalle lunghe orifiamme colorate.

*

Ora che la paura è finita, tutto quello ch’è in alto si spopola. Le finestre contro i cui vetri fiammeggiava, una volta, il sole al tramonto, e che la sera s’accendevano ad una ad una di lumi tremo ­lanti, ora sono nere occhiaie vuote. Abbandonate le chie ­se, arrugginita la spada sul campanile, diroccate le for ­tezze, poche le mura ancora in piedi.

Crollato il regno delle ma ­iuscole. I discendenti del Si ­gnore che, Padrone di quelle Torri e di quei Castelli, eser ­citava, riverito, lo Jus Primae Noctis, ora sono nei guai con la giustizia per certe note com ­promettenti trovate nel tac ­cuino d’una lolita. Il Progresso che con le sue Meraviglie scatenò gli entusiasmi dell’Ot ­tocento, popolò di maiuscole i romanzi di Giulio Verne e ispirò il Ballo Excelsior, ades ­so, dopo la bomba atomica e le camere a gas, si scrive soltanto progresso, e se, Dio ne guardi, dovesse succede ­re qualcos’altro di molto gra ­ve finirà con lo scriversi progresso.

Residui di vecchi entusia ­smi troviamo, ogni aprile, al ­la Fiera di Milano, ostentante ancora i suoi ottocenteschi Viali del Lavoro, delle Indu ­strie, dei Commerci, delle Sco ­perte e delle Invenzioni, e a Tarbes, la cittadina della Gua ­scogna che dette i natali a D’Artagnan, laggiù, in vista dei Pirenei, le cui strade prin ­cipali sono intitolate alla Li ­bertà, all’Uguaglianza, alla Fraternità, ai Diritti dell’Uo ­mo, e ci sono anche, in pe ­riferia, verso la strada che porta a Bagnères de Bigorre, i Vicoli dell’Onestà e della Dignità.

Col cadere dei sogni, sono cadute le maiuscole, le quali, da molti, non vengono più usate anche per significare che l’importanza d’un uomo o di un istituto dipendono dalla loro sostanza e non dai pen ­nacchi (vedi maiuscole) di cui si adornino. Se c’è ancora il Dottor Professor Tal dei Tali Primario del…, quanti bi ­glietti da visita non ricevete in cui non si legge che « carlo rossi » o « filippo bianchi »? Eppure sappiamo che Rossi ha tanto di laurea e che Bianchi è stato insignito di più ono ­rificenze, non solo, ma è an ­che barone. Perché tanta mo ­destia? Un po’ per contesta ­zione (« Io valgo per me stes ­so, non per i miei titoli »), ma soprattutto per quell’orgo ­glio che è tanto più forte quanto più si compiace di amman ­sarsi di modestia.

*

A questo si aggiunga un certo qual desiderio di distrug ­gere che ci ha presi tutti, forse per vendicare i nostri nonni e i nostri padri che passarono la vita nel rispetto e venerazione di valori sui quali non si osava discutere. Ricordo che da bambino credevo che il governo fosse un signore molto alto, vecchio, la barba, la tuba, e sempre vestito di nero, press’a poco come il Direttore della scuola descritta da Edmondo De Amicis. Quando venni a sapere che il governo era co ­stituito da un insieme di per ­sone alcune delle quali di bassa statura e vestite di chiaro, provai una grave delusione, ma non per questo cessai di chiamarlo il Governo, con tanto di maiuscola. Potevo for ­se fare altrimenti? Era il tem ­po dei Bersaglieri, dei Carabi ­nieri, di Sua Maestà il Re d’Italia, della Patria, dei Sa ­cri Confini. Naturale che an ­che il Governo, i Ministri, e perfino i Sottosegretari aves ­sero diritto alla maiuscola. Non parliamo della Giustizia. Mio padre era impiegato al Ministero di Agricoltura In ­dustria e Commercio (oh i via ­li della Fiera di Milano!) e se anche, appartenendo alla categoria C, non guadagna ­va più di cento lire al mese aveva dietro le spalle questa selva di torrioni che lo ren ­deva importante. Fu Cavaliere dell’Ordine Mauriziano.

Da ragazzo, abitando in via Nomentana assisteva dal bal ­concino al passaggio quotidia ­no di Re Umberto che gui ­dando personalmente il pro ­prio phaéton andava a pren ­dere aria in campagna, dov’è adesso la « città giardino ». Una mattina il re buttò via la cicca d’un sigaro che mio padre â— tanto precipitosa ­mente discese i cinque piani di scale â— raccolse ancora accesa. La spense rispettosa ­mente perché non si consumasse di più, non possedendo oro le fece una base di ottone, e il Sigaro del Re di ­ventò il più bell’ornamento della casa. Mio padre me ne fece dono il giorno in cui en ­trai al ginnasio. Ce l’ho an ­cora. Dovete perciò scusar ­mi se rimpiango le maiuscole. Vengo da una famiglia vissu ­ta per molti anni nella vene ­razione d’un Sigaro.

*

E se veneravo un Sigaro, potevo non venerare il Governo, i Ministri, i Sottosegretari, la Scuola, il Direttore, il Preside, l’Ordine, l’Igiene, la Donna, la Poesia, la Bellezza, l’Onore?

Erano tanti pilastri che mi davano una sensazione di for ­za, di sicurezza. Avevo tren ­tasei anni quando per la pri ­ma volta nella mia vita venni presentato a un ministro, la personificazione della qual pa ­rola era per me Giolitti. Nell’anticamera tremavo tutto. Mi chiedevo se avrei mai avuto il coraggio d’aprir bocca da ­vanti a un ministro. Cosa avrei potuto dire che non fosse sta ­to povero, misero, sciocco? Altra terribile delusione. Le cose povere, misere, sciocche le disse il Ministro, e quella maiuscola, ricordo, mi crollò ai piedi con lo stesso schianto che un campanile o un torrio ­ne corrosi dal tempo.

Sì, lo so, i miti se li è por ­tati via il vento, nelle città e nei paesi sulle cime delle mon ­tagne non vi sono che i cani e la luna, la M del ministro è un mucchietto di macerie ricoperto d’erbacce, ma per me che vengo dai tempi del Sigaro, è una pena, credete, leggere palazzo di giustizia, uf ­fici del registro, direttore, pre ­side, ministro dei trasporti, esercito, quarto corpo d’arma ­ta, procuratore della repubbli ­ca, e, soprattutto, non più Sta ­to ma stato.

Sembra che tutto quell’in ­sieme di genti, di terre, di isti ­tuti, di leggi, di tradizioni, di memorie, di glorie, di sventure, nel quale a ogni uomo è dato di esaltare fino alla maiuscola la propria Dignità imperso ­nando la sovranità di tutto un popolo, si sia ridotto a nient’altro che a un participio passato.

 


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Bart